

Il mio scrittore preferito? Non è uno solo, come immagini, ma adesso mi viene in mente solo un nome: Heinrich von Kleist. Non posso fare a meno di Kleist e parlando di lui comincio dalla vetta, senza nessun dubbio. È come se mi chiedessi nome e cognome: ti risponderò con esattezza. Il primo racconto in cui mi riconosco come scrittore, dedicato proprio lui, risale al 1981.
Per quale ragione gli uomini si augurano tutti di morire decrepiti, come se la natura fosse obbligata a rispettare un lunghissimo ciclo vitale? Il cuore umano non conosce che la gioventù, o dell’anima o del corpo o di entrambi.
Io, se penso a Kleist, penso ai pini, agli abeti, alle macchie di rovi, alle radure sabbiose che hanno scrutato i suoi occhi, trasformandoli in distese favolose dove è incantevole camminare senza resistere all’idea di voler camminare ancora e per sempre; vedo quell’orizzonte dove si precipita il suo sogno senza pareti visibili; vedo alcune lontanissime rocce che sembrano disegni a carboncino, simili ai resti di un lontano incendio. Anche Stifter e Goethe sfumano in una nebbia irragionevole, ma in me suscitano un pallido interesse.
Bruciato Roberto il Guiscardo, a Kleist cosa restava, se non oltrepassare il romanzo come intreccio, architettura, labirinto, e sparire? Fu alfiere a Postdam. Ma sparire è un atto solitario, senza eco, più debole della potenza del suo cuore. Occorre condividere quell’atto, ed ecco apparire la prodigiosa Henriette: malata terminale, soggetto docile e giusto. Costruire con lei una misteriosa unione, per il tempo della sparizione: ecco il progetto dell’eroe. Morire dentro l’enigmatica ebbrezza di pensarsi, dopo la morte, distesi insieme. Gettare la vita nel fuoco, come Empedocle, ma con una compagna. Scrive Hölderlin: «Senti questa pace attorno? Riconosci il silenzio del dio insonne? Aspettalo qui». È un abbraccio, la morte, e nel momento di quell’abbraccio non si è più soli sulla strada per Postdam. Scrive Heinrich alla sorella Ulrike: «La verità è che per me sulla terra non c’era soccorso. E ora addio: il cielo ti conceda una morte che somigli solo a metà per gioia e indicibile allegrezza alla mia: questo è l’augurio più affettuoso e più sincero che possa farti». Kleist vuole riconciliarsi con la vita abbandonandola, vivere la morte felice e non i giorni umilianti. «Ora, immortalità, tu mi appartieni». Penso a Kleist ogni volta che regolo i miei passi sulla strada che percorro e la regola non è mai quella che prevedo ma un ritmo nuovo, incalzante: se lui fosse stato un architetto e avesse dovuto costruire un ponte, si sarebbe chiesto come le arcate potessero restare sospese senza crollare e l’idea del crollo avrebbe cominciato ad agire sulla sua mente come un veleno lentissimo. Non posso, pensando a Kleist, che ricordare certe Sonate dell’ultimo Schubert (ultimo è parola, beffarda, Schubert morì a trentun anni) dove, da certi accordi ribattuti e dalla loro eco ipnotica, posso intuire “il silenzio del dio insonne”, quel dolce dolore destinato ad annientarci.
Il segreto di Kleist è l’evidenza dell’invisibile: non essere mai dentro la vita ma sempre, giorno dopo giorno, con la mano che avvicina e allontana il cappio dal collo. Se leggete i suoi racconti, ogni storia è un cristallo che vi sorprenderà e una fiamma che vi brucerà. Già da bambino Heinrich non si arrende a una vita adulta, fatta di commerci, sesso, denaro, rughe, demenza. Il cristallo è la sua mèta e arde come un fuoco. Vita come eccezione, eccezione ripetibile. Io stesso, da viandante, percorrendo a piedi i suoi luoghi, provocando la memoria, ricucendo la ferita come sempre accade a chi viene dopo, mi chiedo se non potesse scegliere un’altra strada, diversa da quella, ineluttabile nella quale è piombato. Ma, per il trasognato poeta che voleva afferrare i suoi pensieri affondando le mani nel muscolo del proprio cuore, non c’era niente che il cuore potesse accettare senza umiliarsi.

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La tua osservazione è esatta. Kleist non poteva arrendersi a ordini e gerarchie. Il sapere del mondo intero era tramontato da decenni, anche se non per i poeti ufficiali. Si potrebbe parlare di un trionfo della non-conoscenza. Detestava, Kleist, il mito onnipotente di Faust: quella che Faust avidamente cercava era solo l’immortalità di un corpo giovane. Lo stesso Hölderlin si sarebbe vergognato davanti a Kleist: alla fine, il poeta di Lauffen si era arreso alla malattia diventando un mite schiavo, chiuso nella torre di Tubinga. Per Kleist la follia non era una cosa così oscura e totale, ma un invasamento della mente, un’ebbrezza di luce. Quei due colpi di pistola, lucidi e secchi. Dopo, radura e rovi. È come se lo vedessi sempre, quel bagliore accecante, quel pulviscolo. Due corpi immobili ma forse nessun corpo: resti lievi, lontani dalle spiegazioni degli uomini. «Se fosse possibile respirare appena un minuto» si chiedeva sempre, da giovane, il giovane Kleist. Vedeva, attorno a sé, ragazzi, soldati, adulti, che obbedivano alle cerimonie ufficiali della loro esistenza avendo dimenticato quel respiro. E invece no, per lui non era possibile, non per lui. Fece di tutto: scrisse, viaggiò, sognò, si fidanzò. Ma alla fine c’erano solo due vecchi genitori che disprezzavano quel povero giovanotto che gli era capitato come figlio. Non poteva finire così.
Con il suicidio Kleist avrebbe toccato l‘immortalità. I suoi libri, forse, chissà, in futuro. Ma lui la esigeva ora. Era impaziente, non avrebbe aspettato un minuto di più. Non si conquista la vita se non cesellando la propria morte, se non trovando la sola pallottola necessaria, quella da tirarsi dritta al cuore. Titanismo, dirai. Naturalmente. Ma un uomo che sparisce dal mondo con l’energia di un ragazzo, che non vuole scrutare i paesaggi secondari, le nebbie della vallata, che vuole, con la sua sposa di un attimo, uscire dai recinti della norma e trovare il silenzio come un fulmine: ecco Kleist. Ogni opera tende, perfetta, alla sparizione perfetta. Ogni vita esiste solo nel momento in cui sarà troncata. Continui a essere se stesso, il luminoso Goethe, inutilmente irriso da generazioni romantiche. Quella scrittura ampia e solenne esige una vecchiaia riflessiva e pensosa, così come è naturalmente accaduto. Ma Kleist odia essere adulto. La sua Henriette Vogel, che senza rimpianti scambia il dolore terreno con la felicità celeste, esegue il suo desiderio alla lettera, anche se per lei è sempre immaginabile un Dio. Non per Heinrich, che si limita a essere Dio sulla strada di Postdam, nell’attimo in cui esplode i due colpi: decide, in quell’attimo esatto, che ci sia un prima e che ci sia un dopo, con l’impazienza della divina giovinezza.
Anch’io, talvolta, camminando nei suoi luoghi, mi chiedo se il suo pensiero non sia stato il cristallo più fulgido: quello di cui gli uomini dimenticano lo splendore invecchiando. Qualcuno lo conserva, tenendosi stretto il proprio delirio nella mente. Altri, neppure quello. A che vale essere vissuti, se non abbiamo sognato di essere Empedocle? O un Giulio Cesare Vanini, destinato a bruciare nel rogo a Tolosa il 6 febbraio 1619, perché omise di confermare la firma di Dio a creatore di tutte le creature? Sparire è pensare con coraggio la pianura dopo di noi, i suoi tramonti e le sue albe. Perché mondo e natura non sono nostre proprietà, ma soffi leggeri attraverso i quali tormentosamente avanziamo finché siamo in vita. Io capisco che troverò, anche oltre il destino di Kleist, le tessere che compongono il mio: le vertigini che mi perdono sono le architetture che ritrovo. Io sono e non sono quelle vertigini e quelle architetture.
(M.E.)
Il testo è tratto dal libro in fieri “L’altro dentro di me”.

