Carte segrete
Alessandro Spina, Cristina Campo
Per Alessandro


S. Antimo, 3 giugno 1970
Amico mio,
ho avuto una strana impressione, lo scorso mercoledì, mentre mi avvicinavo a S. Antimo. La basilica mi attendeva laggiù, nel mezzo di una pianura accogliente. Il vento soffiava forte. Mi fermai per un attimo: mi voltai a destra, sprofondando nel silenzio: a sinistra e il rumore del vento mi frastornò. Fu in quel momento che, portate dall’aria, distinsi due voci: una di un uomo, l’altra di una donna. Non c’era nessuno nella pianura ma il vento le portava fino a me. Le sentivo chiaramente ma non percepivo le parole: era una lingua bisbigliata, che le correnti dell’aria rendevano incomprensibile. Come avrei voluto capire tutto e tracciare ogni parola su un foglio! Forse due amanti si stavano scambiando parole d’amore. Forse una madre salutava il figlio dopo una lunga assenza. O un amico confessava all’amica i suoi pensieri più segreti.
Come un rabdomante va scoprendo vene d’acqua sottoterra, io percepivo quelle voci nell’aria. Là, nella solitudine, non potevo fare a meno di udirle. Mi pareva di essere nata con quel solo scopo: udirle, nella pianura erbosa, davanti alla pietra lucente di S. Antimo. Capii, dopo un attimo, di stare assistendo a qualcosa di prodigioso: per non non so quale miracolo, nel mistero di quel luogo, due esseri umani tornavano vivi e riprendevano a parlarsi. Le voci si incrociavano nell’aria come in una partitura. Rimpiansi di non saper decifrare le parole; e, se non le parole, almeno le note di quel canto.
Lei sa perfettamente, Alessandro, perché noi scriviamo – e per noi intendo quella comunità silenziosa di cui è quasi inutile pronunciare i nomi. Scriviamo per non essere inclusi. (Rubo le parole a Ennio Flaiano, uno scrittore a me non familiare.)
Nessuno di noi, per esistere realmente nella sua più intima natura, ha bisogno del sostegno di una leggenda o del conforto di una biografia. La nostra opera, sconveniente o smisurata, inflessibile o adamantina che possa essere, deve avere una sua definitiva irriconciliabilità con qualsiasi adeguamento al mondo.
Aver sentito quelle voci nell’aria mi ha fatto rivivere questo destino di “non-riconciliata”. Io sono una scrittrice fuori dal mondo, che ha ascoltato due voci fuori dal mondo e ne ha registrato la presenza in una sacra pianura erbosa, dove millenni fa la parola era un evento straordinario.
Non so, oggi, cosa significhi vivere da scrittori in questo mondo. I nostri testi, anche quando fortuitamente diventano pubblici, restano comunque carte segrete. Lettere, appunti, taccuini: un materiale che brucia, che sarebbe più facile richiudere in qualche archivio, sottraendolo per sempre al giudizio del mondo. Il misconosciuto Leopardi, che pubblicò oltre un secolo fa, nella più totale indifferenza, le Operette morali, osava sperare nella giustizia postuma del critico futuro e del lettore veggente, poteva confidare nel suo sguardo cosmico e risolutivo. Oggi nessuno di noi può sperare nulla di tutto questo e solo un caso fortuito – l’occhio misantropo e bizzarro del lettore occasionale, la riscoperta del libro eretico e imperdonabile nel mare magnum delle sciocchezze stampate – saprebbe assicurargli, accidentalmente, una traccia duratura nella memoria degli uomini.
Noi siamo la parte occulta della scrittura – quella che non semplifica e non consola. Siamo un lampo di coscienza che serve a illuminare un paesaggio di macerie. Ma chi ha abitato queste macerie? E’ giusto viverle sempre come tali? Non è forse necessario immaginare i sermoni di Donne, fantasticare la voce di Shakespeare, rivivere i pellegrinaggi di Cervantes, per essere contemporanei?
Si scrive, lei lo sa, tastando nel buio, senza sapere di cosa andiamo in cerca. Si scrive per toglierci dalla faccia questa maschera prevedibile e asfissiante: l’aria è così vecchia attorno a noi, tante volte già respirata…
Ma noi, Alessandro, restiamo in ascolto. Non siamo mai soli. Esercitiamo quella che si chiama attenzione – una forma di amore per le voci dei morti. I morti, come sappiamo, non sono mai sepolti troppo bene. La terra smotta, l’aria vibra, e loro sono qui, gomito a gomito con noi, sullo stesso argine nel quale scriviamo. A volte – mi corregga se sbaglio – scrivendo lettere e taccuini – queste nostre carte segrete – non sembra che appartengano solo a noi, bensì a loro. Loro sono noi.
Meditiamo sul mare, e ci vengono alla mente Omero e Melville. Pensiamo all’amore, e ci torna alle labbra un verso di Dante. Vivono sempre attorno a noi, con tutti i dolori e tutte le speranze, come ritmi di un canto che non è stato compiuto, come sillabe di un testo che non si finisce mai di scrivere. Non siamo soli a parlare. La scrittura è materia di sogni, che a loro volta generano sogni; abita e turba il possibile. E ogni futuro, amico mio, è un futuro eventuale. Non c’è mai nulla di impensabile. Ogni ipotesi dilaga nel campo delle ipotesi infinite, dei mondi paralleli, di chissà quali orrori e meraviglie.
Quando questa mia lettera le arriverà, forse non sarò più viva. Il mio cuore ha già subìto lunghe assenze, come se non volesse più battere in questo mondo. Ma, anche se questo accadesse, lei non si lamenti, non rimpianga niente – cammini in qualche sentiero e io la raggiungerò. Non era forse nostro, il sogno di sciogliere quei nodi che è impossibile sciogliere – le aride tesi del classicismo, gli astratti furori del romanticismo, gli strepiti infantili delle avanguardie? L’unica forma legittima di immaginazione è un’attenzione medianica che non sia distratta da niente e da nessuno: non sopporto l’impazienza caotica della fantasia, cerco una parola che, offrendosi nei suoi multipli significati, pur mostrando tutti i suoi strati geologici, riveli, in un punto preciso, il segreto di cui è l’unica portatrice – l’inflessibile segreto che non sospettavamo.
Lei sa quanto adoro la forma, come mi è piacevole ripetere le litanie di certi riti religiosi, come vorrei che tutte le pagine assomigliassero a degli scudi forgiati al fuoco dell’estasi e alla fiamma della chiarezza. Ma, più che la necessità della forma, io sento oggi la gioia silenziosa di una festa, perché tutto è ancora eventuale. La festa dell’amore può essere celebrata ininterrottamente, anche se con un brivido di terrore.
Con quelle due voci ancora nelle orecchie, quella bisbigliante dell’uomo e quella febbrile della donna, le giuro che ho tremato e non sono stata certa neppure della mia forma umana. E non avevo altro pensiero, dentro di me, se non quello di raccontare a lei, che mi ascolta da sempre, la mia irripetibile avventura: i morti, in realtà, sono vivi e stanno sognando il nostro stesso sogno. No, non saranno loro a risorgere. Saremo noi a morire, come è giusto. Ad entrare nel loro buio. Dove però non dormiremo, non avremo né stanchezza né sonno né fame, ma vigileremo e parleremo, senza comprendere nulla di quanto conosceremo, senza capire assolutamente nulla, come ci accadde in vita.
Sua Cristina.
*Il testo è tratto da Lucetta Frisa, Marco Ercolani, Furto d’anima. 40 lettere reali e immaginarie tra uomini e donne nella storia dell’arte, Greco & Greco, Milano, 2018.

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Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Guerrini, pubblica in vita due saggi, Fiaba e mistero, nel 1962, e Il flauto e il tappeto, nel 1971, oggi raccolti nel volume Gli imperdonabili. Traduce John Donne e William Carlos Williams. Commenta alcuni libri mistici, fra cui Detti e fatti dei pellegrini del deserto e Racconti di un pellegrino russo. Per Cristina Campo “la scrittura non cessa il suo inavvertito circuito; fiore, stella, morte, danza, continuano a somigliarsi”. E il suo invito allo scrittore è preciso: “Siedi contro il muro. […] Attendi il tuo turno. […] Ogni rigo è imperdonabile”. Uno dei suoi migliori amici fu lo scrittore Alessandro Spina, siriano di origine e naturalizzato italiano, con il quale ebbe una lunga corrispondenza epistolare, confluita nel volume Lettere a un amico lontano, pubblicato nel 1969 da Vanni Scheiwiller.
