OMAGGIO A BERNARD NOEL, 2 (1930-2021)

Per Bernard Noël

L’eresia dello sguardo

di Marco Ercolani

Postfazione a L’ombra del doppio (I libri dell’Arca, Joker 2007)

Antonin Artaud, in una prefazione scritta nel 1947 per una mostra di alcuni suoi autoritratti, scrive: «Il volto umano è una forza vuota, un campo di morte […] Dopo mille e mille anni che il volto umano parla e respira si ha ancora l’impressione che non abbia cominciato a dire ciò che è e ciò che sa […] Io non conosco un solo pittore della storia dell’arte, da Holbein a Ingres, che questo volto d’uomo sia giunto a farlo parlare. I ritratti di Holbein e di Ingres sono dei muri spessi, che non spiegano nulla […] Io ho d’altronde rotto del tutto con l’arte, lo stile o il talento, in tutti i disegni che si vedranno qui. Nessuno di essi è opera in senso proprio. Tutti sono degli schizzi, voglio dire dei colpi di sonda o di maglio dati in tutte le direzioni, secondo il caso, la possibilità o il destino. Non ho cercato di curare i miei tratti o effetti, ma di manifestare in essi delle verità lineari patenti che esprimano lo stesso valore sia attraverso le parole e le frasi scritte che mediante il grafismo e la prospettiva dei tratti». Le parole di Antonin Artaud, la cui opera è da sempre prediletta da Bernard Noël (v. Artaud et Paule, ed. ital. Joker, 2005), sembrano essere la matrice di questo suo libro di versi, L’ombre du double (P.O.L, 1993), dove domina la raffigurazione del volto umano come buco di tenebre, superficie scandagliata nelle sue parti – lingua, occhio, denti, capelli -, luogo di metamorfosi non sacre ma tese a rappresentare il destino tragico dell’io, soggetto alla pervasione violenta dell’altro.

«Il tuo viso lo vedi / che scivola sotto la morte // Tutto il sangue dello sguardo / qui e là nel buco»

Se è vero che il volto, connotato come sede della razionalità e dell’equilibrio, simboleggia l’unità psicologica del corpo, Noël sovverte definitivamente questo concetto, raffigurando una faccia umana trafitta da dissolvimenti, cancellamenti, fratture, non dissimile da certe perturbanti visioni di Munch o di Bacon. Questa deformazione porta con sé un presentimento di tragedia. In quanto maschera, il volto si oppone allo sguardo tranquillizzante che vorrebbe fissarlo come unità armoniosa o spirituale: è lui, ora, a guardare, a diventare soggetto non più obbligato a garantire la totalità del corpo, e riscopre così la sua natura frammentaria e rovinosa.

«forbici d’illusione/ ritagliano un io d’angelo»

Se «forbici d’illusione» ritagliano «un io d’angelo», questo apparente io angelico, estratto dalle forbici acuminate, è munito di una sua ombra infernale, «l’ombra del doppio». E, se il doppio è già un’ombra, il libro ne esplora il vortice di rispecchiamenti e di rifrazioni non con le armi della riflessione intellettuale ma con i ritmi della materia poetica.

«il mio presente è una pietra / me la getti negli occhi»

Il processo conoscitivo e poetico avviene attraverso la perdita dell’identità corporea. Il volto diventa un’immagine rifranta, minacciosa, che indica migliaia di apparenze non limitate da cornici consolanti, come accade quando ci riflette uno specchio. L’io sembra immergersi dentro una sporgente increspata; il riflesso si scompone, si fa flusso che trascina e disperde, porta l’immagine verso l’evanescenza; oppure ritorna acqua opaca, che nasconde l’abisso e sigilla i mutamenti, ipnotica e buia. Deluso dall’immagine ferma, evocata dallo specchio, il poeta sceglie la dissonanza dell’immagine mobile, frantumata dalle rifrazioni, cede alle vibrazioni del tema, al loro ground fondamentale, scompone la melodia in diverse isole timbriche ma senza nasconderne i suoni, rendendoli sempre riconoscibili, come un volto si riconosce anche attraverso le sue parti. La forma dell’io, alla radice, diventa visione del non-io, dell’io verso il tu.

«Nel tu / mangiando / l’io// i denti / girati contro la lingua // piaga aperta / piaga negli occhi»

Gli smembramenti del volto e del corpo, dell’io e del tu, non sono evocati con soluzioni drammatiche o espressionistiche: al contrario, il linguaggio poetico ne descrive con sobrietà la tragica scomposizione. Il tema fondamentale del volto scorre parallelo a quello della vista, rappresentata come potere di creazione/distruzione degli occhi, della bocca, della lingua, dei sensi umani, vissuti come prospettive in stato di pericolo, di dissolvimento.

«La tua lingua tocca l’occhio / brucia nella luce / tendi la tua mano di polvere»

La percezione dell’instabile identità dell’io è evocata con secca e minimale violenza dal poeta. Il linguaggio si snoda come un universo di microesplosioni. La scommessa formale che innerva L’ombra del doppio è raffigurare i sensi spezzati, il viso violato, l’io separato dal tu, con cadenze brevi e quasi gnomiche, sequenze e avvicinamenti di una partitura atonale, di una liturgia laica, ai limiti del silenzio.

«mangi la carta / la bocca si cancella // un pensiero eretto / davanti alla sua ombra // un tatuaggio nel fondo / degli occhi»

Attraverso una parola astratta, percorsa da «estratti» di corpo e tensioni metafisiche, Noël giunge alla percezione della carne straziata e vivente della parola, fatta con la materia stessa delle immagini. Ne scaturisce una poesia che la logica della ragione definirebbe «filosofica» ma che la realtà delle parole mostra come «esistenziale», fenomenologica. I «colpi di sonda» delle parole dissolvono l’unità del volto in un lampeggiare di schegge. Non esiste più un io dominante ma un io relativo e dolente, traversato da voci, invaso dal soffio poetico: «chi ha cominciato / in me / senza di me». La metafisica di Noël è un «simulacro del cielo / sotto le unghie» – non cielo totale ma spettro di cielo, di cui resta sotto le unghie del testimone un segno, un cenno.

«Lanci la sentenza di morte / la mano di polvere // Una lama di miraggio / cava l’occhio»

La parola miraggio, testimoniando la persistenza di un’illusione, dovrebbe rassicurarci, ma la parola coltello smentisce questa illusione. Lo smembramento del volto rappresenta la ferita della conoscenza umana, soggetta a violenze e fratture continue, che la rendono scorticata ma vivente.

«La mano si alza nera / la bocca è piena di tu // poi è una cucitura dell’ombra / in fondo agli occhi spogli»

Una faccia senza nome, persa nella moltitudine, mangiata, riassorbita dal nulla: una faccia oscena. La lezione di Artaud e di Bataille è evidente nel voler mostrare, oltre il visibile, ciò che dovrebbe nascondersi nell’ombra, ma questo atto, in Noël, è tanto spudorato quanto innocente e si accompagna a un sentimento di pietas per l’individuo come essere-nel-mondo. Una delle sculture più impressionanti di Alberto Giacometti, Testa su stelo, è una testa di moribondo conficcata sullo stelo come quella di un decapitato, le orbite scavate, la bocca spalancata in un grido: l’artista la scolpì in occasione della morte di un amico, durante un viaggio in Olanda. «Non era più una testa viva – scrive Giacometti – ma qualcosa di vivo e di morto, simultaneamente».

Di vivo e di morto, simultaneamente, come le immagini che alludono al disastro di un volto e di un corpo, sempre sfigurato e sempre ricomposto.

«Una faccia umana / che non ha nome / volto senza testa // anche sfigurata / la faccia umana / mangia al nostro viso / il suo silenzio / è la bocca nera / dove il tu si getta nell’io»

La violenza surrealista della materia poetica è un flusso bloccato in immagini-schegge, atonali, neutre. Opponendosi alla dolcezza cantilenante della sua stessa lingua, Noël lavora su azioni brevi, su parole isolate. Costruisce una piccola insurrezione antiretorica, non permettendo alla poesia di svilupparsi in discorso ma rendendola isola frammentaria, esplosa, scheggiata. Il clima che ne deriva, acuito dalla semplicità dei mezzi, è un «campo di sterminio» fisico e metafisico, dove ogni frammento di corpo, di volto, di pensiero, è atto di eresia contro i soprusi del reale. Le simbologie che appaiono nelle diverse sequenze poetiche – dal doppio all’ombra al fantasma allo specchio – sono sottoposte a una decisiva immersione dentro lo strazio del corpo, cesellato dalle alchimie di una lingua volutamente scarna.

«Il sacrificio dell’io / al tu // lo sgozzarsi verbale / dell’illusione con l’illusione»

Come scrive di Zao Wou-Ki in Les Yeux dans la couleur, il lavoro dell’artista è «lavoro lucido / lavoro di grande silenzio / lavoro di forze slanci porosità / di materie / non di immagini».

All’interno di una materia che non è ancora immagine, l’opera di Noël è un diagramma spezzato che ricorda le riflessioni di Gilles Deleuze sulla parola poetica che continua a sfuggire e a balbettare, straniera nella sua stessa lingua, traversata da metamorfosi, porosità, continui dissolvimenti e ricuciture. Gli occhi di molti tu sono la «sostanza stessa del mondo», come scriveva già il giovane Noël in Les lieux des signes (1950): Una sera, gli oggetti si misero a vivere e subito credetti di sognare. Il mondo si scomponeva. Le cellule si ribellavano. Una vita atomica mi avvolgeva. Cominciò con lo schienale di una sedia, poi, sempre di più, il movimento raggiunse tutte le cose che popolavano la mia stanza. Dappertutto, occhi spingevano e mi guardavano; dappertutto, folle di occhi animati da movimenti ondulatori. Credetti di sognare; ebbi paura; infine pensai di essere penetrato di colpo bella sostanza del mondo, e non so ciò che accadde di me durante lunghe ore, per giorni interi.

Il poeta insegue quello stato di trance che, alla fine, si mostra con parole isolate, sospese, ellittiche, alla soglia del silenzio. Attraverso quelle parole Noël si avvicina all’intuizione centrale della sua poetica: usare l’irrealtà della visione e del sogno come materia, come strumento attraverso cui deformare e trasformare, reinventandolo, il reale stesso.

«la lingua tasta / un filo d’aria // immette parola su parola / sopra un po’ di pelle // Può forse l’irreale / sognare il reale / ricondurlo dopo / alla realtà // Il tu divora l’io / poi lo ricopre della sua ombra // ma l’altro laggiù nel fumo / indossa il corpo che fu mio».

Lingua, pelle, io, fumo, polvere, occhi. Come scrive Henri Michaux: «L’io non esiste. IO è una posizione di equilibrio». Intorno ai paradossi di questo equilibrio, in un incessante cortocircuito generativo tra altro e io, tra io e ombra, Noël non rinuncia a seminare e a smarrire la sua lingua, sospesa tra afasia ed eccesso.

«a ciascuno la sua razione d’ombra / per addobbarsi di immagini».

Note

Le citazioni senza riferimento ad altre opere sono tratte dai seguenti libri di Bernard Noël:

L’ombre du double, P.O.L, Paris, 1993.

Les Yeux dans la couleur, P.O.L, Paris, 2004.

Les lieux des signes, Éditions Lignes & Manifestes, Paris, 2006.


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