LO SGUARDO VICINO. Fabrizio Zollo

LO SGUARDO VICINO
PHOTOGRAPHY
Catalogo della mostra
Palazzo comunale – Pistoia
1-31 Maggio 2021

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Lo sguardo vicino


Nella fotografia ho sempre privilegiato la tematica del ritratto, con la
quale tento di cogliere nella fisiognomica del modello la parte profonda
del suo essere, spesso insondabile a lui stesso.
Se persino la persona ritratta stenta a riconoscere in quell’immagine del
‘sé’ un riflesso della propria personalità è perché anche l’essere umano,
come il quarzo, riflette la luce nei variegati modi in cui questa lo attraversa.
Quando l’amico – e modello – Andrea Sabatini mi ha sottoposto l’idea
di realizzare una mostra fotografica che avesse come protagonisti i giovani
assistiti di alcune cooperative sociali attive nella provincia di Pistoia, ho accolto con entusiasmo la proposta, sia perché mi consente di misurarmi con una realtà per me poco conosciuta, sia perché la realizzazione del progetto può contribuire a infondere fiducia ai giovani nelle loro doti individuali ed avvicinare il pubblico dei visitatori della mostra a una parte viva del nostro sociale, sovente relegata ai margini della relazione.
Questa prova mi ha arricchito interiormente e mi ha fatto apprezzare
di quali e quanti contributi valoriali e affettivi siano portatori coloro che
vengono solitamente definiti ‘diversamente abili’, ed è certo che queste
individualità mi abbiano dato più di quanto io sia riuscito a dar loro.
Spero che i ragazzi traggano da questa esperienza autostima, consapevolezza di ‘esserci’ – assieme agli altri compagni, operatori, a tutti coloro che visiteranno la mostra – e che attraverso le loro sembianze s’impongano, per l’oggi così come per il domani, con il loro amore per la vita, desiderio di affetti, invocazione all’amicizia, con la stessa forza che hanno dimostrato nell’affrontare le dure prove dell’esistenza.
La mia frequentazione con questi ragazzi, pur essendosi limitata al breve volgere della seduta fotografica – poche decine di minuti ciascuno – è
stata così intensa che mi è sembrato di conoscerli da sempre.
Il modello si è posto davanti allo sfondo con maggiore o minore timidezza, ma dopo i primi scatti si è abbandonato docile alle indicazioni di posa,
assecondandole con partecipazione e sovente anticipandole in una fattiva
sinergia col fotografo, come se avesse scoperto in quei momenti la possibilità di dimostrare a se stesso e agli altri la capacità di salire con disinvoltura sul proscenio che pochi istanti prima non immaginava di possedere.
Ho cercato anche di esorcizzare le paure del modello, che sono le ansie
di tutti, mettendolo in rapporto confidenziale, quasi giocoso, con i suoi
mostri – che amo incarnare nelle maschere.
In tutti, in misura più o meno scoperta, è emersa chiara una sorta di
orgoglio, di consapevolezza di ‘esserci’ con la propria personalità, con un
portato di sentimenti e di valori precipui in questa vita di relazione a cui
tutti indistintamente siamo chiamati.
Alcuni di loro hanno persino suggerito posture ‘altre’ rispetto a quelle
indicategli, esibendo un ruolo attoriale attivo e manifestando la volontà di
contribuire con la propria calligrafia a definire il senso di questo progetto.
Hanno perlopiù dimostrato una disinvoltura superiore a quella degli
operatori, che pure sono stati ritratti in quanto parte del progetto stesso.
Ciò si spiega, paradossalmente con il più marcato condizionamento inibitorio dell’adulto a farsi ritrarre e ad assumere posture di fronte ad altri che non sia il solo fotografo.
Lo ‘sguardo vicino’ dei diversamente abili ci interroga, grida la ricchezza
del suo sentire, ci offre la condivisione del suo esserci. La nostra distanza dalle stelle è uguale alla loro, ma maggiore della nostra è la loro vicinanza al cuore.
Ringrazio i genitori e i tutori che hanno aderito con entusiasmo a questa
iniziativa, nella convinzione che possa contribuire a far sentire i ragazzi protagonisti – con un’affermazione del sé esplicito, erga omnes – e parte attiva nel consesso sociale con proprie speranze e aspirazioni.
Ringrazio infine gli operatori che hanno accettato di buon grado di figurare con la propria immagine sia in mostra sia nel relativo catalogo assieme a quella dei loro ragazzi, in maniera indistinta e indistinguibile, tutti anonimamente abbracciati come in una foto di famiglia – la famiglia umana
– riaffermando in tal modo che non può esservi distinzione di dignità tra gli
esseri di questo nostro pianeta, uniti nelle varie declinazioni, siano queste
il colore della pelle, il credo religioso, il genere, l’opinione politica, l’orientamento sessuale, le diverse abilità.

Fabrizio Zollo


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L’orgoglio del volto

L’arte classica del Novecento contemporaneo è ancora miniera di un
pensiero eretico e rizomatico, che feconda strade nuove e rifiuta semplificanti soluzioni per nutrirsi delle bellezze della complessità. Ogni artista lavora a un suo libro favoloso e interminabile che incide nel segreto della mente, nella superficie della tela, nei fogli del libro, nel ritratto fotografico, per provare infine gioia della sua bellezza. Ha ragione Artaud,
scrittore e pittore, quando, nel suo Van Gogh. Il suicidato della società,
enuncia questo semplice auspicio: «Che la vita diventi un giorno bella
quanto una semplice tela di Van Gogh e per me basterà. / E non penso
che si possa avere niente di più da augurarsi».
Qui la gioia della bellezza Zollo la trova fotografando volti di disabili
(ma anche di operatori che lavorano a stretto contatto con la disabilità).
La sua è una ‘scrittura’ di volti, che emergono non come vittime remissive di un dolore ma come protagonisti attivi del loro disagio, fissando
lo spettatore negli occhi o disinteressandosi del suo sguardo. Esistono,
nella rappresentazione di sé. Con un orgoglio a volte beffardo, a volte
attonito e sfrontato. Sembrano proclamare la loro diversità, costringendoci a fare i conti con loro senza mediazioni. Talvolta dialogano vivacemente con le sculture espressioniste del fotografo stesso, teste urlanti e
addolorate. La scelta di Zollo è radicale: nel momento in cui fotografa il
disagio scritto in un volto, lo mette al centro di una idea di bellezza non
conciliata. Nicolas de Staël scrive a René Char: «… non saprò mai dirti
abbastanza quanto mi ha dato lavorare con te, ritrovare di colpo la passione che avevo, bambino, per i grandi cieli, le foglie d’autunno e tutta
la nostalgia di un linguaggio diretto, senza precedenti, che mi trascina.
Questa sera ho mille libri unici fra le mie mani per te, forse non li farò
mai ma è selvaggiamente bello averli». L’artista è un nomade che vaga
nei suoi progetti, nei suoi personali deserti, ma ha sempre un compagno
con cui confrontarsi: in questo caso, il disabile e il suo volto, raffigurato
al centro della fotografia. L’autore si mette a disposizione del soggetto:
ne capta l’espressione di orgoglio e di fierezza con cui involontariamente
sconfigge, nell’attimo dello scatto fotografico, il cronico dolore dell’handicap. Se una delle funzioni dell’arte è quella di sospendere la sofferenza, Zollo la sospende nella raffigurazione di questa orgogliosa presenza, che rivendica in tono perentorio il suo spazio. Secondo Balthus «l’artista non deve diventare narratore di storie. In pittura, l’aneddoto non dovrebbe esistere. Un quadro, un soggetto, si impongono: solo l’artista
ne conosce tutte le profondità, tutte le vertigini. Non succede nulla in
un quadro, esso è e basta, è per definizione o non è». Se sostituiamo
al termine «quadro» il termine «fotografia», non siamo lontani dal senso necessario di questa mostra, dove la “mancanza di storia” è l’abisso
di tutte le storie mute scritte nei volti che vediamo, irriducibili ai codici
del mondo normalizzato ma vivi e selvatici, quasi sprezzanti. Un oggetto
che è soggetto, davanti a noi, e che non possiamo rimuovere, nella sua
potenza estranea e fiera. La fotografia si impone da sé: è quel percorso,
quell’apparizione, dove leggiamo la superficie, perché tutto è superfi-
cie nell’arte visiva, ma pensiamo oltre, in qualche segreto destinato
a sfuggirci. Osserva Michaux: «Dipingo come scrivo, per trovarmi». E
forse Zollo, temperamento curioso e molteplice, fotografa per lo stesso motivo.

Marco Ercolani

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Una comune appartenenza

Molti anni fa, con quella capacità di autoilludersi che sembra tipica
dei giovanotti di belle speranze, proponevo un uso creativo delle fotografie nelle scienze sociali. Ero ben consapevole che la fotografia era
già ampiamente usata dagli antropologi culturali che lavoravano sul
campo, per lo più, come il celebre Malinowski, al soldo di Sua Maestà
Britannica, così come del resto non mi sfuggiva l’intelligente ricorso al
bozzetto fotografico, viziato talvolta da inconsapevole etnocentrismo,
in certe pagine gustosissime dei Tristi tropici di Claude Lévi-Strauss.
La mia proposta era, nella sostanza, più ardita. Volevo passare
dal puro documento alla testimonianza. Sapevo, o intuivo, che i fatti
non parlano da soli. Sapevo naturalmente che le storie di vita, di cui
all’epoca mi facevo banditore, così come, inevitabilmente, le fotografie, avevano carattere aneddotico; allo sguardo ingenuo o inconsapevole potevano apparire come mere accumulazioni di immagini slegate, di frammenti. Ma questo era, appunto, il problema. Si trattava di
scoprire e rendere a tutti evidente che nel frammento vibra la misteriosa nostalgia della totalità.
È precisamente ciò che le fotografie di questa mostra straordinaria
intendono compiere. L’assistito coinvolge l’assistente. La disabilità è il
segno, l’occasione, l’albeggiare di una diversa, altra, più vera abilità.
Capire, documentare, testimoniare la disabilità comporta un partecipe
oltrepassarla. Non vi sono né assistenti né assistiti. Assistere diventa
un processo a due vie, un dare e avere, un rapporto umano unitario a
titolo pieno, in cui scompare il dislivello, l’inferiorità. È la partecipazione dell’umano all’umano, in cui si realizza il senso profondo di una
comune appartenenza alla famiglia umana come unico, fondamentale
destino.
Gli antichi Spartani scaraventavano i bambini nati con qualche malformazione dalla cima del Monte Taigeto. Non avevano ancora capito
che nessuno si salva da solo, che qualunque essere in sembianze umane nasca e per una volta passi su questo pianeta è titolare di un diritto
di umanità – un diritto inviolabile, perenne, universale.

Franco Ferrarotti

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