
Parola sull’assenza
Il primo dato che emerge dalla trama poetica di Alain Borne (1915-1962) – poeta francese in Italia ancora poco noto ma apprezzato da Louis Argon e Pierre Seghers – è il segno di un’insofferenza, come se per capire chi siamo dovessimo sempre partire da quello che non vogliamo: «Non m’importa della poesia / se non è che parola sull’assenza». Sono versi che si leggono nell’antologia intitolata Poeta al proprio tavolo (I libri dell’Arca, Joker, 2011, a cura e con traduzione di Lucetta Frisa). E’ dunque di una presenza, una presenza amorosa che la vita e la poesia di Borne hanno bisogno per accendersi. Il movimento inizia dall’amore, è lui che detta i versi: «Per avere toccato il tuo corpo, la mia mano / saprà scrivere meglio». E all’amore resta legato anche nei componimenti postumi di Encres: «A forza di parlare d’amore / sentirete in bocca questa parola / più neve / che sangue». L’amore è dunque una presenza pervasiva, qualcosa che respiriamo nell’aria, che ci nutre ma può anche avvelenare la nostra esistenza: «Ha forse torto / chi parla dell’amore / come d’una minima polvere /che vola e si nasconde / e potrebbe farci morire?».
L’instabilità, l’insofferenza portano la scrittura di Borne a tradurre nel ritmo dei versi anche i frammenti della memoria, a ricercare una verginità nel muoversi a ritroso, risalendo il corso del tempo: «Ma il ricordo del tuo arrivo / è un nuovo inchiostro».
Certo la poesia, per Borne, procede su un terreno minato, schiva trappole e insidie, è minacciata dall’incalzare degli eventi, dal trascorrere inesorabile del tempo: «Bisogna finire. / Il vento soffia via le pagine», e tuttavia all’orrore della fine non sa opporre che lo scudo di una pagina, una “musica di cenere”: «Scrivo una poesia per morire più lentamente / lasciare dopo di me qualcosa di simile alle foglie». Ed è qui che si apre l’intenso dialogo con la natura, il tentativo di realizzare qualcosa che se proprio non può raggiungere l’intensità o la forza di un istante di vita, almeno possa inseguire una sintonia col tempo («Nell’attimo in cui io scrivo / la notte iscrive sopra il vetro /con la sua sabbia di luce / il grande gioco dei nostri destini») o col paesaggio («Io vivo di sogni / e sogno isole / e leggo aprili») giungendo così alle soglie di una metamorfosi: «forse scrivo come il ciliegio / sul cielo nero delle parole di neve». Fino alla consapevolezza – non sai se più docile o più amara – che la luce di un’aurora o anche soltanto un velo di nebbia valgono più di tutto l’inchiostro versato sulla carta: «Uno sguardo / e tutti i libri vanno al rogo / e tutte le parole tremano di freddo».
(2012)

