
Lo scrittore scrive, e non smette mai di ridefinire, correggere, mettere a fuoco lo sguardo. Sembra che le immagini lo aiutino a trovare ciò che non sta affatto cercando. È mite, tenace, irriducibile. Continua a osservare ma non scrive di quello che osserva se non dopo un tempo lunghissimo, quando ha dimenticato i dettagli. Attraversa le sue scritture non come se ne fosse l’esclusivo proprietario ma perché vuole condividerle con chi, arbitrario e sconosciuto, le leggerà. È il lettore il suo complice preferito. Gli parla costantemente, implacabile bavard, mai resta in silenzio. Non lo seduce con frasi poetiche, lo attrae sulle sue piste meticolose, lui, inguaribile flâneur di musei e di fiumi. Gli offre ironiche finzioni con cui capovolgere un mondo inutile e ostile. Non si fa trovare mai in un luogo previsto. Frequenta con gioia curiosa chiese, cripte, ossari, mausolei: non può fare a meno di abitare le soglie da cui i morti gli verranno a parlare. Ha con loro un rapporto discreto e segreto, come Ches Noteboom che scrive Tumbas, ma quando lo lasciano solo respira di sollievo e prende fitti appunti sui suoi quaderni. Non vuole più finire dei libri. È stanco, ormai, di libri conclusi, che se ne restano soli negli scaffali alti. Gli appunti lo soddisfano perché sono vivi e incompiuti, fitti di tantissimi libri futuri, con cui corteggiare ancora il mondo. Ha, con il mondo presente e passato, un rapporto pudico, ostinato. Tesse la tela senza esserne lui il padrone. Legge.
Se non legge non si addormenta…Leggendo, invece, si dimentica nelle parole, il corpo si rilassa e, tutte le difese allentate, il sonno può cominciare a invaderlo, dai piedi su fino alla testa ormai popolata.
Ci vuole pazienza per descrivere il vuoto. Lui ne ha, di pazienza. Ricorda bene quando ha imparato a volare, per qualche istante, ma poi ha deciso di non stupire chi lo avrebbe visto con qualcosa che avrebbe potuto non capire. E così ha continuato a camminare, ma con un senso di intima e tenace soddisfazione, i piedi leggeri, molto leggeri sul suolo. Camminare è il suo modo di trasformare il mondo in un foglio da riempire con i segni dei suoi passi. Oggi, che è stanco di parole, preferisce che sia così: mettere una lente fra sé e le cose, in modo che gli altri possano riflettersi in lui e nei suoi discorsi. Vuole passare inosservato, essere uno che si sente bisbigliare in mezzo alla folla ma di cui non si sa afferrare il discorso.
Voglio un’opera opaca… un’opera che se ne stia bella, pacifica, intransitabile, che non chieda a nessuno di essere completata dal suo sguardo, dal suo senso, che non abbia bisogno di porgli domande, e si rifiuti a qualsiasi domanda, anzi se ne stia lì, chiusa, perfetta… Ho bisogno di un’opera che non abbia bisogno di me e che mi faccia cantare.
Avrebbe voluto cantare e saprebbe farlo. In fondo sa anche volare. Ma perché affannarsi troppo? Per sorprendere qualcuno? È stanco di specchi che rappresentino il mondo. Il mito di Dioniso gli è estraneo, con quell’osceno squartamento. Un bel foglio opaco, un beffardo pensiero impenetrabile. E magari parole, sì, per non far entrare nessuno nel loro regno. O per realizzare il miracolo: che un passante, nonostante quelle cripte, possa entrare e fotografarlo. Finalmente. Un vero amico. Qualcuno che ha bisogno di parlare con lui e non vuole né leggere né scrivere. I neuroni a specchio esistono: consentono all’io di modellarsi secondo quello che l’altro sente e vede. Non si nasce e si muore dentro una sfera di vetro. Ci si plasma secondo respiri, profumi, libri, corpi. È un atto d’amore cambiare perché si è traversati dal mondo dentro e dal mondo fuori, sensibili sismografi di un dolore quasi simile alla gioia.

| “Su molte figure di schiena si sperimenta come un’impossibilità di fissare lo sguardo” |
Sognava di essere una figura di schiena, lontanissima, nello sfondo di una tela sacra, colta mentre sta pisciando. Adesso no. Il senso è da un’altra parte. È giocare con grazia, dissimulare, osservare. Adesso vorrebbe leggere Wang Wei:
“La spaziosa montagna dopo una nuova pioggia,
l’aria al tramonto, il sapore dell’autunno.
Chiara la luna tra i pini risplende,
limpida la sorgente sulle rocce scorre”
Non ha mai amato troppo la poesia, ma questi quattro versi lo hanno sempre commosso. Gli ricordano le sue lunghe passeggiate sul fiume, quando la mente si svuota e resta un sentimento favoloso del mondo, una musica lunga e profonda. Non conosce da esperto la musica e questo è un vantaggio: può ascoltarla quando e come vuole, farsene incantare. Riprende in mano il quaderno. Riprende a scrivere. Tante sono le cose da osservare, ma una su tutte: quella ragnatela illuminata che scintilla su un ramo, alla seconda ansa del fiume. Tutto un mondo che osserva felice. Allora si chiede: con quali parole potrei proteggerla, quella tela? In che modo posso impedire che quell’architettura splendida e minuziosa possa sparire? Così si siede e resta davanti all’opera lentissima e fragile, e scrive di lei, e tutto gli sembra, finalmente, un mondo realizzato, bellissimo, come un paradiso. E lui stesso è parte di un quadro che qualche pittore fiammingo, in qualche reale passato, avrebbe potuto dipingere.
Ciò che nella schiena è tutto esterno ti rimanda al tuo interno più interno, quello che hai spinto sempre più a fondo, chiuso, seppellito nella cripta attorno alla quale non hai mai cessato di costruire case e templi e recinti, e di costruirti, assumendone sempre di più la forma.
Ma quello che lo scrittore si chiede è altro: è il desiderio di costruire una forma permanente, un “racconto immobile” dove la frenesia del movimento, il maellstrom del pensiero, diventi verità paradossale, fedeltà non immaginaria alle proprie radici:
Trovare le radici nascoste, il germe ancora imperfetto e informe dell’opera a venire che ora si conosce in tutta la sua complessità, è una grande soddisfazione non solo per il critico, ma anche per il lettore devoto, perché ne garantisce analisi e predilezioni e proietta, su una molteplicità che poteva anche derivare da capriccio o vaghezza di intenti, la luce della permanenza e della fedeltà a se stesso, cioè di una necessità ben più solida di quella ricostruibile a posteriori: radici vere, invece che immaginarie e solo immaginate. In questo senso sarebbe però bello pensare che Le Condottière è stato tenuto nascosto così a lungo per precisa volontà dell’autore, che ne avrebbe dichiarato la scomparsa solo per gusto malizioso, come l’ennesima casella vuota di tante sue opere, come la casella vuota della sua opera stessa (non forse la vita stessa?), con gesto tipico del giocatore che fu Perec. Ma ancora preferibile sarebbe, per me, se a partire da tracce magari sue, da versioni davvero eliminate o perse, il libro fosse un falso da lui commissionato o scritto di propria iniziativa da qualche amico, che però glielo avrebbe per sempre tenuto nascosto.
E se chi scrive il libro dello scrittore non fosse soltanto lo scrittore? Se fosse, anche e soprattutto, il lettore che ne percorre le pagine, che finalmente prende la parola e sconfigge l’arrogante potere dell’autore? Ora lo scrittore è soddisfatto. La sua opera smette di essere sua. Può passeggiare sereno lungo le rive del fiume. Può fotografare l’ultimo quadro visto, e dietro il quadro l’amico riflesso nello specchio.

I testi in corsivo sono di Luigi Grazioli in:
Cosa dicono i morti, Pasian del Prato, Campanotto, 1991.
Racconti immobili, Milano, Greco & Greco 1997.
Figura di schiena. In “Arca” 6, 2000.

