DA CARNE A CARTA. Lucetta Frisa

Ieri sera, in televisione, parlano di un caso di cannibalismo: a un uomo, colpevole di aver mangiato un suo simile e condannato in prima istanza a soli sei anni di carcere perché la vittima era consenziente, hanno trasformato la pena in ergastolo. In breve: la vittima, dopo una serie di appuntamenti via internet, aveva chiesto al suo carnefice – e ottenuto – di essere fatto a pezzi, a cominciare dagli organi sessuali, e mangiato. Un incontro virtuale si è trasformato in qualcosa che più carnale di così… si muore. Entrambi i protagonisti hanno soddisfatto la loro reciproca perversione. Chi voleva essere posseduto fino all’annientamento ha trovato il partner speculare. Nessun dramma, nessun conflitto. Un cortocircuito terribile, che omette ogni mediazione metaforica – omissione comune alle persone afflitte da problemi psicotici e chiuse nel loro pensiero “concreto”.

Subito, per analogia e rovesciamento, mi è venuto in mente un libriccino, letto di recente, del cinese Lu Xun, riscoperto e tradotto dall’inglese dalla brava Piera Mattei: Il diario di un pazzo (edizioni Via del Vento, 2006). Lu Xun, pseudonimo di Zhou Shuren (nato a Shaoxing nel 1881 e morto a Shangai nel 1936, dopo una vita trascorsa tra Cina e Giappone) racconta di un individuo che annota quotidianamente nel suo diario le fasi progressive della propria paranoia: il terrore di venire ingoiato da chiunque gli si avvicini. Terrore dell’altro vissuto come minaccia alla propria incolumità sia fisica che psichica. Come non comprendere e giustificare questa patologia? Questo mondo è un “mondo di belve”. L’ossessione persecutoria è ampiamente motivata sia sul piano sociale che individuale e il pazzo di Lu Xun la identifica nei denti affilati, negli sguardi ferini dei suoi simili, nei loro comportamenti aggressivi e ammiccanti che congiurano per inglobarselo, distruggergli l’identità, farlo diventare quindi uno “come” loro. Leggiamo questo diario col fiato corto perché la narrazione coinvolge, scritta com’è in una lingua “parlata” di altissimo livello, con l’asciutta immediatezza di un autore occidentale dei giorni nostri. Qui il dramma c’è, e grande, direi. Inoltre, Lu Xun al suo pazzo, fa dire, nelle battute finali del libro. “Forse ci sono ancora dei bambini che non hanno mangiato gli uomini? Salvate i bambini…”

Perché teme che i bambini possano essere già feroci cannibali prima di diventare adulti. Lascio a voi riflettere se questa forma di autodifesa prematura è cosa per loro auspicabile o meno. Visti i tempi…

Jonathan Swift, nella sua Una modesta proposta…, suggeriva, con sarcastica e ambigua ferocia, di mangiarli, a scopo sociale e umanitario. Ma di questo libro si è già molto discusso e non è qui il caso di continuare a farlo.

Anche l’uomo di vetro del racconto di Miguel de Cervantes, El licenciado Vidriera, temeva, ovviamente, di andare a pezzi appena sfiorato. Ci troviamo nel truculento siglo de oro, dove lo sfoggio del potere costringeva un uomo normale a sentirsi debole, indifeso, fragilissimo. Una paura più o meno simile a quella del protagonista di Lu Xun che scrive il suo sorprendente racconto in tempi freudiani, la cui lezione però, almeno in Cina e in Giappone, non era ancora stata né particolarmente diffusa né tantomeno assimilata. Anche se Lu Xun traduceva dal giapponese autori contemporanei inglesi, francesi e russi.

La carne non è né vetro né carta, ma c’è chi mangia anche la carta, oltre che nutrirsi di cibi comuni. Mi riferisco alla carta in quanto tale e non al suo traslato – la scrittura – e non, in particolare, a chi si nutre di parole e di libri, come facciamo noi. La carta materiale che ha gusto e consistenza, come ci suggerisce Il mangiatore di carta (Sugarco, 1989), stravagante storia di Johann Ernst Biren, narrata e reinventata da Edgardo Franzosini, autore di cui non si sente più parlare da diversi anni.

Ci sono ossessioni tristi e ossessioni allegre. E quella di Biren è molto divertente e fa da pretext a questa sorta di commedia drammatica, ricca di colpi di scena, trovate, indizi, frammenti e tracce, che l’autore intreccia con maestria. Biren è il bellissimo scrivano di un barone tedesco nella Germania del XVIII secolo, per nulla turbato dalla sua bizzarra perversione: inghiotte i fogli appena scritti, fossero anche le pagine sulle quali le maestà di Svezia e di Russia hanno sancito la pace tra i rispettivi paesi. Voglia coatta di riappropriarsi in modo assoluto di sé, sconfessando e negando il proprio ruolo di traduttore-comunicatore? L’analisi di questo comportamento offre un caleidoscopio di interpretazioni, oppure suggerisce che è bene non darne nessuna. Franzosini fa scattare il motore di tutta la storia partendo dall’ultimo capitolo di Le Illusioni perdute di Balzac, il cui titolo è Storia di un favorito – Biren, appunto. L’autore fa sfoggio di ironia ed esprit, forse il cognome Franzosini non è casuale, comunque sembra caratterizzarne lo stile illuminista, “alla francese” diciamo, e mostra acutezza e leggerezza invidiabili; leggendo il suo libro vien voglia di mettersi a danzare, e di non ingoiare nulla, al limite sorseggiare champagne. Il mangiatore di carta, ancora presente nelle bibliografie delle biblioteche, è naturalmente introvabile in libreria e non più ristampato.

(2007)

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