A SCHERMO NERO. Venturelli, Bertieri, Sasso

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QUATTRO TESTI CRITICI

Oltre il cinema

di Renato Venturelli

A SCHERMO NERO, di Marco Ercolani (QuiEdit, Verona-Bolzano, pp.299, 21.90 euro)

Da anni Marco Ercolani va scrivendo lettere, autobiografie, racconti di artisti che riflettono sulla propria arte e il proprio fare, prolungando i loro ragionamenti in scritture apocrife dove la teoria si mescola alla narrazione, il dettaglio reale alla finzione letteraria. Grande cinefilo, in questo libro prende lo spunto da una serie di registi, attori e sceneggiatori che va da Erich von Stroheim a Conrad Veidt, da Mitchell Leisen a Peter Lorre, da Edgar Ulmer a Ida Lupino, per attingere a quella zona oscura in cui il cinema sconfina nell’onirismo, “goloso di scritture e di sogni” come la madre dello stesso scrittore, che da adolescente annotava con minuzia la trama di ogni film visto al cinema per prolungarne nella scrittura l’incanto e la suggestione. Non un tradizionale saggio di critica cinematografica, ma un libro che attinge alle ragioni profonde del cinema e del nostro essere spettatori di film, facendo affiorare tutti gli aspetti più teorici e i coinvolgimenti più intimi che la cosa comporta. Con un auspicio: che il cinema contemporaneo, “estroflesso in visioni troppo visibili, non dimentichi il misterioso silenzio, la zona d’ombra iniziale da cui ha preso origine, e da lì ricavi la linfa vitale e consapevole di un futuro sempre e ancora da inventare”.

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Un falso d’autore

di Claudio Bertieri

Se pensate che non sia possibile immaginare vicende più reali della realtà stessa, ricredetevi. Le trecento pagine di A schermo nero di Marco Ercolani (QuiEdit, Verona-Bolzano 2010, pp. 299, euro 21,90), per intero giocate all’insegna di un supposto “la fiction dépasse la réalité”, scrivono una singolare e intrigante “storia critica” del cinema. Quanto meno di quella sua parte, in particolare, che si è sbobinata affermando l’estetica “noir” dei B-movies anni Quaranta.

Apocrifando corrispondenze, lettere di addio, registrazioni ricordi, diari, l’Autore, di professione psichiatra e scrittore, nonché cinéphile, si offre l’occasione per rivisitare la spesso ignorata (o svilita) avventura di una produzione senza dubbio limitata nei budget e obbligata a tempi veloci di realizzazione, ma nel complesso oltremodo significativa per gli autori e le opere che ha radunato. Un cinema che ha raccontato la parte buia di noi stessi, guidato – come Ercolani fa dire a qualcuno dei suoi dialoganti – da una regola incontestata: “il cinema non ha la chiarezza di una visione, è qualcosa di corrotto, di viscerale”.

Scorro così, lungo le quattro parti in cui è spezzato il racconto, titoli come Neve rossa, L’occhio che uccide, Freaks, e i nomi di Edgar Ulmer, Tod Browning, Anthony Mann; persino quello di Maxwell Shane, il regista che ha amato le città, gli scorci notturni mutati in angoli d’incubo, o di Sanuel Fuller irremovibile nella convinzione che sullo schermo “il falso deve diventare vero”. Ed è appunto in questo costante gioco (col lettore) di falso e di vero, di ipotizzare conferenze, materiali, inediti, dichiarazioni, che lo sguardo critico di Ercolani si dichiara senza possibili ambiguità.

Uno sguardo lucido, attento, frutto evidente di una lunga e partecipata consuetudine con il buio della sala, che gli consente di ampliare l’analisi oltre l’amato “noir” e l’altrettanto corteggiato versante dell’onirico, per giungere alle attuali presenze di Tarantino, Cronenberg, Carpenter, Coen, Eastwood. Con però preziosi salti all’indietro a “rileggere” Vigo, Murnau, Lang, Bresson, Ophüls, Buñuel, Welles.

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Dietro lo schermo

di Luigi Sasso

(Postfazione di A schermo nero, QuiEdit, 2010)

Il cinema è un mondo fatto di ombre. Una notte nella quale si muovono figure, corpi disegnati da una luce di cui non si riesce a comprendere l’origine, né la natura. E’ un mondo dalle dimensioni e dai ritmi fuori dall’ordinario: la mano, il volto di una donna occupano tutto lo spazio davanti a noi, i giorni e gli anni hanno la durata di una dissolvenza. E’ un luogo che diviene possibile solo nel buio che ci circonda, che costruisce trame, vite e destini a volte del tutto simili, altre volte nemmeno avvicinabili a quelli che definiamo “reali”. Per queste ragioni le sequenze proiettate sullo schermo sono state frequentemente paragonate al sogno, alle immagini prodotte dall’inconscio, come se là, in fondo alla sala, si mostrassero le pieghe, forse le piaghe di un’anima. Lo si ricorda anche qui, in A schermo nero, è una delle prime avvertenze che ci pone di fronte la scrittura di Ercolani: «Il meccanismo con cui si crea l’immagine, nel cinema, richiama il lavoro dello spirito durante il sonno. Il buio che invade a poco a poco la sala equivale all’azione di chiudere gli occhi. È allora che comincia sullo schermo l’incursione notturna dell’inconscio; le immagini, come nel sogno, appaiono e scompaiono».
A schermo nero si presenta come una appassionata riflessione sul cinema, come un vero e proprio atto d’amore per le storie, i personaggi, gli attori e gli autori del mondo di celluloide. Si tratta di una raccolta di una cinquantina di testi: essi presentano una notevole varietà di forme, assumendo le caratteristiche di una confessione, di un’intervista, di una lettera, di un diario, di una manciata di pensieri, di riflessioni intime, oscillando tra la modalità dei frammenti o di appunti sparsi a quella più strutturata di un commento, o addirittura di un lessico. Pagine che si presentano come occasionali, recuperate tardivamente, casualmente riemerse. Quasi a volersi muovere ai margini delle storie e degli eventi raccontati sullo schermo, in una zona sotterranea, nascosta, ma proprio per questo imprevedibile e rivelatrice. Di chi sono le voci che raccontano, annotano osservazioni critiche, progettano nuove opere, ricordano una vita ormai alle spalle, come una storia a cui restano pochi metri di pellicola prima della parola fine? Sono quelle di registi, attori e attrici, controfigure, sceneggiatori, produttori, direttori della fotografia. Ciò che però unisce le parole che prendono forma in questi testi è il fatto di non essere mai state pronunciate – anche se non mancano, qua e là, delle eccezioni – dalle persone a cui sono attribuite, di non essere mai state scritte dalla loro mano. Ercolani infatti realizza, con A schermo nero, dopo Vite dettate, Lezioni di eresia, Carte false, Discorso contro la morte, dopo i volumi dedicati a Blok e a Bruno Schulz (ma l’elenco è incompleto), un nuovo libro di apocrifi, o meglio di testi che si presentano sotto la forma dell’effetto di apocrifo: sottoscritti da Abbas Kiarostami o da Maurice Kosinski, da William Daniels o da Dulton Trumbo, da Jean Renoir o Fritz Lang, ma di cui risulta poi del tutto chiara l’identità dell’autore. Lo scopo perseguito da Ercolani è quello di trovare, in uno spazio e in un tempo che non esistono, un punto di osservazione inedito che possa gettare luce su una poetica o un destino, sulla genesi o il senso di un’opera. Quali volti del cinema, quali temi emergono dalle pagine di Ercolani? E’ un cinema che «mostra ciò che non si può vedere altrove»: la follia, la crudeltà, il delitto, l’apparizione e le parole di un mostro, un cinema che sostituisce alla vita «storie più disperate ed esaltanti della vita», che insegue le tracce di un enigma, che si lascia sedurre dal fascino intramontabile del bianco e nero, dal suo gioco di sfumature e di contrasti, dalla sua grammatica così vicina a quella della scrittura, ma che sa cogliere poi nel colore la palpitante dimensione dell’eros, la sensualità inappagata, la forza di attrazione dell’immagine. Essenzialmente è un cinema che vuole restituire la paura di un essere umano, soprattutto quella provata nell’infanzia, che riesce a scavare dentro un’anima, a vedere l’interno del corpo, «la nostra parte buia». Lo schermo nero cui si riferisce il titolo non è dunque soltanto un fatto tecnico, la momentanea sparizione dell’immagine, nel corso della quale una voce prende corpo e risuona, la pausa che prelude a un cambiamento di scena, che coincide con un’ellissi narrativa creando le coordinate di quella realtà sospesa in cui può nascere e insinuarsi la finzione d’apocrifo, in cui possono essere scritte le pagine che qui vengono legate all’identità di Ioseliani o di Buñuel, per esempio; ma è anche, e soprattutto, la vocazione di un linguaggio che punta a restituire il fondo oscuro di ogni essere umano, la segreta dimensione di un’esistenza. E ciò bene focalizza la doppia natura della scrittura di Ercolani: indagine critica, descrizione del mondo di un autore, riflessione sulla creazione artistica, sulle sue forme e le sue caratteristiche e nel contempo legame con le profondità e le angosce di un io, col suo volto turbato, folle o addirittura mostruoso. Queste caratteristiche emergono con esemplare chiarezza nel brano intitolato Insubordinazione. Sergej Ejzenštejn in una pagina del Diario scritta poco prima di morire (ed Ercolani parte in effetti da una pagina delle Memorie del grande regista), rivela che la frequente rappresentazione di scene violente e di massacri nei suoi film deriva da un desiderio infantile represso, dalla voglia di torturare un oggetto, di rompere e smontare il meccanismo di un giocattolo. Annota infatti: «Quando ero bambino, non aprivo le teste delle bambole, i fondi delle scatole, le casse degli orologi. Non schiacciavo gli scarafaggi e le farfalle, non pungevo le pance dei gatti. Mi tratteneva una sorta di sacro terrore – erano tutte cose vive, anche gli oggetti, e avevano un’anima. Mi trattenni, ma non smisi di desiderarlo». Quei gesti mai compiuti hanno così finito per tradursi nella sintassi della sua scrittura di regista. «All’inizio provavo un senso di colpa; ma poi, col passare del tempo, mi accorsi che potevo cambiare forma al mio desiderio. E, per cambiarlo, avevo a disposizione metri e metri di pellicola, un universo da rappresentare. Non dovevo trattenere più nulla. Zoccoli di cavalli che frantumano teschi di braccianti, folle intere fucilate dai cosacchi, bimbi calpestati sulla scalinata di Odessa e gettati dentro grandi falò, buoi avvelenati, zarine uccise, frecce conficcate negli uomini accasciati davanti alla palizzata, guerrieri con grandi armature annegati dentro blocchi di ghiaccio: ecco il Messico, Ivan il terribile, Sciopero, Potemkin, e via di seguito. Un campionario di massacri che si è venuto via via chiarendo, al mio sguardo, come la fervida fantasia di un bambino che non ha smesso di essere violento». Questo rapporto con il mondo dell’infanzia e con gli impulsi che essa porta con sé trova espressione anche nella tecnica: dalla dissezione e ricucitura delle scene operate col montaggio, di cui Ejzenštejn è sempre stato considerato un maestro, fino all’utilizzo del bianco e nero, alla sua essenzialità così adatta a far affiorare sullo schermo la tragedia della guerra, della rivoluzione, lo scontro di corpi e di passioni, il contrasto tra il ghiaccio e le armature.Il caso di Orson Welles è diverso. Qui Ercolani compie un passo in avanti. La volontà di mettere in evidenza il lato segreto della creazione ribalta l’immagine più nota di Welles. Del regista di Quarto potere e dell’Orgoglio degli Amberson conosciamo l’eccezionale e innovativa capacità di narrazione, l’organica, geometrica strutturazione del racconto, tanto che i suoi film hanno fatto spesso pensare a una partitura musicale, a qualcosa di simile a una sinfonia. Ercolani pone invece l’accento sulla frammentarietà dell’io e sulla conseguente, analoga frammentarietà dell’opera. Dalle lettere inedite di Orson Welles affiora una sequenza di mutilazioni, di progetti falliti. «Frammenti disseminati ovunque: ecco il mio cinema, che non posso finire (ma che forse ho finito senza dire niente a nessuno)». Frammenti che dicono come il cinema stesso non sia altro che la costruzione di una menzogna, di una finzione destinata a svelare la fragile struttura su cui poggia. Il tentativo di realizzare un film tratto dal capolavoro di Cervantes lo rivela in maniera clamorosa: «Ogni tanto qualcosa viene alla luce, per caso. Il mio Don Chisciotte, ad esempio. Quella scena dannata, quando Chisciotte entra in un cinema dove proiettano un film in costume, crede di vedere Dulcinea e allora mena fendenti sul telone, crollano le mani della donna, una folla di guerrieri si squarcia, il pezzo di stoffa si apre, è un buco, si vedono le assi di legno, allora si capisce che tutto è inganno, tutto è cinema, tutto è nulla; e nella sala, a pubblico ormai assente, resta sola, davanti al vecchio cavaliere, una bimba bionda, che scrolla la testa…». Anche in Ercolani c’è questa volontà di andare oltre, dietro lo schermo, di lacerare il tessuto di illusioni di cui non solo il cinema in sé e per sé è fatto, ma anche, e specificatamente, l’opera e la vita dei protagonisti delle sue pagine. Diventa chiaro allora come il cinema non sia soltanto un seducente nastro di immagini, ma nasconda una disposizione che ha a che fare con il sadismo, la crudeltà, la tortura. Un altro lato oscuro, quindi. Ce lo ricorda qui Erich von Stroheim: «Il mio film – ogni mio film – è, da subito, tutto questo: è, immediatamente, la possibilità di essere censurato, tagliato, fatto a pezzi, polverizzato in qualche manciata di nitrato d’argento, superbamente fallito, come una piramide rovesciata nella sabbia del deserto», e in modo ancora più esplicito e definitivo lo ribadisce Kenji Mizoguchi: «Che mi accusino di essere regista di film scandalosi o violenti, non è del tutto vero. È l’immagine stessa che, in sé, è scandalo. Basta il volto di una donna, violentata nel buio di una chiesa, e millenni di parole contro la violenza diventano deboli tracce verbali. Vedere quello che succede, con l’involontaria crudeltà di cui è portatrice la macchina da presa. […] La crudeltà non è un tema del cinema, è il cinema stesso». Il cinema, si è detto, richiama l’azione del sogno. Ma oltre alle analogie con la dimensione onirica, è opportuno sottolineare anche le differenze. E’ un’opera collettiva, che coinvolge persone che vanno dal regista al tecnico del montaggio, e non esclude il pubblico, come ricorda un apocrifo Jean Renoir; è il frutto, come ogni altra attività artistica, di scelte coscienti e razionali, di un lavoro scrupoloso, addirittura di una fredda, impassibile determinazione, grazie alla quale cogliere, per esempio – lo aveva già annotato Bergman nella sua autobiografia, Lanterna magica – un dolore disegnato improvvisamente su un volto. Ma distingue il cinema dal sogno anche la possibilità di riavvolgere la pellicola, di replicare all’infinito, del tutto identica, la vicenda narrata. Gesti, abbracci, parole, esistenze, quasi obbedendo a una severa liturgia, si presentano ogni volta immutati, esibendo figure insensibili al trascorrere del tempo proprio perché consegnate – come nel racconto di Bioy Casares, L’invenzione di Morel – all’esangue natura di fantasmi. Persino l’autore, il regista, diviene un’ombra e il direttore di fotografia – leggiamo in A schermo nero – solo «l’ombra di un’ombra». Ma soprattutto la specifica natura del linguaggio cinematografico sembra contagiare gli attori, fino al punto da render meno definiti, o addirittura di rovesciare, i contorni di realtà e finzione. Ce ne danno testimonianza i casi di Greta Garbo e Ida Lupino. Il volto di Greta Garbo ci viene infatti presentato come un foglio di carta, una forma che non ha una vita reale e che quindi, paradossalmente, soltanto in un film può finalmente smascherarsi, diventare vero: «Sono nata per essere un volto dentro uno schermo», confessa. E dello schermo, con angoscia, sogna di essere prigioniera. Altrettanto lucida l’analisi che della propria esistenza, e del proprio destino di attrice, compie Ida Lupino. Le parole che Ercolani le fa pronunciare: «la vita vera non è questa nella quale sopravviviamo aggrappati al respiro come vecchi ragni alla bava della tela, una cosa è vivere, un’altra è sopravvivere: io, su questa sedia, sopravvivo, e là, nello schermo, dove sono baciata, ballo un valzer, splendo di giovinezza, vivo», ci ricordano che forse soltanto l’arte, soltanto le ombre del cinema sono qualcosa di autentico. «Hai divorato migliaia di film; te li sei stritolati, bevuti e mangiati, notte dopo giorno, giorno dopo notte, western, melò, noir, cappa e spada, senza che fuori dal film succedesse qualcosa di diverso dalla storia del film, l’eroe, la nebbia, la morte, Primula rossa, Sparviero del mare, Capitan Blood, migliaia di scene ti hanno vissuto e trovato e tu, dentro di loro, masticato dalle storie, divorato dalle immagini, fisso a guardare ciò che dovevi guardare, adulto e bambino, bambino e adulto, tutti i racconti possibili nella mente, il corpo reale fisso nella sedia, condannato alle immagini, strangolato alle storie, come James Cagney nel braccio della morte, come Susan Hayward nella camera a gas, centinaia di migliaia di film a dirti che esisti, che quelle storie prendono possesso di te».Il lettore potrà scoprire da solo a quale nome sono attribuite queste parole. Ma adesso piace pensarle, strappando il velo della finzione, o forse semplicemente tessendone un altro, come una confessione dello stesso Ercolani. La scrittura apocrifa, anche nella sua forma di calcolato effetto, conferma a ogni riga quello che è il suo principale assunto: che solo ciò che si traduce in finzione acquista la dignità del vero. Da qui un corollario: che con le storie e i personaggi creati da una pellicola – come del resto con quelli balzati fuori da una pagina o da una tela – è possibile aprire un proprio percorso, disegnare una linea immaginaria e tuttavia del tutto intima, personale, tracciare i confini di quell’universo che chiamiamo identità. Metri e metri di pellicola scivolano via: Lon Chaney e Boris Karloff con il volto di un mostro, scene mute, come quelle amate da Murnau, o attraversate da rumori e voci, scorci di paesaggio, storie che narrano un delitto o la ricerca del proprio padre. Il cinema non smette di affascinarci, di ipnotizzarci. In quelle immagini riconosciamo – lo ha detto nelle sue Note sul cinematografo Robert Bresson, lo ripete in questo libro – «un viaggio di esplorazione su un pianeta sconosciuto»: la fisionomia, sbandata, inconclusa, del nostro io.

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Il cantiere dell’opera

di Giorgio Galli

La scrittura apocrifa di Ercolani è una scrittura consapevole della propria impossibilità. Basta leggere le riflessioni raccolte nel Nottario (Scriptions, quaderno 18), sorta di zibaldone auto e meta-critico, ombreggiato dall’incombenza del vuoto e della morte, scavo clinico in se stesso e nella propria opera che fa di questo “diario in pubblico” quasi un apocrifo di Ercolani su Ercolani stesso -basta leggere quelle riflessioni per rendersi conto che lo scrittore genovese è ben cosciente della natura precaria, irrisolta, fantasmatica della propria opera, che non si preoccupa di una superficiale verosimiglianza biografica, non bada alla mimesi stilistica se questa non accade per reale comunione con l’autore “apocrifato”. Ercolani cerca, traverso l’apocrifo, di liberarsi di un travaglio personale, di un desiderio di giustizia che insorge non a contatto con le parti “chiare” della biografia di un autore, ma nelle faglie problematiche, nelle sconnessure della sua vicenda umana e artistica. Nel ricreargli una vita possibile, nel concedergli un’altra chance, Ercolani scrive così non un falso positivo, come sono gli apocrifi tradizionali, ma un palese negativo, uno sguardo nell’ombra che lascia intravedere le ossessioni dello stesso Ercolani, e in particolare l’ossessione per lo statuto ontologico dell’arte nel nostro tempo.
Mi permetto di dissentire dalla postfazione di Luigi Sasso, dove afferma che da questi testi emergerebbe un “effetto di apocrifo: sottoscritti da Abbas Kiarostami o da Maurice Kosinski, da William Daniels o da Dalton Trumbo, da Jean Renoir o Fritz Lang, ma di cui risulta poi del tutto chiara l’identità dell’autore. Lo scopo perseguito da Ercolani è quello di trovare, in uno spazio e in un tempo che non esistono, un punto di osservazione inedito che possa gettare luce su una poetica o un destino, sulla genesi e il senso di un’opera”. Io credo che la parola effetto sia lontanissima dagli intenti e dai risultati di Ercolani. Mi sembra che egli costruisca piuttosto una propria cinematografia, fatta soprattutto di personaggi dimenticati, sceneggiatori non accreditati, dive del muto cadute in disgrazia, film non fatti e scene tagliate. Una controstoria del cinema dove, attraverso le voci di Dalton Trumbo, Visconti o B. Traven, affiora l’ossessione per il non essere, per “gli esseri silenziosi”, i “destini minori”, gli “esseri strappati” presenti in altre opere dell’autore. Anche giganti come Orson Welles sono visti nella luce malinconica delle occasioni mancate, dei progetti non realizzati, delle visioni che non hanno preso forma.
Proprio Orson Welles è una figura-chiave per comprendere la disincantata “soluzione provvisoria” di Ercolani al problema dello statuto ontologico dell’arte nel tornante bestiale tra ventesimo e ventunesimo secolo. Quella mole di lavoro incompiuto, quella massa di abbozzi, frammenti, materiale grezzo che Welles ha lasciato dietro di sé, è stato forse il suo modo per dirci che l’arte sta diventando, da opera, cantiere, che il confine fra arte e vita è stato violato e l’imperfezione non ci spaventa più. Welles ci ha lasciato tante opere aperte perché ci ha lasciato tanti problemi aperti. La sua figura sembra un alter ego di Ercolani. E le sue disavventure produttive ed economiche diventano la metafora dello spazio lasciato all’arte e alla letteratura oggi: lo spazio risicatissimo del frammento e della domanda. Non sorprende perciò che Ercolani introduca fra le sue voci apocrife quelle di cineasti viventi -Clint Eastwood, o Steven Spielberg genialmente colto alla vigilia del suo ripensamento dei primi anni Novanta- perché il mondo ectoplasmatico del cinema, che imita il reale più d’ogni altra arte ma la riduce a due dimensioni, che non fa differenza fra i vivi e i morti essendo entrambi infinitamente riproducibili dalla macchina delle meraviglie, è l’icona di questa esplosione artistica in cui le visioni galleggiano senza mai trovar pace, senza aver vita ma senza mai toccare la morte.
All’interno dell’opera apocrifa di Ercolani, A schermo nero (QuiEdit, 2010) si distingue per una certa leggerezza e una spiccata forza iconica. Ogni apocrifo inquadra il suo personaggio da un’angolatura ben definita e vi si attiene con stringente coerenza. Vediamo Jean Vigo nella luce dei suoi rapporti col padre, Greta Garbo nella luce dell’interminabile vecchiaia, Ida Lupino nella luce del suo sdoppiamento tra vita e cinema, Dalton Trumbo nel momento in cui le persecuzioni maccartiste lo portano sul precipizio della follia… Se il successivo Atti di giustizia postuma (Matisklo, 2014) si presenta come un’ “enciclopedia di Ercolani”, un abbacinante inventario dei suoi temi rintracciati in dieci secoli di storia dell’arte e del pensiero, qui l’adozione di punti di vista netti, l’arco temporale ristretto, i testi brevi e lo stile ridotto al minimo danno vita a un’opera diversa, non meno intensa ma meno monumentale e apocalittica, più orientata a tradurre le sue implicazioni di poetica in un volume dotato di unità e di efficace vigore narrativo.


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