QUADERNO UNGHERESE. Luigi Sasso

Chi viaggia sperimenta inevitabilmente la pluralità dell’io, sollecitato a confrontare le nuove esperienze con quanto da lui già vissuto e conosciuto, soggetto a spostamenti non solo nello spazio ma anche nel tempo, disposto a leggere le diverse pagine del suo percorso col corpo, e non soltanto con la mente. L’io può assumere, in questo movimento, differenti modi e volti, diventare ironico o comico: toccherà alla scrittura, anche quando si presenta in forma frammentaria, ricucire questi brandelli di identità.

Le parole urtano, accarezzano, graffiano. C’è in loro qualcosa che parla al tatto prima ancora che all’udito o all’occhio, qualcosa che si sente sul corpo, sulla pelle, sulla punta delle dita.

Il nome proprio è il punto da cui si scorge l’al di là del linguaggio.

L’eroe, nella letteratura classica, deve discendere nel regno dei morti, varcare la soglia che lo separa dall’altro mondo con un atto volontario che implica il superamento di reticenze e timori. Terminata la nekya il protagonista, Ulisse, Enea o Dante, rientra nell’al di qua, come se il viaggio, decisivo per il suo destino, fosse stato soltanto una parentesi, una fase circoscritta di un più lungo itinerario.

Nella letteratura degli ultimi secoli, al contrario, sono i simulacri dei defunti che irrompono nella nostra realtà, appaiono tra le figure familiari, prendono il loro posto, alimentano le nostre paure, ci guardano, non se ne vanno più.

A Tarvisio, deviazione verso est. Subito passato il confine, ci s’imbatte nella riserva naturalistica del fiume Sava. Seguo un sentiero, in un bosco di conifere, fino a raggiungere un piccolo lago, che è in realtà una sorgente di acqua limpida e ghiacciata, nonostante il caldo soffocante di luglio. Il fiume Sava è lungo 940 chilometri, attraversa la Slovenia, la Croazia, la Bosnia, la Serbia. A Belgrado si getta nel Danubio. Ogni fiume è una trappola, col suo corpo tortuoso agita fantasmi e memorie. Eppure qui l’acqua sembra formare uno stagno, una palude, dove tutto – persino le anatre, e i pesci – è immobile, e ogni cosa, specchiandosi, ferma lo scorrere del tempo..

Volti di personaggi ora noti, come Jean Paulhan, ora anonimi. Dubuffet è un grande artista di ritratti, le sue facce sembrano macchie sul muro, intonaco venuto via, immagini nate da una cancellatura, dal graffio rapido e furtivo di un passante. Forme apparentemente casuali, che solo poche linee, qualche elementare traccia grafica salvano dal magma indistinto, dalla muta, rugosa superficie di pietra o di cemento.

«E’ difficile rammentare determinati periodi della nostra vita, – scrive Milosz, La mia Europa – rassomigliano a coaguli di sogni, quando un particolare emerge dal folto indefinito. E ciò vuol dire che non dominiamo questo materiale, che non siamo ancora riusciti a decifrarne i significati nascosti…». Può accadere la stessa cosa con la scrittura, pratica che di rado è possibile tenere sotto controllo, e più frequentemente sembra muoversi da sola, secondo leggi che ignoriamo, che con difficoltà riconosciamo intelligibili.

Sebald, nel libro Gli anelli di Saturno, ricostruisce le tappe e i momenti più significativi di un pellegrinaggio, com’egli stesso lo definisce, in Inghilterra, compiuto a partire dall’agosto del 1992. In seguito a uno dei suoi spostamenti si ritrova a Southwold, una località che si affaccia sul mare e in cui si apre un’ampia distesa erbosa che risponde al nome di Gunhill. A Southwold, Sebald entra in una casupola che ospita il Sailor’s Reading Room, un’istituzione pubblica che serve da museo per tutto ciò che riguarda il mare. Diari di bordo, trattati sulla navigazione a vela, tavole a colori che riproducono leggendari velieri e transatlantici come il Conte di Savoia e il Mauritania, riviste di nautica costituiscono il materiale collocato sugli scaffali della sala di lettura. La sala si presenta quasi sempre deserta, tanto da suggerire questo commento allo scrittore: «Qui si riesce meglio che da ogni altra parte a leggere, a scrivere lettere, a inseguire i propri pensieri o, nelle lunghe giornate d’inverno, semplicemente a osservare il mare in burrasca infrangersi sulla passeggiata».

Una mattina, quasi per caso, Sebald s’imbatte in un consunto volume in-folio, una storia fotografica della prima guerra mondiale. Tra le immagini anche quelle dell’attentatore di Sarajevo e della giacca dell’arciduca Francesco Ferdinando perforata dai proiettili e insanguinata.

Nel pomeriggio lo scrittore rimane al tavolo del ristorante del Crown Hotel fino all’ora del tè. Sfogliando l’edizione del fine settimana dell’“Indipendent” si imbatte in un articolo che si rivela in relazione con le fotografie dei Balcani adocchiate in mattinata nel Reading Room. L’articolo trattava delle cosiddette azioni di epurazione attuate in Bosnia dai Croati in accordo con tedeschi e austriaci nel corso, questa volta, della seconda guerra mondiale. Nel lager di Jasenovac, sul fiume Sava, circa settecentomila fra uomini, donne e bambini vennero massacrati con metodi da far sbalordire persino i nazisti. Non lontano da Jasenovac, annota Sebald, c’erano anche i lager di Prijedor, Stara Gradiška e Banja Luka, nei quali la milizia croata, «con le spalle protette dalla Wehrmacht e l’anima dalla chiesa cattolica, perpetrò con metodi analoghi un’impresa dopo l’altra».

Tra le tante atrocità, questa merita una particolare menzione: «La popolazione femminile di Kozara fu deportata in Germania e in gran parte massacrata con il sistema, diffuso in tutto il territorio del Reich, del lavoro forzato. Dei bambini rimasti, in numero di circa ventitremila, la metà venne uccisa immediatamente dalla milizia, il resto fu mandato in diversi punti di raccolta in Croazia per essere spedito altrove; ma fra costoro non pochi morirono di tifo, di stenti o di terrore ancor prima che i carri bestiame avessero raggiunto la capitale croata».

E tuttavia alcuni riuscirono a sopravvivere, almeno per un po’ di tempo. L’atto con cui si allontanano dal nostro sguardo è solo un dettaglio, ma è qualcosa che non è facile dimenticare: «Molti di costoro che erano rimasti in vita avevano masticato per fame il cartoncino con i dati personali che portavano appeso al collo, cancellando in un momento di estrema disperazione il proprio nome»

Chi tiene un diario, un taccuino, un quaderno di appunti, prima o poi è raggiunto da un dubbio, deve dare risposta a un interrogativo, ma nel porselo si rende conto che quella domanda potrebbe coinvolgere ogni tipo di scrittura, e che la risposta, anziché avvicinarsi, sfugge, si confonde con altre frasi e pagine, o semplicemente non è più rintracciabile, come accade nei Diari di Antonio Delfini: «Sono tutte note; poesie, abbozzi di racconti; scritture gettate sulla carta per passare il tempo senza pensiero senza applicazione; frasi còlte al volo a passeggio in treno in bicicletta o stando con le mani in mano mentre fluiva il tempo; amenità, invettive, silenzi, bronci, amori, viaggi, dolori ecc. Potrà mai giustificarsi una simile opera?».

Lubiana – ho letto da qualche parte – significa città dell’amore. Sembra che tutta la città si raccolga nelle poche centinaia di metri del lungo fiume, nei locali che offrono birra e musica, sotto i lampioni che illuminano i palazzi in stile liberty, sul ponte di Plečnik. E’ una città che forse non vuole essere compresa, occorre soltanto viverla, lasciandosi trascinare dal lento movimento della folla, dal dondolio delle luci sull’acqua.

«Allo spirito che si orienta verso la nudità – osserva Cioran, Fascinazione della cenere – ripugnano le parvenze che gli ricordano questo mondo dal quale si vuole separato». Scrivere, però, è sprofondare, tradurre, varcare soglie, lasciarsi catturare da un volto, da ombre e strade, disperdersi, trasformare i segni alfabetici in immagini, ridurli di nuovo in macchie d’inchiostro…

«Scrivo – annota nel suo Diario Virginia Woolf – nella sordida atmosfera di locanda che precede le partenze. Pinker dorme su una sedia; Leonard firma assegni al tavolo di cucina sotto il bagliore della lampada. Il fuoco è coperto di cenere perché l’abbiamo tenuto acceso tutto il giorno e Mrs. B. non pulisce mai. Buste giacciono sulla grata. Io scrivo con una penna…». Sono sempre importanti, nella stesura di un taccuino, le condizioni materiali in cui l’atto di scrivere avviene. Il luogo, il momento della giornata, i volti e gli ambienti che fanno da cornice alla pagina, gli strumenti con cui lo scrittore butta giù le sue osservazioni. Talvolta persino gli odori o la luce assumono un valore decisivo. E forse gli appunti presi in un diario – richiamando, direttamente o meno, questa realtà esterna al foglio – ci dicono una qualità che la scrittura dovrebbe sempre mantenere: quella di avere dietro di sé un racconto, momenti e situazioni quasi sempre taciuti ma di cui qualche segno o residuo è ancora in certa misura – come una traccia non del tutto cancellata – recuperabile nel testo.

Al mercato di Lubiana un anziano signore suona una sorta di xilofono. I movimenti sono rapidi, a volte vigorosi, altre volte danno l’impressione di sfiorare appena le piastre di legno. Quando solleva la testa, il suo sguardo sembra interrogare gli ascoltatori, come se volesse inchiodarli o trasformarli in pietra. Si direbbe che non cerchi di accattivarsi la simpatia o la compassione del pubblico per racimolare il suo gruzzolo di spiccioli, ma che esegua la sua musica per qualche ragione meno facilmente decifrabile, per sfida forse o per una – non economica, appunto – necessità.

Ogni frase rimette in discussione tutto il linguaggio, ogni parola sostiene oppure smuove l’intera pagina, ogni nuova opera ci getta in faccia gli stessi interrogativi di sempre: chi sono? Perché scrivo?

Vorremmo sempre provare a chiuderla, una città, in un’immagine, vorremmo tradurre le strade in una frase, raccontare il viaggio in una pagina, perché tutto possa fissarsi, trovare il suo spazio, o un altro luogo a cui ognuno possa fare ritorno. Vorremmo stabilire un ordine, costruire una struttura, una sintesi in cui momenti ed esperienze non si disperdano, cancellandosi per sempre. E invece la scrittura devia, s’interrompe o più semplicemente manca il bersaglio, come una voce o un fuoco si fa lontana, si perde nella notte…

«Dove vai?», mi chiede, in italiano, mentre sfoglia il mio passaporto, la poliziotta croata di guardia al confine. Sono in viaggio, ho attraversato la Slovenia, vorrei raggiungere l’Ungheria, sognavo da tempo di vedere Budapest, non ho ancora capito perché, e forse la strada che sto percorrendo non è la più diretta né la più logica per chi proviene dall’Italia. Ma forse lei vorrebbe soltanto sapere se sono diretto in qualche parte della Croazia, Dubrovnik, per caso, o un’altra località di mare, forse si sta soltanto annoiando e il suo è un semplice tentativo di far conversazione, una banale curiosità o una domanda buttata lì, senza pensarci troppo su. Vorrei parlarle un po’ di tutto questo, magari chiederle se ha mai visto il lago Balaton, se sa indicarmi la strada e un albergo o se conosce soltanto la campagna assolata che sta qui intorno. Vorrei mostrarle sulla cartina tutto l’itinerario che ho in mente, ma riesco solo a farfugliare, come risposta: «Non lo so».

Forse c’era solo una risposta possibile, penso, qualcosa come una parola d’ordine, una formula magica, e la sua domanda era l’inizio di un enigma. La guardo, mentre controlla ancora i documenti; mi avrà sentito?

«Va bene, puoi passare», dice. E mi restituisce il passaporto.

In un testo letterario ogni variante – di un vocabolo, di un titolo, di una pagina – non annulla le versioni precedenti, ma a esse si aggiunge, con quelle entra in rapporto, conservandone un’ombra, per quanto impercettibile, una debole, ma pur sempre sensibile risonanza. E persino ogni lettera cancellata, ogni macchia d’inchiostro finisce per essere, nella dinamica della scrittura, dotata di senso. Ceneri, il radiodramma che Beckett scrisse in inglese tra la fine del 1958 e il febbraio del ’59, fu terminato col titolo Ebb (Marea). Nell’aprile il titolo era diventato definitivamente Embers, il cui significato è braci, tizzoni, con un puntuale riferimento nel testo: «not a sound, only the embers…». Quando, con la collaborazione di Robert Pinget, Beckett tradusse il testo in francese, scelse la parola Cendres (Ceneri), anziché la più appropriata Braises. Si può ipotizzare – è stato fatto – che Beckett abbia voluto in tal modo escludere, nel dialogo che lega il vecchio Henry alla moglie Ada e alla figlia Addie, o meglio ai loro fantasmi, ogni seppur minima presenza di vitalità. Ma si può anche pensare, come si accennava, che in una traduzione o in una variante non necessariamente vada perso qualcosa, che qualcos’altro possa essere guadagnato. Le ceneri di Beckett non sono il segno di una realtà ormai sepolta e immutabile, ma al contrario l’eco delle pulsazioni di un’intera esistenza, un baluginare di tracce, il respiro infine – che si percepisce soltanto nel silenzio della mente, ossessivo, interminabile, e che risuona anche quando tutte le parole sono esaurite – del mare, della natura.

«Appaiono le luci notturne di Budapest. Sento cadere le mie maschere, l’inevitabile dissolversi dei miei incogniti. Sono quello che sono, un uomo della folla…». Forse si viaggia, e si fa ritorno nella propria città, – e queste frasi di Imre Kertész sembrano confermarlo – non per riempirsi gli occhi di paesaggi, per stipare la memoria di ricordi, ma per scendere al di sotto delle nostre identità, fino a riconoscersi un altro, fino allo strato anonimo, a quel nòcciolo o a quel vuoto, che finalmente ci appartiene.

La musica di Bartók è la dimostrazione che attraverso il recupero di una tradizione folclorica, nella fattispecie quella magiara o più generalmente balcanica, di una produzione, vale a dire, anonima, popolare e dunque collettiva, è possibile raggiungere un’indiscutibile originalità, creare un’arte dalla fisionomia forte e ben riconoscibile. Tutto questo avviene – e si ha qui un secondo insegnamento – non tramite un’adesione ingenua a quel patrimonio musicale, ai suoi ritmi e alle sue movenze melodiche, né al termine di un percorso di sbriciolamento, che riduca quell’universo artistico al ruolo di una citazione, ma al contrario nei modi di una relazione dialettica – tra i cui esiti va ascritto il modificarsi delle forme orchestrali e (come nella Musica per archi, celesta e percussione del 1936) l’estrema varietà delle inflessioni e della scrittura ritmica – di un rapporto che non è definibile, alla fine, altrimenti che “critico”.

Un punto di vista, l’io.

Un guanto è il titolo di una celebre serie di acqueforti realizzata da Max Klinger nel 1878. Un signore che sta pattinando sul ghiaccio trova un guanto caduto a una qualche bella fanciulla. Da questa prima immagine si sviluppano le altre, in libera successione, finché l’elegante accessorio diventa un oggetto in bilico tra immaginazione e ricordo, la chiave che apre lo spazio del sogno, e che in questa nuova realtà si insedia, non diverso da un fantasma, gigantesco come una paura notturna. Nell’ultima acquaforte è ormai situato al centro. Un amorino, lieve come una libellula, gli si posa accanto. Da particolare quasi trascurabile, il guanto è diventato un corpo ingombrante e non si riesce davvero a comprendere chi possa ormai farlo uscire di scena. Gli esseri umani, come ombre, si sono da tempo dileguati.

Il rapporto che lega gli occhi e i nomi è còlto, con maggior forza, dalla loro assenza. Come scrive André Masson: «a un secolo senza nome, volti senza sguardo?».

Scrivere può essere un modo di restituire un volto e una vita a figure che il tempo ha trasformato in ombre, se non completamente cancellato. Gyula Krúdy, scrittore nato nel 1878 e morto a Budapest nel 1933, fu autore di più di un centinaio di opere, in cui raffigurò anche se stesso, soprattutto nelle vesti di un poeta povero e vagabondo, ma capace di farsi trasportare dalla follia dell’amore. Quanti si ricordano di lui? Eppure, intorno alla metà degli anni trenta, Krúdy fu all’origine di una moda, di un successo tale da coinvolgere anche persone che non avevano mai letto le sue pagine e forse, suggerisce Sándor Márai, ne ignoravano anche il nome. Quello che cercavano, nel mondo di Krúdy, era una via per sfuggire alla solitudine e alla disperazione. E si lasciarono avvolgere dalla leggenda che circondava la sua vita e la sua morte tanto da trasformarla in mito. Molti bevitori incalliti si vantavano di averlo conosciuto, di aver seduto con lui allo stesso tavolo d’osteria. Quando morì, nella sua casa la luce non era accesa perché la famiglia non aveva di che pagare la bolletta. Gli ultimi libri li pubblicò a proprie spese, e furono diffusi soltanto in qualche località di provincia. «Quando, alla presenza di alcuni dei suoi compagni di bevute notturne, fu messo nella tomba, morì anche l’opera della sua vita», scrive Márai.

Sulla Dohany utca sorge la sinagoga, la più grande d’Europa. È un edificio in mattoni colorati, e i due campanili a cupola, simili a minareti, tradiscono l’ispirazione bizantino-moresca dell’architettura. Alcuni alberi concedono un po’ d’ombra, a pochi metri dall’ingresso. La sinagoga fu costruita intorno alla metà del XIX secolo. Non è meno maestoso l’interno, interamente circondato da due piani di gallerie in legno e illuminato da enormi candelabri.

Fuori, imboccata la Wesselényi utca e fatti pochi passi, si giunge in uno spazio ben delimitato e raccolto. La sagoma più suggestiva, che attira inevitabilmente lo sguardo, è quella di una scultura in argento realizzata nel 1987 da Imre Varga. Raffigura un salice piangente e i suoi rami e le innumerevoli foglie mandano riflessi a volte abbaglianti sotto la luce del sole di luglio. Avvicinandosi e accarezzando quei rami si rimane sorpresi: le foglie sono mobili e leggere come quelle di un albero vero. Su ciascuna di esse si legge un nome, inciso sul dorso, tutto quello che è restato dopo la fine della Shoah.

Ai piedi del monte Gellért inizia il quartiere del Taban. E’ probabile che il nome derivi dal turco e significhi conceria. Durante l’occupazione ottomana, infatti, il quartiere era abitato da conciatori di origine serba, le cui condizioni di vita erano miserabili. Un tempo tutta la zona era un dedalo di viuzze, di botteghe, di artisti da strada che suonavano a ogni angolo il loro strumento. Era un luogo di odori, di musiche e di canti popolari. Era il cuore, lacero e sporco, della vecchia Buda. Ora ci sono soprattutto dei grandi spazi verdi, alberi e prati che rendono ancora più dolce la collina. Non è facile, guardandosi intorno, comprendere, immaginare cosa sia stato il Taban fino agli inizi del secolo scorso. E intanto scrivo mentre cammino, e ogni frase è una strada percorsa, un viale, un ponte, una galleria.

Non lontano dall’Erzsébet híd, sorge la chiesa di Santa Caterina d’Alessandria. Qui in precedenza i turchi avevano costruito una moschea adattando una chiesa medievale. Ogni evento storico ha modificato, in qualche caso stravolto, questi luoghi. Sulla Attila ut il traffico fa sentire di nuovo il suo rumore. All’angolo con la Aprod utca si notano, coperti di graffiti, due pezzi, trasportati qui dopo la sua demolizione, del muro di Berlino.

Budapest è una città che si apre allo sguardo. Dalla Cittadella, dal Palazzo Reale si possono godere splendide vedute della città: i ponti, la sagoma gotica del Parlamento, i battelli sul Danubio, l’isola Margherita creano suggestive scenografie. Eppure prevale, o forse a poco a poco s’insinua, la sensazione che la città sia altrove, che l’anima del luogo si nasconda, fugga via. È possibile che si trovi negli interni, in luoghi meno scenografici: al museo Semmelweis, nella casa di Zoltan Kodaly, nella chiesa del Taban? che si possano raccogliere, della città, soltanto dei frammenti, delle frasi sconnesse, degli spazi di silenzio? Cammini, per i viali, lungo le rotaie del tram, e hai sempre il sospetto di essere nel punto sbagliato. Dall’Oktogon, una piazza centrale, guardando verso est, il viale prosegue non sai per quanto, fino a confondersi dentro una nuvola di foschia e di smog.

Budapest è una città d’acqua e di musica.

Ogni gesto che investe una pagina – anche quello che si pretende più tecnico e oggettivo, un restauro filologico, la spiegazione di un vocabolo – non può prescindere da ciò che siamo, dalla nostra sensibilità, cultura, intelligenza, memoria. La musica che in questo momento ascolto, il Viaggio d’inverno di Schubert, prima o poi riemergerà, nella luce o nel respiro di una frase che scrivo.

Si torna da un viaggio, e quello che resta sono quasi soltanto delle carte: la busta delle fotografie, la mappa del centro storico della capitale, la pianta del Magyar Nemzeti Múzeum, la cartina della metropolitana. Nella valigia è finita la ricevuta del ristorante Horváth Gösser, nella tasca dei pantaloni gli scontrini del caffè Lukács, i biglietti del tram. Sono questi fogli, più ancora degli appunti sul bloc notes, a dare un volto e un nome ai luoghi, ai momenti trascorsi. A volte riaffiorano, a distanza di mesi, dal fondo di uno zaino, come immagini, sillabe emerse in superficie dalla notte dell’inconscio.

Nell’Odissea appaiono adeguatamente esemplificate le due principali funzioni che la voce, in ambito letterario, è destinata ad assolvere. La voce è canto, richiamo irresistibile, seduzione, forza che può trascinare fin dentro all’abisso e alla morte. Il potere esercitato dalle sirene è ben noto a Ulisse: da esso protegge i suoi compagni e per sottrarsi alle sue nefaste conseguenze egli si fa legare all’albero della sua nave. Ma la voce è anche la narrazione delle proprie imprese che l’eroe ascolta da Demodoco; la voce è l’epos, il passato ricomposto in un’ordinata successione di eventi, un discorso che commuove, parole in cui risuonano una vita e il suo dolore.

György Cziffra è stato il più grande e geniale interprete di Liszt nel Novecento. Oltre all’autore delle Rapsodie ungheresi, Chopin, Schumann e in generale la musica romantica costituivano la parte più cospicua del suo repertorio. Il pubblico seguiva i suoi concerti in uno stato di estrema tensione, rapito dal movimento delle mani, dai vortici creati dalle note, dalla sbalorditiva rapidità con cui sapeva eseguire gli accordi. Si racconta – e un evento del genere non dev’essere stato certo inconsueto – che una sera, poco dopo l’inizio del X studio trascendentale di Liszt, la gente scattò su, come spinta da una molla, e seguì in piedi il resto del concerto. Cziffra aveva origini modeste: era figlio di zingari ungheresi e già all’età di cinque anni si esibiva nei circhi e nei ristoranti sorprendendo gli ascoltatori col suo precoce talento. Studiò poi al conservatorio di Budapest e divenne uno straordinario pianista. Ma la sua carriera, prima di portarlo alla notorietà, fu interrotta dalla seconda guerra mondiale, cui Cziffra partecipò tra le fila dell’esercito ungherese. Il dopoguerra lo vide ancora alle prese, come era accaduto prima che indossasse la divisa, con esibizioni in locali pubblici, costretto a svendere il suo talento per sbarcare il lunario. Tra il 1950 e il ’53 fu internato in un campo di lavoro per aver tentato di fuggire dall’Ungheria, impresa che gli riuscì nel ’56. Riuscì a raggiungere Vienna, e poi Parigi. Prese la cittadinanza francese, e il suo nome divenne Georges. Da allora le più prestigiose sale da concerto e i teatri più famosi d’Europa ospitarono le sue esibizioni. Morì nel 1994, all’età di 73 anni.

Colpivano, nella sua figura e nel suo modo di suonare, l’originalità, il carattere estremamente sensibile, la capacità di restituire ogni sfumatura del brano, di dare forma e timbro a ogni ombra della pagina. Cziffra è la più convincente testimonianza che l’interpretazione non può prescindere dal temperamento. E non è escluso che, se non all’origine, almeno alla presa di coscienza delle sue doti d’artista e al loro definitivo imporsi all’attenzione internazionale, abbia contribuito la sua formazione iniziata sui bordi della strada, il suo percorso eccentrico, non di rado in contrasto con la realtà del suo tempo.

Ci sono scrittori che inseguono per tutta la vita la semplicità di una forma breve, vorrebbero racchiudere tutto il mondo in una manciata di pagine. Robert Walser è uno di loro. Egli può dire le sue verità solo attraverso la fiaba. Tutta la sua prosa è il tentativo di costruire l’incantesimo di un racconto fiabesco, di ricreare un’atmosfera magica. Ma il progetto conosce sempre uno scacco, qua si apre una crepa, là dove sembrava che il sogno fosse reale tutto alla fine svanisce e dalle labbra di una fanciulla o di un principe non è difficile per noi apprendere l’irrimediabile condizione in cui chi scrive, ma in fondo ogni uomo, deve muoversi. L’inquietudine, l’incapacità di fermarsi in un luogo si rivela la condizione tipica dei suoi allampanati perdigiorno. Non si può dare, nell’universo walseriano, stabilità di forma, canonico rigore, grande e classica compostezza. Tutto ciò che allude a una solida architettura narrativa non conosce lunga vita. Per quanto il qui sia affascinante e incantevole, bello fino alle lacrime, la scrittura esiste solo nella ricerca di un altrove, in un continuo spostamento, in una sequenza, potenzialmente infinita, di deviazioni. La domenica volge al tramonto: ma alla scrittura non è più dato di vincere il tempo, essa è solo un altro modo di scandirlo, di sentirlo passare, scivolare via.

Quando finisce un viaggio? Quando il treno si ferma, quando disfiamo le valigie, quando stampiamo le fotografie che abbiamo scattato? Continuo a scrivere di Budapest, di scrittori e musicisti ungheresi, di persone che ho incontrato. Continuo a cercare nei libri, in qualche oggetto, le tracce di una città, i segni della memoria, di un percorso.

Continuo a chiedermi quali piazze ho tralasciato, quali zone avrei potuto attraversare.

Quanti luoghi cancella un itinerario?

Ho finito un’altra pagina. E di nuovo nasce il desiderio di interrogare un volto, un paesaggio, di inventare nuove strade, di costruire con le parole fiumi e città che non esistono…

Dialogano tra loro, i frammenti d’identità.

E’ una domenica di marzo del 1944. Le macchine della Gestapo hanno già iniziato le loro scorribande per le strade alla ricerca di ebrei e persone sospette ai nazisti, preludio alle deportazioni di massa di luglio. Poldi Krausz, un uomo piccolo di statura, con la schiena curva e i mustacchi, il proprietario della Cantina Profonda, una delle osterie preferite di Krúdy, suona a una porta. E’ l’abitazione dello scrittore Sándor Márai. In mano ha un pacco avvolto nella carta di giornale. “Stanno per portarmi via. Nascondilo, conservalo, custodiscilo”, lo implora. Quello che gli sta affidando è l’opera della sua vita, il suo tesoro: «un album ricoperto di tela cerata che conteneva frasi, a volte scherzose, a volte serie, di giornalisti, scrittori, artisti, nottambuli – i cavalieri erranti del mondo dello spirito di Budapest».

Ogni pagina, ogni riga di quel quaderno è il racconto di una notte trascorsa nella cantina Profonda, quei fogli tracciano la mappa di un mondo perduto. Forse qui affiora un’altra immagine della scrittura. Prendere una penna in mano e tracciare segni su una pagina, diventa il movimento cieco, a volte disperato, a volte felice di una vita, il percorso imprevedibile che va compiuto giorno per giorno.

Annota, poco più avanti, Márai: «In ogni esistenza c’è qualcosa di unico. Una cosa alla quale l’uomo si prepara per una vita, ci gira intorno, la cura, la abbellisce. Qualche volta è una persona. Altre un’idea fissa. Per Poldi Krausz, povero e modesto oste del Tabán, che mesceva sempre borbottando e sorridendo, era quell’album il capolavoro. Adesso, sul ciglio del baratro, era questo che voleva salvare, il suo capolavoro. Sfogliammo l’album. Apparvero firme di chi non c’era più e di ancora viveva ma in quelle ore già si preparava alla deportazione e alla morte. E sulle pagine si susseguivano capricciosamente le annotazioni dei vecchi, dai grandi della letteratura a quelle degli scomparsi delle notti del Tabán. Krúdy aveva scritto una mezza pagina con lettere che sembravano perle (quando scriveva la mano non gli tremava, anche se era ubriaco). E altri ancora, un’intera generazione. Anch’io avevo scritto qualche parola, e trovai la pagina».

Ma lo scrittore non accettò di custodire l’album, temendo che presso di sé non sarebbe stato al sicuro: fece bene a pregare Poldi di rivolgersi altrove? Quello che ci interessa è trattenere ancora per un istante l’immagine dell’oste del Taban, seguirlo con lo sguardo mentre nell’atrio dell’abitazione di Márai indugia, prima di perdersi nelle strade di Budapest portando con sé le pagine, preziose e indifese, di un quaderno: «Diedi a Poldi Krausz due indirizzi presso i quali l’album forse sarebbe stato meglio custodito. Più tardi seppi che li aveva ignorati: l’album fu annientato con lui quando, pochi giorni dopo, lo prelevarono con la moglie, la «zia Poldi», per portarlo nella fabbrica di mattoni di Újlak e da lì in un campo di sterminio polacco».

La scrittura, anche quella che siamo soliti definire critica e il cui obiettivo è l’interpretazione di una opera, in altre parole l’individuazione dei rapporti che la costituiscono, dei nessi e dei riferimenti che ne delineano la fisionomia, talvolta si ferma su un’immagine, attirata nel suo campo magnetico. Qui sta la conferma che l’indagine su un testo, per quanti enigmi possa contribuire a sciogliere, finisce spesso per restituircene, talvolta nelle sue righe conclusive, un altro. E’ proprio questa forza sotterranea, la stessa che attraversa un ricordo o un rimorso, a vibrare in queste righe: «E ancora oggi, da tremende lontananze e distanze oceaniche, quel momento è ben chiaro nella mia mente: Poldi Krausz che scende le scale con l’album sottobraccio, si ferma a una svolta, alza gli occhi verso di me che lo seguo con lo sguardo dal primo piano, e subito riprende la discesa, scompare. Quella fu l’ultima volta in cui vidi Poldi e la scrittura di Krúdy».

November 5, 1976, Georges Cziffra, the Collegiate Chapel of St Frambourg, Senlis.

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