Marco Ercolani
Se è vero, come scrivi, che “la scrittura è fare festa con i fantasmi, perché la scrittura salva e condanna”, come nasce e come si sviluppa il tuo rapporto con l’atto reale di scrivere? Cosa significa far coincidere condanna e salvezza?
Chiara Daino
«Al fuoco della verità le obiezioni non sono che mantici», mio Geniale Lettore, e che l’incandescente Conte Dossi scintilli e principii ogni mio enunciato! Sombrero introduttivo che riordino il processo sinaptico e, finalmente, a domanda rispondo: è vero per come vivo. E per come vivo l’atto di scrivere: abitare l’ossimoro e cicatrizzarsi come segno mobile dove gli opposti coincidono. Due rette parallele non si incontrano mai solo in un sistema euclideo, un sistema che non mi sistema. Il conflitto è genitore di tutto e la visione dicotomica e manichea [bene/male; bello/brutto; stallone/sfigato] è vecchiume rassicurante da blockbuster. La salvezza di qualcuno o di qualcosa coincide sempre con la condanna di qualcun altro e qualcos’altro. Il cardias è beante nell’artista, combustibile e comburente insieme, che si salva e si condanna al tempo stesso. Perché? Perché è risaputo che gli artisti non siano particolarmente furbi, altrimenti sarebbero commercialisti.
Mio Geniale Lettore, scusandomi per l’attacco di panico procuratoti [hai chiamato il Dottore per sapere lo stato morboso e moroso che smunge le tue finanze? Bene, procediamo], sono certa ricorderai il Gabbiano di Bach… Ma quello di Čechov? «Adesso io so, io capisco Kostja, che nel nostro lavoro – poco importa se di Attore o di Scrittore – l’essenziale non è la gloria, non il lustro, non è ciò che io sognavo, ma la capacità di soffrire. Sappi portare la tua croce e credi» e quando lo recitai era un tempo troppo entusiasta perché io potessi capirlo in ogni monade e in ogni molecola. Ora che vanto l’esofago «a fiamma» e sono davvero scortecciata nel mio reflusso capisco l’eternità di quella lezione rimessa e mai digerita. Ulcera farsi spugna e fingersi sordi. Chi scrive sente, anche quando non vi ascolta. Bilanciando le sue solitudini, dosando moltitudini, lo scrittore conosce il segreto che è il segreto del Mestiere e sopporta la sua Passione [in tutte le accezioni che non ho più voglia né tempo di spiegare quanto ogni singola Parola sgrani rosari e scenari].
E chi scrive ripensa e riporta l’arco teso delle biografie, vite che tutte assorbe e assume: bevendosi una birra in San Vincenzo, tavolo all’aperto, col gusto e il respiro dello sguardo che non prevede disincanto, registrare il non-verbale; ventaglio di espressioni; lacerti di discorsi; …
Gitaneggiando pensieri sull’«essere soli», lo scrittore si godeva quel campionario di volti e di barattoli convinti di colmare i vuoti soltanto adeguandosi a modelli societari da tritacarne, forgiava coriandoli dei suoi fogli trapassati [traumi, lodi e riscatti] quando lo straniero poggiò una rossa al suo tavolo appartato: «posso?». «Prego – rispose in inglese alla figura che le parlava in inglese –, ma non assicuro troverà il calice ancora colmo, quando avrà finito il suo chiacchiericcio al telefono». Così, con un burbero ma gentile distacco, così. E così conosce Tsvi, ebreo che ascolta i Creedence Clearwater Revival, a Genova per una breve gittata della sua vita, anima che rimprovera la disanima dello scrittore: «è una bestemmia! Non bestemmiare! Dire che sei sola è una bestemmia, perché Dio sempre ti accompagna». E lo scrittore si sente una merda, tanto per concimare altre psicosi. E lui continua: «tu non sei uno scrittore, sei un agente segreto. Loro lo sapevano che ero a Genova e ti hanno mandata a spiarmi». Loro chi? Lo scrittore giura che scrive e che scrivere non è così esaltante come possa sembrare, ma Tsvi – no!, non ci crede ed estrae un coltello a doppia daga dalla tasca, spiccando in due metà la tovaglia di carta che fodera il tavolino. Lo scrittore mezzosorride senza scomporsi, finisce la birra e ne ordina un’altra. Altre due. E aspetta che l’interlocutore spieghi il perché di quel gesto e l’uomo tagliacarte risponde: «lo vedi? Un coltello è un coltello, è un’arma; ma i tuoi anelli non sono anelli, sono un tirapugni occultato. Nessuno si rende conto che sei armata, ma io sì». E tra inglese, spagnolo, italiano – Tsvi cerca di insegnare allo scrittore un poco di arabo e le basi dell’ebraico.
E lo scrittore ride forte perché sa già che tramerà in qualche suo libro di quando, alcolizzandosi in San Vincenzo, fu investito della carica di «agente segreto». E si ride, in primis di noi stessi, perché Jean lo sapeva fin nel midollo: «bisogna ridere prima di essere felici».
M.E.
Una frase che traggo dal tuo romanzo Siamo soli, è esemplare: «E avanzo con un piccolo scudo per sopportare il peso: una pagina che è coperta, è sacra, è calda. Una pagina serra. Una pagina resuscita. La pagina è sorella, è stirpe simile, perché è una pagina sola. E non è solo una pagina: è la sola che mi suturi. E se perdo il filo mi basta cercare: è lì, placido e cullato nella nota. “Io” è chi cade ai piedi della pagina e insegue la linea: ne basta una – e mi prende la mano, mi prende per mano. “Io” è chi è sempre da sola, ma più sicura – se scrivo. E chiudo a chiave: lo scrigno e la gioia di ragno». Dal giro di questa frase emerge il tuo modo perturbante di “fare prosa”, inestricabile dalle alchimie della poesia. Ci vorresti parlare di qualcosa di cui oggi nessuno parla più: il rapporto vivente tra prosa e poesia?
C.D.
Dal capogiro di questo mio fraseggio credo emerga, più che altro, il mio amore «disturbato» per la Parola [«un popolo povero di parole è un popolo povero e basta», mio Geniale Lettore, non pensare non tormenti il mio tormentone in ogni intervista, sarebbe scortesia tautologica verso me stessa].
Il rapporto tra prosa e poesia FU STATO [trapassato e remoto] ma senza uno statuto debitamente stilato e assunto come valido e, per questo, è diventato un rapporto-zombie: un ibrido non vivo e non morto che prende il nome di «prosa poetica» [zombie che ho scoperto quando ho scoperto di scrivere «prosa poetica»].
In genere i poeti puri odiano la prosa e i prosatori puri odiano la poesia e la bastarda dal sangue misto si trova tra Bolaño e Busi, imprigionata nella Notte dei Critici Viventi [mangiatesta che capisco, esauriti il filone vampiri e il filone licantropi, rimanessero solo gli zombie ai poveri critici, ma almeno avessero la decenza di non insultare i Metallari!].
La Parola è suono che sposa il senso. Sia prosa, poesia, drammaturgia… Alzi la mano chi conosce e può spiegare, con precisione inconfutabile, la differenza tra «azzurro» e «celeste»; tra «rapallino e rapallese»; tra «cocchio», «carrozza» e «calesse». Non basta andare a capo, ma basta la matita di Montale [Eugenio dixit, inanellando disastri futuri: «la poesia è l’arte/tecnicamente alla portata di tutti:/basta un foglio di carta e una matita/e il gioco è fatto»].
La differenza tra prosa e poesia è il respiro. Punto.

Chiara Daino vista da Tiziano Riverso
