Per: Marco Ercolani, Un uomo di cattivo tono, Amazon Fulfillment, 2020
Caro Anton Ercolanov, no, meglio Marco Cechovani, insomma Marco Ercolani o chi diavolo tu sia che ti sei messo a scrivere, anzi a riscrivere questi meravigliosi appunti, secchi come legna da ardere, irriverenti e cinici, ma anche comici e buffi, mi chiedo quale perfetta opera di mimetizzazione sia mai questa al punto che leggendoli ho avuto per un pò di tempo difficoltà a capire se stava parlando Čechov o Ercolani e dove era il confine tra l’uno e l’altro.
Questo dubbio mi ha portato a rileggere nuovamente, a distanza di anni, gli appunti del dott Čechov, gli originali, ed anche allora, staccando la testa dalle pagine, mi è rimasta impressa addosso la stessa difficoltà a capire dove si nascondesse realmente Ercolani, in quale anfratto delle pagine si fosse insidiato. Dove potessi finalmente snidare quel malfattore di Ercolani.
Tutta l’operazione è una continua, ossessiva ricerca di una voce. Non importa di chi, se dell’autore che sta apocrifando – si può dire? anche se è un neologismo orrido – oppure di se stesso protetto dalle pieghe dell’originale, fatto sta che si crea una sorta di osmosi, di respiro comune che attraverso la riscrittura delle pagine determina una discesa in profondità ed una risalita con una nuova pelle di cui non sai attribuirne la paternità.
Ecco, il primo punto: a chi riconoscere la genesi dell’opera, a chi l’ha prodotta o a chi ha deciso di riscriverla rispettando un qualcosa, un quid che, viene da pensare, abbia a che fare con il respiro, con l’olfatto.
Ercolani, sei un grosso annusatore di opere, e così come ti guardo stupito del tuo stupore mentre frughi tra i libri in una libreria, e tiri fuori con un colpo secco della mano il dorso di quell’unico, imperdibile libro che solo tu hai scovato, e osservo vibrare le tue ali del naso che so, mente indugi su un Iwaszkiewicz sdraiato sotto una pila di libri, oppure un Ortén addormentato davanti ad uno scaffale infarcito di opere stupide, mi rendo conto che è lo stesso fiuto che ti porta a respirare, realmente respirare con delle branchie invisibili l’opera di Cechov. Il tuo vero organo, Ercolani, è l’olfatto e la tua vera materia l’aria che respiri nei libri e nelle opere.
Tu dici, ad un certo punto «i fatti sono fantasmi: non esistono che i fatti, è il modo di narrarli che ogni volta è diverso», ed io credo che il nostro Anton abbia passato la sua vita a ricoprire il reale con la carta velina della sua lingua, accertandosi che diventasse sempre più trasparente e più diventava trasparente più risaliva alla superficie il lato inquietante delle cose. La loro ombra.
Ma tu, buon Ercolani, sei come un Andy Warhol della letteratura, ti infiltri come un segugio attraverso i sacri testi e li assapori, li respiri, cogli l’essenza e non ti limiti a copiare l’originale, ma formi una sorta di duplicato a volte molto meglio dell’originale, rendi la copia qualcosa di unico, una sorta di nuovo manufatto dal valore assoluto.
Rimane il piacere di annotare, di segmentare il pensiero, di tagliarlo con il forcipe e di farne uscire il fantasma non tanto per abbellire, ma perché: «Cosa c’è di fantastico nel racconto di un uomo che muore assassinato? Il piacere di raccontare una sparizione anomala, che rinnega il normale morire».
Qui si potrebbe anche dire che ti dai la zappa sui piedi perché per Anton morire equivaleva a sentire la vita finire, la vita sulla punta della lingua che non torna, quando ti sei dimenticata l’ultima parola. Il suo angosciante io non ammetteva abbellimenti, decorazioni, edulcorazioni. La morte era la morte punto e basta, come dissoluzione della materia.
Tuttavia tutto mi sembra bello in questo libro, e da ogni pagina filtra il vento dello spirito. L’unico, vero spiraglio che conduce la dove le parole a volte non sono sufficienti ad esprimerlo. Trattandosi Ercolani di uno che ha fiuto e ha a che fare con l’aria, il tutto mi fa pensare che stia prendendo il giusto colpo di vento e che la lunga affinità con le tante anime morte di cui ha scritto lo stia conducendo a parlare sempre meglio la lingua del saggio.

