La caratteristica precipua di Marco Ercolani è, a mio avviso, quella di essere un poeta, narratore e saggista che non dimentica mai (o quasi mai) il proprio impegno professionale di psichiatra.
In alcuni suoi libri (ricordo, ad esempio, l’illuminante “Anime strane” in cui, assieme a Lucetta Frisa, ha raccolto alcune intense frasi dei suoi pazienti) l’interesse per il disagio psichico è evidente, mentre in altri è più implicito.
Come accade in tutti i casi in cui una certa propensione è spiccata e assidua, l’attitudine alla scrittura si trova a dover fare i conti con qualcosa che la rende più facile e, contemporaneamente, più ardua.
Intendo dire che simile attitudine può incontrare un limite in una sorta di rispecchiamento quasi necessario.
Ercolani, ben conscio di tale pericolo, si muove con grande abilità e, quando si accorge che la perizia non è più sufficiente, riesce ad attingere un’energia capace di proiettare i suoi versi in un mondo nel quale, come per incanto, tutto va a posto.
Il suo segreto è il continuo ricorso a un’apertura del dettato che impedisce la ripetizione.
La vigilanza è, insomma, una qualità sempre viva nel Nostro (che, non a caso ha scritto una silloge intitolata “Sentinella”), ma siffatta attenzione non sarebbe adatta alla bisogna se non fosse accompagnata da un profondo senso dell’esserci che va ben oltre qualsiasi specificità.
La vera poesia è specifica e, nello stesso tempo, universale, poiché, non concedendosi interamente all’uno o all’altro di questi due poli, li contempla ambedue.
Scrivere versi è l’arte di dire il meno possibile esprimendo il massimo in una concisione che riesce ad aprirsi infinitamente.
Essere vivi sul pianeta Terra non è ordinario né straordinario: semplicemente è.
Marco si rivolge proprio a questo esistere, unico eppure molteplice.
Ho detto “si rivolge”, ma siffatta espressione non mi pare la più opportuna.
La scrittura in esame non tende meramente a esibire, poiché la sua stessa proposta è condizione della sua sussistenza.
La poesia vive la sua vita come ogni altra entità non inerte: le sue sequenze non sono estranee ad alcun individuo umano poiché ogni circostanza esistenziale è compresa nelle parole che la compongono.
L’attenzione del poeta nei confronti della realtà fa, per così dire, già parte della realtà e la punta della sua penna (o la tastiera del suo computer) coglie qualcosa e, contemporaneamente, è quel qualcosa.
Ercolani non si limita descrivere il disagio psichico, lo esamina da dentro come da fuori e scopre, così, che l’interno e l’esterno certamente esistono, ma possono, almeno parzialmente, confondersi.
Accettare una lingua davvero diversa non è un gesto generoso o caritatevole, è un impegno dovuto.
Questo, credo, è il nucleo del lavoro dello psichiatra che, senza dubbio, aiuta ma anche è aiutato, osserva e anche è osservato, suggerisce e si accorge che il suo consiglio in parte proviene dallo stesso paziente.
Così opera la poesia di Marco.
Una poesia che non chiede il permesso ma non è mai altezzosa, che è conscia della sua differenza dal linguaggio comune ma non disprezza tale linguaggio.
Il ritmo talvolta si accosta al lettore e talaltra si ritrae, talvolta tende a coinvolgerlo e talaltra a tenerlo a distanza, seguendo le più varie intonazioni nella consapevolezza di una contingenza che riguarda gli uomini come il mondo.
Gli individui e il mondo comunicano con noi, ma anche tra loro.
È questo un dato davvero interessante: in certi momenti, leggendo gli scritti di Marco, abbiamo la sensazione di guardare dall’esterno e pure di esserci, di osservare gli altri e noi stessi.
È questa un’affascinante linea di confine che il poeta percorre con raffinata sicurezza.
La scelta decisa e decisiva è ciò che contraddistingue l’artista.
Non si tratta di escludere tutto il resto, si tratta, piuttosto, di concentrare la propria energia: l’universo esiste, tuttavia su qualcosa deve pur cadere l’accento.
La parola del poeta è precisa, non assoluta.
È un po’ come seguire uno spettacolo cinematografico in cui si narra una storia che, tra infinite altre possibili, può essere soltanto quella.
Lo spettatore segue ciò che vede: è distinto ma partecipe.
Se non fosse partecipe s’annoierebbe.
Scrivere implica una volontà, una perizia e, soprattutto, un indicibile quid.
Quando ci mettiamo all’opera, anche se abbiamo a lungo riflettuto, non possiamo essere sicuri del buon esito finale.
Nondimeno, ci mettiamo all’opera.
Immagino Marco Ercolani seduto al suo tavolo davanti alla tastiera (o con la penna in mano) mentre cerca d’individuare una strada poetica nell’enorme congerie di esperienze proprie e altrui.
Occorre costruire un verso, una frase, una poesia, un capitolo: come fare?
Certamente, ci può essere un’idea, un progetto, ma l’ispirazione, quella vera, nasce dal mettersi al lavoro.
Un lavoro che non deve essere autoreferenziale, ma che non può non tenere conto della propria specificità.
Ciò che è detto non è ciò che è scritto, nemmeno ciò che è vissuto è scritto, eppure ciò che è scritto è anche detto e vissuto.
Da qui la passione del Nostro per il cinema, ossia per una forma espressiva che si serve d’immagini e di parole e che si può seguire come un discorso.
Ho più volte avuto occasione di dire che la poesia è, a mio avviso, una forma di vita: appare ovvio, perciò, come un’indagine critica non possa prescindere dall’esistenza dell’autore.
Una madre molto premurosa ha suscitato nel figlioletto l’amore per i film in bianco e nero, gli ha insegnato a suonare il pianoforte, gli ha fatto apprezzare la prosa e la poesia: importa, ovviamente, la materia insegnata, ma importa, innanzitutto, l’atteggiamento.
E l’atteggiamento indispensabile a ogni artista è quello che mi piace definire del si può fare.
La poesia si può fare con tutto e Marco lo sa bene.
Certe ritmiche modulazioni, certe assonanze, certe balenanti ed efficaci immagini, sono frutto di uno sguardo che riesce a guardare in diverse direzioni.
Stare dentro può avere esiti negativi come, d’altronde, anche stare fuori: il punto di vista giusto sta contemporaneamente dentro e fuori.
L’intimità è anche il mondo e il mondo è anche l’intimità.
Cercare, in un certo senso, è già trovare.
Quella di Ercolani è una ricerca che non vuole arrestarsi, che non vuole mettere la parola fine a un’affascinante avventura.
A ogni verso segue un altro verso, secondo sequenze che non descrivono soltanto oggetti o situazioni, bensì disegnano mondi, dischiudono orizzonti oltre i quali si aprono ulteriori universi.
La poesia di Marco è sempre ulteriore, poiché è sempre rivolta a un altrove raggiunto e già superato, a un confine che si sposta continuamente.
Siamo dinanzi a un esserci per scrivere che coincide con un esserci per proseguire: il Nostro è ben conscio del fatto che cominciare una nuova scrittura è in realtà proseguire un lavoro già iniziato.
“Bisogna continuare e io continuo” diceva Beckett e credo che simile espressione potrebbe essere il titolo di tutta l’opera di Ercolani.
Marco è un uomo equilibrato e fiducioso per il quale l’avventura assume la cadenza di una quotidianità che s’illumina di continuo secondo aspetti sempre diversi, provocando una matura sorpresa che non sconvolge, piuttosto aggiunge.
Ecco, per finire, direi che aggiungere con consapevole impegno è la precipua caratteristica di una vicenda poetica in cui tutti, scrittori e non, possono cogliere il fecondo suggerimento a unirsi a un discorso individuale quanto universale.

