CONVERSAZIONE CON GIACOMETTI. Isaku Yanaihara

Capitolo iniziale del libro di Isaku Yanaihara, Dialogues avec Giacometti, traduit du japonais par Véronique Perrin, Paris, Allia, 2015, pp. 7-17. Yanahiara (1918-1989) era un professore di filosofia, venuto a Parigi per studiare l’esistenzialismo francese. Poiché si interessava anche di arte contemporanea, divenne amico di Giacometti e scrisse dei libri su di lui. L’artista, dal canto suo, lo ritrasse molte volte in disegni, quadri e sculture. [N. d. T., come le successive.]

Di recente, ho avuto occasione di incontrare a più riprese lo scultore Alberto Giacometti. Questi dialoghi col signor Giacometti, li trascrivo qui col massimo di fedeltà che la memoria mi consente.

Era uno degli artisti che da tempo desideravo incontrare. Ma non provo piacere ad andare a importunare senza motivo un personaggio celebre. Per due volte l’avevo visto in un caffè di Montparnasse, senza tuttavia decidermi a rivolgergli la parola. Le opere bastavano a se stesse, mi dicevo. Eravamo a quel punto quando un pomeriggio della fine di ottobre [1955], mentre camminavo per le strade di Parigi sentendomi vuoto e facendo volare sotto i piedi le foglie di platano, attraverso la porta a vetri di una galleria d’arte lo sguardo mi cadde su un suo quadro, che ricordavo di aver già visto in fotografia. Spinsi la porta ed entrai. Contemplando quel violento groviglio di tratti neri e bianchi che si stagliavano su un nulla color cenere, ho pensato che mi sarebbe piaciuto molto, se possibile, fare conoscenza con Giacometti. Va detto che da parecchio tempo ero in debito col mio amico Usami Eiji, che mi aveva inviato la rivista d’arte giapponese nella quale era apparso il suo studio su Giacometti. L’amico mi aveva detto di salutare il maestro. E senza dubbio tale «saluto» lo dovevo, a uno scultore che conosceva così bene il nulla! A tal proposito, mi ero informato presso la signorina che, in un angolo della galleria, svolgeva il compito di segretaria: forse aveva l’indirizzo del signor Giacometti? «Lo abbiamo di sicuro, mi ha risposto, ma non posso comunicarglielo. La galleria non ha il permesso di farlo…». Evidentemente avrei dovuto immaginarlo. Un artista ha il dovere di proteggersi per non avere impedimenti nel suo lavoro. La cosa è ovvia. Tanto peggio per me. Rimasi lì per un momento a discutere delle opere di Giacometti con la signorina. È allora che lei, non potendo darmi l’indirizzo, mi offerse il materiale per scrivergli una lettera, che si sarebbe poi incaricata di consegnargli. Lasciai dunque la galleria dopo averle affidato un biglietto in cui chiedevo allo scultore un colloquio, anche breve, se questo non gli recava troppo disturbo.

Giacometti mi rispose la settimana seguente, scusandosi di non averlo fatto prima perché stava male; ora si era ristabilito e mi dava appuntamento per l’otto novembre, alle due del pomeriggio, in un caffè di Saint-Germain-des-Prés.

Il giorno stabilito, uscii sotto una pioggia battente quale si vede di rado a Parigi, portando con me una piccola rivista d’arte stampata in Giappone e un libro di fotografie su La sculpture japonaise. È qui, in questo caffè di place Saint-Germain-des-Prés, che dopo la guerra si riunivano artisti e scrittori di rilievo. I loro epigoni l’hanno poi trasformato in un covo di esistenzialisti, ma adesso nulla lo distingue da un normale caffè. Sono seduto lì e, cinque minuti dopo l’ora fissata, il signor Giacometti arriva tutto bagnato. Le gocce di pioggia brillano nella sua zazzera. Ha una grande testa e grandi mani. Sono queste che mi prendono la mano, mentre lui ripete: «L’ho fatta aspettare, eh, l’ho fatta aspettare…», con l’occhio sull’orologio e chiedendo scusa. Sentendomi subito messo a mio agio, smisi di preoccuparmi di quel che avrei potuto dirgli. Il fatto è che non aveva una buona cera.

– Come si sente?, gli ho chiesto.

– Stanco, stanco.

Si gratta la testa.

– È stato malato…

– Ora sto meglio. È il lavoro che non va bene.

Tra un sorso e l’altro di caffè, si è informato su che cosa studiassi in quel momento a Parigi, e la conversazione ci ha condotti presto sul terreno delle differenze di tradizione tra il Giappone e l’Europa. Mi ha chiesto quale fosse la situazione degli intellettuali, oggi, nel mio paese. Ho esposto ciò che pensavo al riguardo.

– Il Giappone odierno si è separato dalla tradizione. Un Giappone antico e uno nuovo coesistono senza che nulla li leghi. Ma, tanto per fare un esempio, lei pensa che il suo lavoro sia intimamente connesso alle tradizioni del passato?

– Sì, intimamente connesso.

– E che cosa le piace, in particolare, nelle arti del passato? Tintoretto?

– Questo, rispose, è difficile da dire, perché i gusti cambiano col tempo, no? All’inizio del mio viaggio in Italia ho avuto una passione per Tintoretto. Quando poi ho scoperto i mosaici bizantini, a quel punto pensavo di essere al culmine dell’arte. E anche con Rembrandt mi sono creduto al culmine. Ma a ben vedere l’arte egizia è la più elevata di tutte… questo non cambierà mai, e poi l’arte della Mesopotamia.

Abbiamo parlato delle favolose collezioni mesopotamiche del Louvre, che quasi nessuno va a vedere. Le statue assire o babilonesi, gigantesche, e quelle di Giacometti, eccezionalmente minuscole (due forme antagoniste della dismisura), mi sembravano di colpo comunicare tra loro. In quel momento si mise a raccontare la sua infanzia nel piccolo villaggio svizzero di Stampa, limitrofo all’Italia, in cui era nato, e poi il cammino percorso a partire dal suo arrivo a Parigi e dalla sua iscrizione all’ Académie de la Grande Chaumière, nella classe di Bourdelle1.

– Nei quattro anni passati all’Académie, ho fatto degli studi dal vero, che non sono serviti a nulla. Avevo un bel combinare i dettagli del viso, l’insieme mi sfuggiva. Non c’era più alcun rapporto fra un’ala del naso e l’altra. Dunque ho lasciato l’Accademia e ho cominciato, stavolta, a lavorare a memoria. Ne sono derivati degli oggetti che erano un pochino più vicini a quel che vedevo… ma si trattava appunto di oggetti, non di sculture. In fin dei conti, adesso lavoro dal vero. Ma nonostante ciò non sono mai riuscito a concretizzare realmente ciò che vedo. Neanche una volta, in vent’anni, e nonostante che mi ripetessi sempre che le cose sarebbero andate un po’ meglio l’indomani. Ma no, ancora niente… Ed è proprio per questo che continuo a lavorare: se arrivassi a qualcosa che mi sembrasse adeguato, smetterei.

Queste parole gli venivano spontaneamente, in una sorta di slancio giovanile. Come se si indirizzasse a se stesso piuttosto che a me, pur parlando a voce così alta che le persone si voltavano verso di noi. E ogni tanto punteggiava il discorso con un “no?” (era un modo per sottolineare le sue parole).

– Ma lavorando, dissi, lei comunque si avvicina, a poco a poco, a ciò che vede…

– A poco a poco, ma così poco. E quando credo di essere prossimo alla meta, ecco che essa si allontana. Non capisco niente, ripeteva, niente, niente, niente. Le sue grandi mani si agitavano in aria.

Ha delle dita molto grosse, e tuttavia rapide, in moto incessante, che mentre parla con me continuano a disegnare nel vuoto.

– Ora sono immerso a fondo nella pittura. Mio padre era un pittore impressionista e anch’io, da giovane, tendevo all’impressionismo. Adesso non più, no… Dipingere o scolpire, per me, sono equivalenti. Quel che è più difficile da raggiungere è la cosa che si vede. In qualunque maniera la si afferri, ci scivola fra le dita.

C’era qualcosa, nella conversazione di Giacometti, che mi ricordava le parole di Cézanne negli ultimi anni di vita. Pensavo anche a quella testa cui egli aveva dedicato cinque anni di lavoro senza mai riuscire a finirla, o ai quindici anni durante i quali non aveva fatto nemmeno una mostra… Potevo solo approvare in silenzio. Poi, di colpo, dichiarò:

– Ma l’arte, in fondo, è poca cosa. Persino il più grande capolavoro di Rembrandt è piccolissimo, se lo si paragona alla realtà, eh?… O alla vita, se preferisce… (vedeva che ero esitante sul senso da dare a questi termini). Si sa bene che l’arte è poca cosa.

Io: – Certo. Ma questo non vuol dire che l’arte sia insignificante. La realtà o, diciamo, la vita, sono così vaste. Ragione di più perché l’arte esista, al fine di testimoniare di tale realtà!

Lui: – Lo ammetto. Ma l’arte, che nasce dopo la realtà, non può precederla. Tutto ciò che impariamo viene dalla realtà e non dall’arte.

Non ricordo cosa ho potuto dire in seguito. A un certo punto, la conversazione si è spostata sull’arte etrusca che, per l’appunto, era allora oggetto di un’esposizione al Louvre. Abbiamo parlato delle meraviglie di quell’arte, dopo di che ho osato porre una domanda.

– Le magnifiche figure estremamente allungate che si vedono nell’arte etrusca, hanno qualche rapporto con le sue sculture longilinee? Ha studiato l’arte antica?

Dicendo ciò, pensavo anche alla mirabile plastica di forma allungata delle statuette funerarie cinesi, e del periodo iniziale del buddhismo in Giappone. Lo scultore rispose:

– Ignoravo tutto degli Etruschi e di altre antichità. Ancora adesso, ne so pochissimo… Non ho mai aspirato al piccolo. Cercavo di rendere le cose come i miei occhi le vedevano. E man mano che procedevo, ecco che l’opera si rimpiccioliva. All’inizio era pressappoco grande così, ma piano piano diminuiva, e alla fine, restava solo questo… (restringe lo scarto tra le sue mani, che da trenta centimetri passa a uno), divenuto così minuscolo che spariva in polvere. Dopo un certo tempo, ho giurato a me stesso di non lasciar diminuire di un pollice le mie opere. Ed è allora che esse hanno cominciato a ridursi in larghezza… Non cercavo di fare qualcosa di più piccolo o più sottile. Le statue lo facevano da sole. Come? Non si sa… (e poi aggiunge questo, borbottato per se stesso:) Soltanto adesso ho capito parecchie cose, vedo meglio a che punto mi trovo, e so cosa mi resta da fare.

Quel che innanzitutto avrei voluto chiedergli è in che modo lo sapeva. Ma avevo degli scrupoli. L’origine dell’arte resta un mistero. È meglio non porre domande, non servirebbe a nulla. Con quale diritto dovremmo immischiarci in ciò che un artista ha impiegato anni a raggiungere? E poi si faceva tardi. Giacometti aveva un appuntamento altrove, alle quattro. Ho tirato fuori il primo volume di quella serie, La sculpture japonaise, che volevo mostrargli.

«Mi interessa molto la scultura giapponese… per quanto a Parigi non si possa vederne il meglio». Eccolo tuttavia fisso di fronte alle fotografie del nostro vasellame antico, borbottando senza sosta: «È curioso, curioso… Guardi, se ne trovano di simili nell’arte messicana o precolombiana. E in tutti i tipi di arte etnica, che presentano dei punti in comune quando si risale alle origini, no? È davvero curioso».

Si chiedeva di quale razza fossero i lontani antenati del Giappone, e se esistesse una qualche filiazione archeologica con i popoli cinese, malese o messicano. Sfortunatamente, non sapevo nulla di preciso su questo, e potei dargli solo una risposta estremamente vaga. Il seguito del colloquio verté sull’arte del Giappone.

«Mio padre possedeva una stampa giapponese, una cosa proprio bella. Credo fosse di Hiroshige2. Da giovane, ne ho fatto una quantità di copie… Anche quando sono venuto a vivere a Parigi, ogni inverno rientravo in Svizzera, e ogni volta ne facevo nuove copie. Questo per dirle quanto mi piacesse».

Poi mi parlò di una descrizione dell’antico Giappone redatta a suo tempo da un olandese, che aveva letto con piacere, e mi parlò anche di uno scultore giapponese che aveva conosciuto all’Académie de la Grande Chaumière3.

Senza attendere oltre, ho preso dalla mia borsa la rivista d’arte giapponese in cui era apparso l’articolo di Usami Eiji su Giacometti, e ne ho spiegato in breve il contenuto. Giacometti mi ascoltava muovendo la testa, impadronendosi della rivista e sfogliandola in tutti i sensi. Sembrava davvero sorpreso di scoprirvi tante foto sue e delle sue opere. Gli ho chiarito a grandi linee quale fosse la situazione delle riviste d’arte in Giappone. L’ho avvertito, con una certa inquietudine: «Riguardo alle fotografie, non sono sicuro che i copyright siano stati rispettati…» – «Di questo me ne frego, tagliò corto l’artista. Sono stampate molto bene. A dispiacermi sono le opere, non le foto», aggiunse ridendo.

Le ha poi commentate una ad una e, con mia grande sorpresa, la maggior parte di quelle riprodotte non esisteva più. Col suo grosso indice, tracciava una croce su ogni foto, «questa neppure», «questa neppure», e poi, additando una scultura più grande: «Anche questa l’ho distrutta. Peccato. Avevo trascorso tutto il periodo della guerra ad affannarmici giorno dopo giorno, e non era finita… Dovrei ricominciarla da capo».

A proposito della fotografia di un’opera intitolata La place4:

– Questa scultura è place Saint-Germain-des-Prés, spiegò guardando attraverso la porta a vetri, proprio quella che abbiamo davanti!

– E al tempo stesso, La place è l’universo, è il mondo attuale, è l’umanità stessa…

– Un po’ di tutto questo, disse, ma nondimeno è place Saint-Germain-des-Prés.

Riguardo a L’homme qui pointe5, gli ho raccontato le impressioni che avevo avuto vedendolo alla Tate Gallery di Londra. E lui: «All’inizio, volevo realizzare un gruppo con due personaggi, ma il secondo non sono mai riuscito a farlo. Metterne un altro a lato… è assolutamente impossibile». Un’impossibilità assoluta, ripeté. Assoluta come la nostra solitudine di uomini moderni. Ma non è forse proprio per questo che la statua ci indica tutti col dito? È ciò che ho pensato, senza trovare le parole per dirlo.

Con l’occhio sull’orologio, chiamò il cameriere, non volle sentire ragioni e, mentre pagava il conto, suggerì: «Perché non potrebbe venire una volta all’atelier, per quanto io non abbia niente da mostrarle, eh?». Ci siamo messi d’accordo di ritrovarci qui fra otto giorni, giovedì pomeriggio, poi saremmo andati assieme all’atelier. Erano già le quattro passate: «Non ho che da prendere un taxi», disse, e abbiamo continuato a chiacchierare ancora un momento. Dell’esistenzialismo, del comunismo. «Sartre è rientrato l’altro giorno da un viaggio in Cina, non l’ho rivisto da allora, ma sono molto curioso di sapere che impressione gli ha fatto la nuova Cina… In verità, aggiunse, non credo si possa capire nulla di un paese che si è visitato in così poco tempo». Giacometti, dal canto suo, ha vissuto per quasi trent’anni in un miserabile atelier parigino da cui non è mosso. L’importante non è andare di qua o di là, ma vedere. Un uomo era appena entrato nel caffè, si sono salutati con gli occhi: «È Calder6, vuole che la presenti?». Ho declinato l’invito.

«Ebbene, allora ci vediamo fra otto giorni. Stesso posto».

E il signor Giacometti se n’è andato, lasciandomi solo, inebetito e fantasticante. Quando sono uscito, il campanile della chiesa di Saint-Germain si ergeva in tutta la sua bellezza nel cielo lavato dalla pioggia. In basso, le persone si agitavano come formiche; ognuna di loro aveva affari urgenti da sbrigare e motivi per correre in tutte le direzioni. La place di Giacometti era lì, di fronte a me.

(Traduzione di Giuseppe Zuccarino)

NOTE

1 Émile-Antoine Bourdelle (1861-1929), già assistente di Rodin, era uno scultore famoso all’inizio del Novecento.

2 «Sembra si tratti piuttosto di un paesaggio di Hokusai (della serie Ubagaetoki). Una copia di esso, datata 1911 e firmata col monogramma AG, si trova nell’antica collezione Yanaihara, nel museo di arte moderna di Kanagawa, Hayama» (V. Perrin, postfazione a Dialogues avec Giacometti, cit., p. 99).

3 «Una descrizione del Giappone antico fatta da un vecchio olandese, che è forse François Caron, autore di La vraie description du puissant royaume du Japon redatta nel 1636, nel corso di un soggiorno più che ventennale al servizio della Compagnia neerlandese delle Indie orientali; il ricordo dello scultore Satô Chôzan (1888-1963), che frequentò la Grande Chaumière negli stessi anni di Giacometti» (V. Perrin, ibidem).

4 Scultura del 1947-48.

5 Scultura del 1947, nota anche come L’homme au doigt.

6 Lo scultore statunitense Alexander Calder (1898-1976), che ha trascorso vari periodi a Parigi.

Lascia un commento