a Sylvia Plath

Sarà vera risposta la rincorsa
al pianto della culla nella stanza accanto,
il compiacersi ai sacrifici notturni
consumati nella gloria del sogno
dell’ultima creatura sopraggiunta,
distante ancora ad abitare un limbo
di piccole lenzuola profumate
e un grido di fame capitata
in giro a poche ore dalle stelle.
Nessuna donna è libera
nel libro delle madri,
ha le ali giganti di chi senza fermarsi
compone e ricompone il medesimo nido.
Non sono mai servite al volo
ma per dare più ampiezza e più calore
al reame inalberato degli abbracci.
E’ tempo di nutrimenti e di latte,
di asole allentate nelle vesti da notte,
capezzoli affrancati al sangue
e a sguardi senza più malizia.
Ciò che è rimasto della seduzione
ora secerne umori e ripromette carezze,
a riaversi dal mondo sul confine
di librini illustrati o di dolciumi.
Sylvia non piange più,
riposa nel ricordo del parto, varca il recinto,
ripatteggia
fra ambizioni dolenti e versi derubati,
e una prismatica doppiezza nel cuore,
il titolo dei suoi libri migliori.
Attenta allo scrittoio,
– non stancarti di me – diceva
al suo vocabolario
posato sulle cosce, da seduta,
rimasto sempre aperto come un grembo.
