IL RITORNO. Maurice Blanchot

In assenza dell’amica che viveva con lei, la porta fu aperta da Judith. La mia sorpresa fu estrema, inestricabile, certo molto maggiore che se l’avessi incontrata per caso. Lo stupore era tale da esprimersi dentro di me con queste parole: «Mio Dio! ancora una faccia nota!». (Forse la mia decisione di procedere dritto contro quel volto era stata così forte da renderla inattuabile.) Ma c’era anche l’imbarazzo di essere venuto a verificare sul posto la continuità delle cose. Il tempo era trascorso, e tuttavia non era trascorso; in ciò vi era una verità che non avrei dovuto desiderare di pormi di fronte.

Quanto a quel volto, non so se la sua sorpresa si confacesse alla mia. In ogni modo, c’era evidentemente tra noi un tale accumulo di eventi, di realtà smisurate, di tormenti, di pensieri incredibili, ed anche una tale profondità di felice oblio che non le costava nessuna fatica non stupirsi di me. La trovai singolarmente immutata. Le camerette erano state trasformate, come vidi subito, ma anche in questa nuova cornice, che non riuscivo ancora a cogliere e che mi piaceva poco, lei era del tutto identica, fedele non solo ai suoi lineamenti, al suo aspetto, ma anche alla sua età: di una giovinezza che la rendeva stranamente somigliante. Non smettevo di guardarla, mi dicevo: Ecco dunque da dove veniva il mio stupore. Il suo viso, o piuttosto l’espressione, che non variava quasi mai, a metà strada fra il sorriso più lieto e il più freddo riserbo, risuscitava in me un ricordo terribilmente lontano, ed è quel ricordo, sepolto in profondità, più ancora che vecchio, che lei sembrava copiare per poter apparire così giovane. Finii col dirle: «Davvero sei cambiata pochissimo!». Si trovava allora accanto a un pianoforte che non avrei mai immaginato potesse trovarsi in quella stanza. Perché un pianoforte? «Sei tu che suoni il piano?». Lei fece segno di no. Dopo una pausa piuttosto lunga, con una brusca animazione ed un tono di rimprovero, mi disse: «Ma è Claudia che lo suona! È una cantante!». Mi guardava in maniera strana, spontanea, vivace, e tuttavia di traverso. Quello sguardo, non so perché, mi diede un colpo al cuore. «Chi è Claudia?». Lei non rispose, e di nuovo fui colpito, ma stavolta come da una disgrazia, colpito fino all’ansia, da quell’aria di somiglianza che la caratterizzava e che la rendeva così assolutamente giovane. Ora me la ricordavo molto meglio. Aveva il viso più fine, voglio dire che i suoi tratti avevano una specie di allegria e di estrema fragilità, come se fosse alla mercé di un aspetto diverso, più concentrato, interiore, e che l’età chiedeva solo di poter consolidare. Ma non era un caso che ciò non si fosse verificato, poiché l’età era stata stranamente ridotta all’impotenza. Dopo tutto, per quale motivo avrebbe dovuto cambiare? il passato non era così lontano, e neppure questa poteva essere una così gran disgrazia. E io stesso, come negarlo? ora che potevo guardarla dal fondo del mio ricordo, ero sollevato, ricondotto verso un’altra vita. Sì, uno strano movimento veniva verso di me, una possibilità che non avevo dimenticato, che si burlava dei giorni, che irraggiava attraverso la notte più scura, una potenza senza sguardo, contro cui lo stupore, l’angoscia, non avevano alcun potere.

Dato che la finestra era aperta, lei si alzò per andare a chiuderla. Fino a quel momento – me ne resi conto di colpo – la strada aveva continuato a passare attraverso la stanza. Non so se tutto quel rumore le desse fastidio; credo che se ne curasse pochissimo; ma quando si volse e mi vide, ebbi la brusca sensazione che cominciasse solo allora a vedermi. Cosa degna di nota, lo accettai e anzi, nello stesso istante, sentii, in maniera ancora vaga ma già con forza, che era in parte per colpa mia: sì, mi accorsi subito del fatto che, se in certo modo le ero sfuggito – ed era forse strano -, era perché non avevo fatto tutto ciò che dovevo per cadere davvero sotto il suo sguardo, ed era una cosa triste ancor più che insolita. Per un motivo o per l’altro, ma forse perché ero stato io stesso troppo impegnato a guardarla a mio piacimento, qualcosa di essenziale, che poteva accadere solo su mia sollecitazione, era stato dimenticato, e per ora ignoravo cosa fosse, ma l’oblio era presente al massimo grado, tanto da consentirmi di sospettare, soprattutto adesso che la stanza era chiusa, che a parte esso non vi fosse granché, lì dentro.

Fu, devo dirlo, una scoperta così rovinosa sul piano fisico che mi scombussolò del tutto. Pensandoci, fui affascinato, cancellato dal mio stesso pensiero. Ebbene, era un’idea! e non un’idea qualsiasi, ma un’idea alla mia misura, esattamente uguale a me, e se si lasciava pensare, non potevo far altro che sparire. Dopo un istante, fui costretto a chiedere un bicchiere d’acqua. Le parole: «Dammi un bicchiere d’acqua», mi lasciarono la sensazione di un freddo terribile. Ero indolenzito, ma pienamente rinvenuto, e in particolare non avevo alcun dubbio su cosa mi fosse successo. Quando decisi di cavarmi d’impiccio, cercai di ricordare dove fosse la cucina. Nel corridoio, il buio era eccessivo, e da questo capii che non stavo ancora molto bene. Da una parte c’era il bagno, che comunicava con la stanza da cui ero appena uscito, più oltre dovevano esserci la cucina e la seconda stanza: tutto era chiaro nella mia mente, ma non al di fuori di essa. Dannato corridoio, pensai, era dunque così lungo? Quando, adesso, ripenso a quel tentativo, mi stupisco di aver potuto fare tutti quegli sforzi senza rendermi conto del perché mi costassero tanta fatica. Non sono neanche sicuro di aver provato una sensazione spiacevole fino al punto in cui, a seguito di un movimento sbagliato (avevo forse urtato nel muro), sentii un dolore abominevole, il più forte possibile – mi spaccava la testa -, ma forse più forte che vivo; è difficile esprimere quel che aveva di crudele e nel contempo di insignificante: una violenza orribile, un abominio, tanto più intollerabile per il fatto che sembrava raggiungermi attraverso uno strato favoloso di tempo che bruciava per intero dentro di me, dolore immenso e unico, come se non ne fossi stato colpito in quel momento, ma secoli fa, e da secoli, e quel che c’era di passato, di completamente morto, aveva il potere di renderlo più facile ma anche più difficile da sopportare, facendone una perseveranza del tutto fredda, impersonale, che non interrompeva né la vita né la fine della vita. Certo, non compresi subito tutto ciò. Fui soltanto attraversato da una sensazione di spavento, e da queste parole, che dimostrano la mia buona fede: «Sta forse ricominciando? Di nuovo! di nuovo!». In ogni caso, fui bloccato di netto. Qualunque fosse la causa, il colpo mi aveva raggiunto con un vigore tale che, nell’istante aperto da esso, ero abbastanza al largo da dimenticare in eterno di potermela cavare. Camminare, andare avanti, mi era possibile, e dovetti farlo, ma al modo di un bue accoppato: erano i passi dell’immobilità. Quei momenti furono i più penosi. È pur vero che restano validi ancora adesso; attraverso tutto, devo volgermi verso di essi e dirmi: Ci sono ancora, sono rimasto là.

Il corridoio conduceva alla stanza che si trovava all’altra estremità. Tutto fa pensare che io avessi un’aria atrocemente smarrita; entrai quasi senza accorgermene, senza avere la sensazione di spostarmi, impegnato in una caduta stazionaria, incapace di vedere, lontanissimo dal rendermene conto. Probabilmente rimasi fermo sulla soglia. Malgrado tutto, lì c’era un passaggio, uno spessore che aveva leggi o esigenze proprie. Finalmente – finalmente? – il passaggio risultò libero e, dopo aver varcato l’entrata, feci due o tre passi nella camera. Per fortuna (ma quest’impressione era forse giusta solo per me), camminavo con una certa discrezione. Per fortuna anche, da quando ero entrato davvero, un po’ di quella realtà mi raggiungeva. Nel frattempo il pomeriggio aveva fatto un serio balzo in avanti, ma c’era abbastanza luce perché potessi sopportare la cosa. O almeno ne ebbi la sensazione, non appena riconobbi nella calma, nella pazienza e nella debolezza della luce la preoccupazione di rispettare in me la vita ancora così debole. Ciò che non vedevo, ciò che vidi solo all’ultimo momento…, ma su tutto questo vorrei poter passare rapidamente. Avverto spesso un infinito desiderio di abbreviare, desiderio impotente, perché mi sarebbe fin troppo facile soddisfarlo; per forte che sia, è troppo debole per la smisurata potenza che c’è in me di realizzarlo. Ah! desiderare non serve a nulla.

Di quella giovane donna che mi aveva aperto la porta, a cui avevo rivolto la parola, e che, dal passato al presente, per un tempo inestimabile, era stata così vera da rimanere costantemente visibile ai miei occhi: di lei, per sempre, vorrei non dire nulla. Nella necessità che ho di citarla, di farla venire in luce, attraverso circostanze che, per quanto misteriose, restano proprie degli esseri viventi, c’è una violenza che mi fa orrore. Da ciò dipende, almeno nella sua parte nobile, il mio desiderio di tagliar corto. Quel che l’essenziale, tramite questo desiderio, vorrebbe da me, è che io non tenessi conto dell’essenziale. Che la cosa avvenga, se è possibile. Supplico il mio declino di venire da sé.

Vedevo benissimo certi aspetti della stanza, che aveva ristabilito la sua alleanza con me, ma quella donna non la vedevo. Non so perché. Guardai subito con interesse una grande poltrona posta all’estremità del letto (dovevo dunque aver fatto parecchi passi per arrivare fino al fondo del letto); notai, nell’angolo vicino alla finestra, un tavolino con un grazioso specchio, ma non mi venne in mente la parola esatta per definire quel mobile. Allora ero vicino alla finestra, mi sentivo quasi bene, e se è vero che la luce si abbassava tanto velocemente quanto si accresceva in me, quel tanto di lucidità che rimaneva da una parte e dall’altra era sufficiente a mostrarmi tutto in maniera non illusoria. Posso persino dire che, anche se mi sentivo un po’ spaesato in quella stanza, un simile spaesamento aveva la naturalezza di una visita qualunque a casa di una persona qualunque, in una delle mille camere in cui avrei potuto entrare.

L’unica anomalia che restava, cioè il fatto che non vi fosse nessuno – o almeno che io non vedessi nessuno – non disturbava affatto quella naturalezza. Per quanto mi è dato sapere, trovavo la situazione perfetta, non desideravo veder aprirsi la porta ed entrare l’inquilino o l’inquilina che di solito abitava lì. Per farla breve, non avevo idea che qualcuno abitasse nella stanza, o in qualunque altra stanza del mondo, sempre che ce ne fossero; la cosa non mi veniva neppure in mente. Credo che in quel momento il mondo, per me, fosse interamente rappresentato da quella stanza, col suo letto in mezzo, la poltrona e il mobiletto. E in verità, da dove avrebbe potuto provenire una cosa qualsiasi? Sarebbe stato folle sperare che i muri si cancellassero. D’altronde, non avvertivo il vuoto.

Ebbene, lei – a quanto dice -, lei mi vedeva; stava in piedi proprio di fronte alla poltrona e non si era persa nessuno dei miei movimenti. È vero, ero rimasto parecchi minuti vicino alla porta, ma non con quell’aria atrocemente smarrita che credevo di avere; sì, piuttosto pallido e con un’espressione fredda, «fissa», diceva lei, da cui si capiva bene – ma questo era però un po’ angosciante – che la mia vita si svolgeva da qualche altra parte e che lì non poteva esserci, di me, se non quell’eterna immobilità. È vero anche che avevo fatto qualche passo; procedendo vicino alla poltrona, ero venuto a guardare con interesse il mobiletto, si vedeva bene che mi incuriosiva, vi avevo trovato qualcosa di simile al motivo che mi giustificava del fatto di essere entrato. No, non si stupiva di vedermi così poco attento alla sua presenza – perché neppure lei, in quel momento, si preoccupava di sapere se fosse presente, in quanto, benché il fatto di essere respinta nell’ombra comporti qualche sacrificio, trovava un’infinita soddisfazione nel guardarmi com’ero veramente, io che, non vedendola e non vedendo nessuno, mi mostravo nella sincerità propria di un uomo quand’è da solo. Chi non ha mai avuto il desiderio di guardare la verità in carne ed ossa, anche se per far ciò è necessario rimanere invisibili, anche se occorre immergersi per sempre nella discrezione del freddo più disperato e della separazione più radicale? Ma chi ha avuto un simile coraggio? Una sola persona, mi pare.

Perché non la vidi? Come ho detto, non lo so con chiarezza. È difficile tornare su un’impossibilità dopo che la si è superata, e ancor più difficile quando non si è neanche certi che l’impossibilità non permanga. Gli uomini che passano e non si incontrano sono innumerevoli; nessuno lo giudica scandaloso; chi vorrebbe farsi vedere da tutti? Ma forse io ero anche tutti, il gran numero, la moltitudine inesauribile, chi potrebbe stabilirlo? Quella stanza era per me il mondo e, in rapporto alla mia scarsità di forze e di interesse, aveva l’immensità del mondo: come pretendere da uno sguardo che attraversi l’universo? Cosa c’è di strano nel fatto di non vedere quel che è lontano, quando anche ciò che è vicino è invisibile? Sì, l’inesplicabile non sta nella mia ignoranza, ma nel fatto che essa abbia ceduto. Troverei ingiusto ma conforme alle leggi il non aver potuto rompere l’infinito o strappare a tutte le eventualità l’unica che possa essere detta fortunata. Fortuna aspra, piena di sventura, ma pur sempre fortuna! Io l’ho avuta e, anche se l’ho persa, la possiedo ancora e per sempre. È di questo che ci si dovrebbe stupire.

Le cose si chiarirono, in apparenza (in apparenza? sarebbe già molto). Quando mi trovai vicinissimo a lei, a due passi dalla poltrona, potè non soltanto vedermi meglio – avevo il volto più livido che pallido, la fronte crudelmente gonfia – ma quasi toccarmi. Questa sensazione di avermi sfiorato le parve stranissima e le impedì ogni altra riflessione: vi era in ciò qualcosa di inatteso, e anche di più, una luce che un secondo prima non aveva neppure intravisto. Mi seguì, ormai, con altri occhi. Ma allora esistevo? Se era così, forse esistevo anche per lei! La vita, si disse; ebbe di colpo l’immensa forza di gridare verso di me, e mentre mi chinavo sugli oggetti della toletta, emise in effetti un grido che le parve nascere, sgorgare dal vivo ricordo del suo nome, ma – perché? – per coraggioso che fosse non superò i suoi limiti, non mi raggiunse e, a causa di questo, neppure lei potè sentirlo. Forse si rassegnò. Dato che la luce si abbassava molto rapidamente, vedeva sempre meno quel che accadeva nella stanza. Certo, era una stanza, ma tuttavia lo era così poco, e la certezza non poteva risiedere fra quattro mura; quale certezza? lo ignorava, era qualcosa che somigliava a lei stessa, e la faceva somigliare al freddo e alla tranquillità della trasparenza.

Era anche la fierezza! l’affermazione selvaggia e senza diritto, il patto concluso con ciò che sfida l’origine, oh strana e terribile tranquillità! Lei passava misteriosamente, lontana dalle menzogne visibili, evidente al massimo grado, e il terrore, che aveva pur dovuto provare, di perdersi e di ricominciare sempre a perdersi nell’evidenza senza limiti, apparentemente non era stato maggiore della semplice paura di una ragazzina che nel tardo pomeriggio, in un giardino, incontra di colpo il buio. La vita, si ripeteva, ma la parola non era già più pronunciata da nessuno, non s’indirizzava affatto a me. La vita, adesso, era una sorta di scommessa che si delineava tutt’attorno col ricordo di quello sfioramento – c’era stato davvero? -, con quella sensazione sorprendente – si sarebbe mantenuta? – che non soltanto non si cancellava, ma si rafforzava, anch’essa, alla maniera selvaggia di ciò che non può aver fine, che sempre si sarebbe mostrato esigente, sensazione che già si era messa in movimento, errava ed errava come una cosa cieca, senza scopo e tuttavia sempre più avida, incapace di cercare ma impegnata a girare sempre più velocemente in una vertigine furiosa, senza voce, murata: desiderio, fremito tramutato in pietra. Che io l’abbia presentita, è possibile (ma questo presentimento, non l’avevo avuto molto prima? senza di esso, sarei forse entrato?). Che lei si sia eretta allora di fronte a me, non come una vana irrealtà, ma come l’imminenza di una raffica monumentale, come lo spessore, all’infinito, di un respiro di granito precipitatosi contro la mia fronte, è vero, ma neppure quest’urto era una verità nuova, così come non era nuovo il grido che mi venne, né quello che udii; nuova fu solo l’immensa sorpresa della calma, silenzio improvviso, che bloccava tutto. Ciò produsse un grande intervallo, ma qual era il suo significato: riposo dopo l’annientamento? gloria del penultimo giorno? Non avevo granché il tempo di chiedermelo; avevo solo quello di cogliere, di sorprendere anch’io la verità di quello sfioramento e di chiederle: «Ma come, eri qui? Adesso?».

(Traduzione di Giuseppe Zuccarino)

Le retour, apparso inizialmente in «Botteghe oscure» (7, 1951, pp. 416-424), è un estratto dal racconto blanchotiano Au moment voulu (Paris, Gallimard, 1951, pp. 7-25). [N. d. T.]

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