(2019)

(foto di Chiara Romanini)
Anche se in apparenza il critico deve mantenere costantemente gli occhi aperti (sul proprio oggetto di studio e più in generale), la visione effettiva richiede degli intervalli di non-visione, in cui siano la meditazione e il pathos ad essere attivati al posto dello sguardo. È quanto spiega Didi-Huberman: «Per aprire gli occhi, bisogna saperli chiudere. L’occhio sempre aperto, sempre in stato di veglia – fantasma di Argo – diventa secco. Un occhio secco vedrebbe forse tutto, sempre. Ma guarderebbe male. Per guardare bene ci occorrono – paradosso di esperienza – tutte le nostre lacrime».
Nel 1934 Walter Benjamin si era sottoposto a uno dei suoi vari esperimenti con le droghe, nel caso specifico la mescalina. Sotto l’effetto di essa (secondo quanto riferito da un testimone, Fritz Fränkel), Benjamin aveva proposto «di variare l’interrogativo piuttosto irrilevante di Amleto, “Essere o non essere”, in “Rete o mantello, questo è il problema”». In un certo senso, c’è del vero in tale frase. Noi infatti siamo di solito imbrigliati dalle necessità e abitudini della vita quotidiana come da una rete. È solo nei momenti migliori che riusciamo a dominarle, volgendole ad un fine diverso. Allora ci sembra che le circostanze si pieghino al nostro volere, e che possiamo avvolgerci sovranamente in esse come in un mantello.
Un disegno di Kafka mostra un omino stilizzato che si trova all’interno di un recinto. Il recinto è basso, dunque potrebbe essere facilmente scavalcato; è aperto, dunque basterebbe un passo in avanti per uscirne. Tuttavia il personaggio rimane immobile, a conferma dell’aforisma kafkiano secondo cui «esiste un punto d’arrivo, ma nessuna via; ciò che chiamiamo via non è che la nostra esitazione».
Il fatto di dedicare gran parte del proprio tempo alla lettura-scrittura implica (oltre al rifiuto di modi di vita più convenzionali) una certa componente maniacale. Ma, come diceva Balzac, «una mania è il piacere trasferito allo stato di idea».
Se anche, col trascorrere dei decenni, raggiungessimo una visione più accorta dell’esistenza, sarebbe comunque una «saggezza dagli occhi pieni di lacrime» (René Char).
Pur non evitando le occasioni di dialogo e collaborazione con gli amici, è sempre bene rimanere «gufi notturni del lavoro anche in pieno giorno […]: giacché noi siamo dalla nascita gli amici giurati e gelosi della solitudine, della nostra più profonda, più notturna e più meridiana solitudine» (Nietzsche).
Gli scrittori e i pensatori sono esseri, per molti aspetti, indifesi di fronte alla realtà quotidiana; talvolta, infatti, basta un nonnulla per ostacolarli nel loro lavoro. Ad esempio uno studioso di Kant (Giuseppe Landolfi Petrone) ricorda, basandosi su testimonianze d’epoca, che il grande filosofo «era così amante della calma e della tranquillità da esser costretto a cambiare casa per sfuggire ai rumori molesti: prima da quelli prodotti dalle imbarcazioni sul Pregel, poi dal canto di un gallo che turbava le sue meditazioni. […] Oltre al frastuono, anche il disordine e la trascuratezza lo infastidivano, tanto che una volta, dopo una lezione, confessò di aver perso più volte il filo del discorso perché distratto dalla giacca di un uditore alla quale mancava un bottone».
Partecipare a un seminario collettivo permette di verificare (a un livello assai più modesto, ovviamente) ciò che asseriva Platone: «Insieme si apprendono queste cose, e la verità e la menzogna dell’intera sostanza, dopo gran tempo e con molta fatica […]; allora a stento, mentre che ciascun elemento (nomi, definizioni, immagini visive e percezioni), in dispute benevole e in discussioni fatte senza ostilità, viene sfregato con gli altri, avviene che l’intuizione e l’intellezione di ciascuno brillino a chi compie tutti gli sforzi».
L’edificio realizzato da Daniel Libeskind per il Museo Ebraico di Berlino è ammirevole non solo per l’originalità della sua struttura esterna (stretto e lungo, si sviluppa a zigzag e sulle facciate, al posto delle tradizionali finestre, presenta sottili aperture rettilinee disposte in obliquo), ma anche per l’allestimento interno. Esso prevede tre lunghi corridoi. Il primo, l’asse dell’Olocausto, conduce a una torre vuota e buia, alta ventiquattro metri: chi entra in questo luogo angusto avverte un senso di freddo e di oppressione, dovuto alla mancanza di appigli visivi sulle pareti lisce. Il secondo asse è quello dell’Esilio, che porta a un «giardino» quadrato, il cui pavimento, essendo non piano ma inclinato, costringe a procedere con cautela. Lì si ergono numerose e alte stele, sulla cui cima sono stati piantati degli olivagni; dal basso, però, gli alberi si intravedono appena, quasi appartenessero a una Terra Promessa destinata a rimanere irraggiungibile. Il terzo asse è quello della Continuità, incentrato sull’idea della ritrovata convivenza fra ebrei e tedeschi. Che questo esito sia però non scontato lo suggerisce un altro spazio del museo, il più inquietante di tutti. Chi lo percorre si trova a calpestare rumorosamente spesse e tonde formelle d’acciaio che raffigurano facce stilizzate. È come se anche lui fosse chiamato a sentirsi, almeno in parte, responsabile della violenza inflitta alle vittime della Shoah. Non vi è dunque vera riconciliazione senza la memoria delle morti ingiuste.
Il fascino che i quadri di Maria Helena Vieira da Silva esercitano su chi li osserva si basa sulle capacità che la pittrice dimostra di saper configurare degli spazi ideali, tanto complessi da risultare labirintici. Poco importa che essi si ispirino di volta in volta a paesaggi urbani, a cantieri, a teatri, a biblioteche. L’essenziale è che offrano alla vista una molteplicità di percorsi possibili, e al tempo stesso suscitino un senso di smarrimento, dunque di difficoltà o impossibilità di trovare una reale via di accesso. Non è certo un caso se una di queste opere si intitola L’entrée du château ou Hommage à Kafka.
Tranne nei rari casi dei libri che esercitano un particolare choc su chi ne fruisce, influenzando il suo modo di pensare e di scrivere, di norma ha poco senso privilegiare il primo approccio ad un’opera rispetto ai successivi. Infatti, come osserva Georges Didi-Huberman, «leggere è rileggere. Rileggere è prolungare e concedersi una possibilità di far rifiorire».
Tra l’operare dello scrittore e quello del pittore (pur nell’ovvia differenza di tecniche e materiali impiegati) può esistere un’analogia di fondo, qualora entrambi si dedichino seriamente al loro compito. Annota Gastone Novelli: «Sono convinto che la pratica continua del proprio universo sia, per un artista, la cosa più importante, che finisca con l’impegnare l’esistenza stessa».
Anche a quella particolare τέχνη che è la critica risultano applicabili le sagge considerazioni di Aristotele, secondo cui «ciascuna arte cerca indefinitamente di raggiungere il suo scopo (in quanto ognuna vuole soddisfarlo nella misura più alta possibile), e tuttavia i mezzi per il raggiungimento del fine non sono infiniti (in quanto il fine agisce esso stesso da limite)».
«Lo stato di fatto, che sentiamo tornare ad imporsi, sta riportando pian piano gli uomini a una condizione in cui non sono nemmeno più in grado di leggere; di leggere in profondità, intendo. Molte persone recepiscono la richiesta del più piccolo sforzo mentale come se si infliggesse loro un’offesa». La tendenza notata da Paul Valéry non ha fatto che accentuarsi col tempo, a causa di vari fattori (tra cui il netto declino degli enti deputati all’istruzione e il pressapochismo agevolato dall’effimera comunicazione tramite Internet). Ne consegue un parallelo venir meno delle capacità critiche dei lettori, divenuti incapaci di cogliere, nei testi, non soltanto il senso profondo, ma persino la presenza di madornali errori, di forma o di fatto. Ciò rende scoraggiante l’attività di quegli autori che ancora si preoccupano di redigere le proprie opere con accuratezza, pur sapendo che ormai esse sono destinate a cadere in un magma indifferenziato, dunque a non poter essere comprese, e neppure percepite nella loro specificità.
Troppo spesso i saggisti dimenticano di rispettare la «piccola regola» suggerita da Walter Benjamin: «Non usare mai usare la parola “io” tranne che nelle lettere». Ne consegue un abbassamento del livello – non solo stilistico – della loro scrittura.
È vero che l’interpretazione di un’opera, specie se di carattere letterario, non è mai univoca, ma capita a volte di notare vistosi errori interpretativi, compiuti anche da lettori ritenuti autorevoli. Tali errori si possono paragonare a un’alterazione materiale del testo stesso, allo scopo di fargli dire qualcosa di diverso da ciò che in esso si trova scritto. Tuttavia, per fortuna, resta valida l’asserzione di Freud secondo cui «nella deformazione di un testo vi è qualcosa di simile a quanto avviene nel caso di un delitto: la difficoltà non è nell’esecuzione del misfatto, ma nell’occultamento delle tracce». Dunque sarà sempre possibile, a nuovi lettori, cogliere e smascherare gli sbagli o le forzature esegetiche in cui è incorso chi li ha preceduti.
Pur appoggiandosi sulle parole dei grandi autori, i frammenti sono – e accettano di essere – sostanzialmente indifesi, «timidi-perduti petali sui vetri / mini-discorsi spezzettati, pensieri passati» (Zanzotto).
A volte lo scrittore avverte il desiderio di annotare il flusso di pensieri che gli passa per la testa, proponendosi di sceverare, in un secondo tempo, il buono dal cattivo. Ma si tratta di un’idea ingenua e sbagliata. Come ha notato Wittgenstein, «si crede spesso […] che tutto ciò che si pensa possa essere trascritto. In realtà si può scrivere – cioè senza fare qualcosa di sciocco e di sconveniente – solo ciò che nasce in noi in forma scritta».
Quando si osserva una fotografia panoramica della Toledo odierna si ha l’impressione che la città abbia conservato molto dell’aspetto che doveva avere nel Seicento. Ma, confrontando tale immagine con la Veduta e mappa di Toledo dipinta da El Greco, ci si accorge che le somiglianze, pur rilevabili, si accompagnano a una trasfigurazione onirica del reale, di cui solo la grande arte possiede il segreto.
È inevitabile provare nostalgia per un’epoca – gli anni Sessanta del secolo scorso – in cui Foucault, scrivendo sul tema Les nouvelles méthodes d’analyse littéraire, poteva riassumere la situazione della critica dicendo che essa veniva praticata non tanto dai recensori quanto piuttosto da coloro «i cui atti critici fanno parte di condotte filosofiche o letterarie». Secondo Foucault, essi non esitavano a ricorrere ad un linguaggio complesso, presupponevano che il lettore conoscesse già i testi di cui si occupavano e avanzavano persino la pretesa che ciò che scrivevano fosse a sua volta un’opera.
Per chi scrive frammenti resta valido, anche se solo metaforicamente, quel che asseriva a suo tempo Edgar Allan Poe: «Nel procurarmi i libri, mi sono sempre premurato di avere un margine spazioso; non per amore della cosa in sé, pur gradita, quanto per la facilità con la quale mi permette di segnare a matita pensieri suggeriti, identità e divergenze di opinione e brevi commenti critici in genere».
È interessante notare che le comparazioni funzionano, all’interno di un testo letterario, in rapporto allo specifico stile adottato dall’autore. Così, ad esempio, quando nell’Hyperion di Hölderlin il protagonista dice, pensando all’amata Diotima, che il proprio cuore «esisteva per avvolgere il suo, come le ciglia per gli occhi», oppure, trovandosi in un giardino, che «l’arancia matura giace a terra come un trovatello sorridente», si ha certo l’impressione di trovarsi di fronte ad immagini insolite, ma non definibili quali eccentriche o barocche, perché l’elevatezza stilistica del romanzo le fa apparire consone al linguaggio di Hyperion.
Non a torto Georges Didi-Huberman sostiene che è possibile ritrovare in ciò che si fa da adulto (dunque nell’attività critico-filosofica) qualcosa della «solitudine salvifica del gioco infantile». La differenza sta soltanto nel fatto che la pratica della scrittura è un’«attività più socializzata», cosa che rende possibile «far entrare quei giochi solitari nello spazio pubblico della vita intellettuale incarnandoli nei piccoli volumi di carta chiamati libri».
