
I volti dei dormienti sono idoli. Non pensano alle conquiste della ragione
o ai progetti della veglia ma alle lunghe ore felici in cui si dorme
senza sognare. Durante il sonno si è più vicini a qualche segreto decisivo,
ma senza gli strumenti per descriverlo. E, appena svegli, manca
la materia per farlo. Il sonno rende la veglia un territorio misterioso,
a cui non apparteniamo. Il sonno sfugge sempre a chi dorme, come
all’artista il senso della sua opera. Ma l’arte non è, sempre e comunque,
inconcepibile? Essere dove non si è: il sonno ce lo consente. Scianna
fotografava dettagli di corpi dormienti: uomini e donne, addormentati
nelle posizioni più strane, ricordavano corpi di morti ma erano morbidi,
vivi, caldi, solo che avevano preso sonno. Come si fa a prendere sonno?
È il sonno a prendere chi si addormenta come un dio sconosciuto,
inseparabile da noi; ti afferra e cadi, scivolando in dimore perdute. Si
può, il giorno dopo, ricordare un sogno. Ma alla notte, come sempre, il
sonno tornerà e non resisterai.
La nuova mostra fotografica di Chiara Romanini, Dimore perdute,
ci guida verso questo labile confine fra veglia e sonno: veli, specchi,
vesti, tende, maschere, sigillano le figure – donne, uomini, bambine –
in un passaggio da mondi a mondi, in luoghi e circostanze lontani dalla
via passiva dell’adeguatezza. Il fotografo diventa sentinella di questo
passaggio all’ulteriore. Pochi minuti prima del tramonto, mentre cominciano
a scendere le ombre, guarda la struttura di un volto; vede
capelli e guance scivolare lentamente nel buio; ricorda tutti i dettagli
proprio mentre diventano invisibili; poi li reimmagina, nel corso della
notte, in piena oscurità. Al risveglio, nella prima nebbia del mattino,
rivede il volto e scatta la foto. Solo così comprende come quella figura
che esisteva durante la notte possa esistere anche al chiarore del giorno,
nel mondo dei vivi, affinata dalla notte ma nutrita dalla luce.
Certi volti fotografati da Chiara, memori della lezione intimista e visionaria
di Joseph Sudek, appaiono prigionieri di un velo, di un vetro, di
una maschera; sembrano affiorare da un incubo, anche in pieno sole; ma
l’autrice non si arrende all’inevitabile senso di morte dei temi, insegue
un mutamento sempre possibile, indaga le conseguenze di un sogno.
L’intera mostra è un dialogo del fantasma con il corpo a cui appartiene. L’autoritratto di schiena, la corda avvolta al collo, davanti a una finestra dal paesaggio celato; le bambine vestite di bianco, le maschere sui volti, colte davanti a un reticolato o a una staccionata di legno; la veste chiara e vuota a contrasto con il ramo secco o l’oscuro manicomio; l’uomo travestito da clown; il tendone maculato di un circo; tutte figure chimeriche, smarrite in una malinconia senza nome, che sembrano aspirare a una dimora perduta. E ancora, apice forse della mostra, l’autoritratto in cui l’autrice è chiusa in un velo bianco, simile a una tenda, mentre con il braccio e la mano destra si tocca la testa e sembra emergere dal suo involucro amniotico
con un atto di resurrezione e di risveglio che la separa da una totale adesione alla sospensione dalla vita. Un ordine esatto non esiste. Se Shakespeare poteva scrivere, con la voce di Amleto, essere o non essere, noi potremmo, senza opporre veglia e sonno, dire: essere e non essere. Si tratta di viaggiare verso l’orizzonte impossibile tracciato dalla Balena Bianca e non di catturare la Bestia, l’immonda nemica del capitano
Achàb. Non serve vincere, uccidere, godere le carni di una preda morta. Chi
viaggia oltre i confini delle cose note non gusta il piacere del possesso ma l’estasi di entrare nel regno degli dèi ulteriori, nella nebbia biancastra del naufragio finale del Gordon Pym di Edgar Allan Poe. Meglio essere un pazzo libero che un savio servo della volontà di chi asseconda. Meglio essere differenti che indifferenti.
E Chiara è differente, nella sua ricerca di una pace possibile attraverso l’inevitabile inquietudine. Scrive Peter Handke: «Un sogno nel quale camminando senza sosta attraversavo tutte le fasi della mia esistenza; questo camminare divenne un vagabondaggio, il vagabondaggio una traversata del mondo (essere così addentro nei sogni da non poterne più uscire: splendida pazzia)».
Nelle Dimore perdute di Chiara Romanini le figure fotografate appaiono responsabili del loro desiderio di questa “traversata del mondo” estranea alla piatta vita dei mortali. Abitano con orgoglio un loro malinconico congedo, nel quale però si annida un fuoco costante, un desiderio inestinguibile. Non è una sfida, l’arte di Chiara: il lavoro che il suo demone la spinge a compiere. E, quando credesse di avere, n minima parte, realizzato il suo destino, sarà proprio allora che una nuova utopia
la chiamerà ancora, una nuova pienezza espressiva, pronta a ricucire gli strappi, ad alleviare il dolore. Ma non solo: il dolore fa parte della sostanza del vivente e l’artista ha un solo compito: mantenere intatto lo stupore, sola arma utile per non arrendersi alla letale sofferenza. Come scrive Bruno Schulz in una lettera ad Andrej Plesniewicz, nel lontano 1936: «Mi sembra che il genere d’arte che mi sta a cuore, sia appunto la regressione, l’infanzia reintegrata. Se si potesse riportare indietro lo sviluppo, raggiungere di nuovo l’infanzia per una qualche via circolare, possedere ancora la pienezza e l’immensità, sarebbe l’adempiersi dell’ ‘epoca geniale’, dei
‘tempi messianici’, che ogni mitologia ci ha promesso e giurato. Il mio ideale è di ‘maturare’ verso l’infanzia. Soltanto questo sarebbe un’autentica maturità».
