LETTERA PER UNO PSICOIDE. Lorenzo Chiuchiù

Caro Marco,

ho appena finito di leggere Sindrome del ritorno. Mi colpisce la trama della scrittura: la rete deve essere molto fitta per portare alla luce qualcosa che somiglia ad una mitosi psichica: nuclei che si dividono in apparenza ciecamente, guidati in realtà dalla forza che li informa e li trascende. Oppure: una specie di migrazione interna, che segue un sole accecato, un vento e una disillusione trasparenti, glaciali. Scrivi di una fuga ma non le concedi alcuna trascendenza. Non è insomma la fuga epica del ribelle (ad esempio Juenger), non quella di chi inventa una lingua del gesto angelico (Artaud) 
o del logos eternamente crocifisso e eternamente da salvare (Van Gogh). C’è un singolo che non conosce edificazione (nemmeno quella paradossale di Kierkegaard), né l’ebbrezza eversiva di Stirner. Tu scrivi di un movimento centrifugo; l’angoscia nasce dell’illusione di muoversi in un cerchio mentre si è su una spirale verso un qualche centro o abisso: lo psicoide deve concentrarsi, ridursi all’osso, deve trovare un luogo separato ma non lontano
 (a differenza del bosco di Juenger, della glossolalia di Artaud, o dell’“altissimo giallo” di Van Gogh). Questo movimento di contrazione tende alla concentrazione delle forze – non tanto a una qualche difesa, ritenuta per altro ignobile oltre che impossibile. È il tentativo di diventare interi in un dominio chiuso ma non immobile: quello che provavo a definire come mitosi o emigrazione interna. Dunque non nevrosi che insiste sul perimetro e lo ripercorre ossessivamente, né psicosi che vuole altri cieli e altre terre. Lo psicoide di cui scrivi parte dal “monolocale da dove puoi – devi – guardare la tua vera casa”: l’oculare – il punto di una luce concentrata – del microscopio così come quello del telescopio sprofonda – diventa – spazi sconfinati nel minuscolo o nell’incalcolabile, le “galassie nuove”. E così quando “corri verso l’insensato. Hai due possibilità: incontrarlo e ammutolire nel suo abisso; incontrarlo e farne la vera sorgente”.

Ti abbraccio, Lorenzo

JOURNAL. Estate 2025, 1

1

Non c’è proprio nessuno spazio. Non qui. Non ora. E quando non c’è spazio è inutile cercarlo a colpi di piccone: bisogna entrare in transe. Le porte laterali, sempre aperte, sono fatte di vento. Sono fessure rese ampie dal sogno.

Nulla è più semplice della transe: In un attimo si smette di riconoscersi e si va dove non sappiamo.

Gli orari? I treni? Materia del nulla.

Ho un istinto romanzesco. Ma serve, adesso, narrare? Gli scrittori si vantano di tessere trame borgesiane ma sono prigionieri di architetture illusionistiche, evocate in salotti eruditi.

Scrittore bastardo: non viene da nessun luogo.

2

O angeli surreali! Almeno non aveste le ali!

Penultimo di otto fratelli, Robert Walser. Si ricordano Karl, disegnatore; Ernst, malato psichico; Hermann, docente di geografia, suicida. Ma io penso a Frieda Mermet, stiratrice, la sola donna che Robert amò. Vorrei leggere le loro missive, ma non ne ho l’occasione.

I morti, non i vivi, creano spazio.

Parlo di letteratura ma, mentre ne parlo, le parole brulicano, smosse dal mio stile, come resti umani fra le macerie: inventano, gridano, fanno male.

Fogli in ostaggio? I miei, i tuoi, i loro.

3

(Primo frammento di lettera)

Mi leggerai, ma prova a non leggermi: io non scrivo a nessuno. Sai, alla perfezione, che parliamo dentro le parole e diciamo senza dire. È la nostra zona d’ombra: sarebbe crudele se ci venisse strappata.

Imparare a essere rivoltosi. Quel filo teso sulla linea delle cose.

Chi dominerà, nell’orribile inferno di ghiaccio?

4

Nietzsche, inverno 1972.

«Tutto mi si impone, io non vi rifletto oltre, tutto mi viene incontro, e il regno smisurato si semplifica nella mia anima, in in modo che, presto, possa portare a termine anche il compito più arduo. Se solo riuscissi a partecipare a qualcuno la vista e la gioia, ma non è possibile. E non si tratta di sogni, di fantasie; è un percepire la forma essenziale con la quale la natura è sempre come se solo giocasse e, giocando, producesse la molteplice vita. Se avessi tempo in questo breve lasso della vita, oserei estendere ciò a tutte le sfere della natura, all’intero suo regno. Goethe»

Cosa importa se Goethe non comprese Schubert? I geni non sanno mai riconoscersi: sentono l’altro come nemico della propria verità.

Leggere libri senza aprirli. Vederci dentro, dove si intuisce un sole.

Avremo ancora l’occasione di cercare il disegno della nostra vita senza, delusi, infilarlo sottoterra come un fiore estraneo alla luce.

L’enciclopedia dei morti è la vera Biblioteca di Babele.

VENGONO DAL GIA’ ACCADUTO. Per Annalisa Rodeghiero

Di Opposte verità, il nuovo libro di Annalisa Rodeghiero (MC, collana Gli insetti, 2025) scrive Pasquale Di Palmo nella bandella di copertina: «La “soglia dei disorientati”, il “fuorimondo degli scorticati” rimandano al fuoco dell’amore, e al contempo a quello della scrittura poetica». Il libro, un trittico composto da testi scritti tra il 2021 e il 2025, si presenta come un prosimetrum in versi e in prosa suddiviso in tre parti: «D’estasi e paura», “Interludio”, “Rive di vento”. Ciò che subito trafigge il lettore è la forza magnetica che sospinge le parole a sempre nuovi inizi, come un’onda che non si arresta: “Nell’accadere improvviso, “Custodite intatte le lettere”, “La vita è questo andare incontro al sole”, “Vengono dal già accaduto”, “Sarà forse un turbìnìo di neve”, “Era lo scarto d’impalpabile cenere”. “L’indugio non chiede la sua fine”, “Riposta la ritualità dei gesti”: ecco alcuni esempi. Bastano questi incipit, questi frammenti aforistici, a conferire al libro un tono di nuda potenza che mai impone un senso logico definito ma lo trova parola per parola, parola dopo parola, in un segreto soliloquio dell’anima. Ho usato il verbo “trafiggere” non a caso. Nessuna di queste composizioni è un diario lirico ma, al contrario, è il fulmineo accadere di un evento. Questa poesia rinuncia a narrarsi in modo confidenziale, crepuscolare: «Riporta la ritualità dei gesti/ in clausura d’anima/ abbandonati luoghi d’estasi// oltrepassare il ponte d’acque opache/ è chiudere le palpebre alla vita/ maceria su cui edificare altari di nebbia.// Mia incredula nel palmo verità/ che di me sa ogni disperata piega»; ma e immediatamente tragica: «Prima ci si espone alla/ rottura nel peso/ dell’invisibile a volte/ tremendo scrivere per/ riconoscere/ l’altro di, l’altro da/ noi l’attimo prima». Cioè esige l’abisso, il deserto, l’ombra.

Le “opposte verità” di Annalisa si reggono sull’energia del dubbio, che le contrappone e le raffronta, senza che ci sia né un vincitore né una verità assoluta. Per epifanie si esprime la delicata potenza di un congedo: «Lo stordimento del vivere e del/ morire è un accorrere d’organi ostinati/ / nell’inattesa foce a un passo dal nero/ l’indefinito trama sui bordi/ preme nell’ora precisa// chiede frantumazione, gesto/ e compimento».

Poesia filosofica? Appunti amorosi? Frammenti di pensiero? Forme di sentimenti? Qualcosa di inafferrabile e di effimero che passa come un vento? Non chiediamo a Opposte verità una cornice rassicurante ma un clavicembalo ben temperato sull’asse creazione/distruzione. Come scrive Laura Caccia noi, poeti, siamo qui, “ostinandoci a scalfire parole – senza mettervi fine». (M.E.)

Testi

Nell’accadere imprevisto

un futurarsi di visioni

nelle parole dell’irreversibile

la percezione vigile dal pieno

celeste e contromano qui

in sinfonia d‘intese a predisporre

fondali di vita dove ogni forma si fa.

*

Ma in quale meridiano di luce

muove quel suono, la voce

sul volto svuotato

con quale certezza avanza

libera sui bordi aderisce

vento all’erba si eleva dove

solo ciò che è presente manca.

*

Era lo scarto d’impalpabile cenere

e non la fiamma, il mistero.

Andare così verso

l’amore per quell’alone

perdurante nelle cose

a dire di noi l’essere stati

nient’altro che inafferrabile crepitìo

*

Vengono dal già accaduto

distese di tenebra e luce

l’una e l’altra al levarsi

dei polsi dalla schiena.

Sospesa non sa, la fronte

vertigine e presagio.

**

*Annalisa Rodeghiero, Opposte verità, edizioni Medusa, collana Gli insetti, a cura di Pasquale Di Palmo, Fano 2025.

SBUNDO. Jonny Costantino e Fabio Badolato

Riflessione calda su tutto, di Lorenzo Saiani

Dopo Sbundo di Fabio Badolato e Jonny Costantino

Ore 5:23 del mattino, 13 novembre 2025, nei postumi della visione al Cinema Modernissimo di Bologna.

Ho voglia di scopare, inculare ed essere inculato. Io voglio…

Ripenso a quei corpi, fuck It! Mi rinnamoro costantemente: dentro, fuori, dentro, fuori, dentro, fuori e via dicendo.

Quante carezze, quanto amore. Così ci si avvicina ad un corpo: big fat black cock!

Basta con questa lontananza, pelle contro pelle, carnalità totale. Me ne fotto! Distruggiamo i fuochi e bruciamo le immagini: la vita è quello che conta, stiamo con loro…stiamo con noi. Divago divago divago, stupendo, mi squaglio nel divagare, amo entrare in un flusso, amo sditalinare la mia vita, le parole, il mondo.

NON CHIACCHIERARE CHE TI STANCHI…

Ok, mi stoppo, ti scopo… Omertà. Quanto amo questa parola, quanto mi piace nascondere… Perché una persona viene uccisa? non lo so, non lo so, non lo so. La vita è la morte, la vita è scoparsi la morte, la vita è vivere con la morte. Continuo a nuotare nell’oscurità, vado sempre più a fondo… questo è un pezzo di me, un mio feticismo, un mio sensuale ardore… l’uomo violenza, l’uomo sacca di sangue, l’uomo carne da macello.

Vorrei essere accoltellato dal ragazzo che gioca con il coltellaccio. So che farebbe un taglio preciso, lui, il miglior chirurgo di vita, uomo bisturi… questo taglio farebbe nascere dei fiori, il mio torace squartato come miglior orto botanico del mondo… la vita.

Puttane, puttane, puttane, puttane… che belle che sono… angeli… liberazioni… teli di seta… cotone ancora vivo… fuochi. Io fiamma rovente alimentata dall’amore della prostituta, io corpo ferito, io orto botanico viscerale, io gangster dimmerda divoratore e creatore di bellezza.

L’energia non si crea né si distrugge, ma si moltiplica… questi sono i corpi, le scopate, le uccisioni, la droga, lo sbundo totale della vita… vorrei essere… non sono… vorrei accarezzare… avvicinarmi… amare,,, toccare… sentire… vivere e viverli. Corpi che hanno sentito tutti, corpi arrivati, corpi costruiti, corpi adonici.

Guardo, guardo, guardo, guardo, piango, piango, piango… vesti la giubba… generatore, amore distorsione corporale… mi piego, mi spezzo, vengo…

Casta diva…piango… amo… vivo… sto… mi lascio… vengo.

Pochi secondi… nessuna parola… nessuna pietà… muoio. Crollo, sono un bove stremato, ucciso dal campo, ucciso dal vento, morto… oltrevivo e ultravivo. Ora vedo… registro… creo.

Vorrei essere corpo… Vorrei essere anima… Vorrei…

Sono.

**

Jonny Costantino è cineasta e scrittore. Nel 2000 si laurea in Giurisprudenza con tesi in Criminologia (Il grande criminale tra criminologia e cinema) e subito avvia una collaborazione biennale con Vittorio De Seta (il regista di Banditi a Orgosolo). Nel 2005 fonda con Fabio Badolato la BaCo Productions e nel 2019 con Rita Deiola la Salamander Giant, entità produttive entrambe attive. È il direttore artistico di Ultracinema Art Festival e insegna Regia alla Blow-up Academy di Ferrara, di cui è vicedirettore artistico. Vive a Bologna. Tra i film: Just Play and Never Stop. Un viaggio spericolato nel jazz (2025), Sbundo (2020-24), Carnale Carnale (2023), Dallarte (2023), La lucina (2018), Il firmamento (2013), Beira Mar (2010), Le Corbusier in Calabria (2009), Jazz Confusion (2006).  Tra i libri: Piressia (2024), Cormac Blood Dance (2023), Giovanni Blanco (2023), Ultraporno (2021), La mano bruciata. Scrittori, pittori, elezioni (2021), Un uomo con la guerra dentro. Vita disastrata ed epica di Sterling Hayden: navigatore attore traditore scrittore alcolista (2020), Nella grande sconfitta c’è la grande umanità (con Michael Fitzgerald, 2020), Mal di fuoco (2016), Volti a fronte (con Domenico Brancale, 2013). 
E’ stato redattore di “Cineforum” e caporedattore di “Carte di Cinema”; nel 2009 ha fondato “Rifrazioni. Dal cinema all’oltre” e nel 2010 “Rivista”; attualmente è redattore del “Primo amore” e collabora con “Antinomie”

LA VERA IPNOSI

Come sempre, quando si legge questo poeta, si resta ipnotizzati dal mistero che percorre le sue parole, felicemente incomprensibili e felicemente reali. Non esiste, per lui, l’interezza della cosa. Sarebbe una falsa pienezza: esistono angoli, punti di cambiamento. Movimenti di attesa nell’invisibile. Nessuno come lui sa che vedere tutto è un’illusione, la produzione di un falso. Occorre percepire fratture, impressioni, fughe. La vera ipnosi è l’insuccesso di contenere la realtà. La realtà è inafferrabile, come la verità che Musil paragona alle vibrrazioni del mercurio: è la fotografia di un invisibile che rimanda sempre all’impossibile.

LA MEMORIA DEL FUTURO. Frisa, Ercolani

La memoria del futuro. Ladislav Chodasevic, Nina Berberova

Parigi, settembre 1924.

Sono partita.

A me non piace quello che piace a te, Ladislav. Detesto le tue necropoli e i tuoi ricordi. Io ho voglia di cose vive, oggi. Di tombe ne avremo a sufficienza dopo. Scarsi gli anni a venire, come sai. E dunque fammi partire, vivere, viaggiare. Non posso restare in quella stanza d’ombre con te. Celebra tu il passato, e le sue angosce. Sii il poeta dei lunghi ricordi. A me lasciami correre. Un titolo continua a balenarmi dentro: Il corsivo è mio. Buon titolo: credo che lo userò per il mio diario. Già, scrivo un diario, ma più che altro è un carnet di viaggi, di incontri, di amori. Se non fossi una scrittrice, che simpatica cortigiana sarei stata! Ma lascerò il segno anche con le parole.

Vivrò. Ogni segno è vita. Avanti, avanti, fino a cadere.

Tu non ami il sesso. Sei sempre stanco, un po’ freddo. Per me, invece, per me Nina Berberova la felicità sessuale, unita all’amore vero, è la perfetta bellezza del cosmo, la matrice della creazione, la sola strada per la felicità. Ma io, come sai, non sono normale. Preferisco morire piuttosto che sentir spegnere in me questa fiamma che da sempre mi consuma. Detesto la memoria del futuro, perché voglio costruirlo giorno per giorno e scrivere delle cose vive che vivrò, non dei miei fossili rimpianti di scrittrice. Molti enigmi si risolvono con il cuore, e non con l’istinto. Ne riparleremo.

Ma adesso ti lascio. Fossimo sulla luna, comunicheremmo meglio. Parto per un luogo, in Italia. C’è una via che si chiama Rocca dell’Abisso. Un luogo ventoso, senza numero di strada. Una bella avventura passarci. Ma insieme a un uomo vero. Vorrei, adesso, la lingua, il membro, le mani di un amante meraviglioso, e sapere, con lui, dentro di lui, che ci saranno ancora nuove e incredibili gioie durante la vita. A me accadono sempre nuove cose, perché io sono sempre in cammino. Fossi accanto a me e non nelle tue piccole necropoli ne vedresti di tutti i colori, piccolo Ladislav. Una vera aurora boreale.

Ciao, tua Nina

**

Berlino, dicembre 1924

Sono partito anch’io, Nina. Sono andato a Berlino.

Berlino mi fa tremare, Nina. Altro che aurore boreali. Su ogni muro ci sono sigle sconosciute, oscuri richiami. Mi tocca, per salvarmi dalla vita, camminare, giorno dopo giorno, come se il mio corpo fosse il muro nel quale nascondermi, come se la mia voce fosse qualcosa di perverso che non può uscire dalla bocca finché, dalla sabbia, quel bambino continua a guardarmi come una pietra sopravvissuta a eroi, regni, odissee. Ho paura, ma ho bisogno della mia paura. Mi fascia come un guanto fascia la mano, come la neve ricopre l’intera pianura non lasciando spazio al verde dell’erba, e tutto è bianco, candido, abbagliante, come se il pianeta non fosse mai esistito al di là della crosta di ghiaccio in cui è sepolto, della neve immobile nella quale io passo e respiro pensando a te, Nina, e con la punta del bastone ne spezzo il candore, traccio orme di animali favolosi, che si mescolano alle mie…

A ciò che gli uomini definiscono armonia, Nina, preferisco il brivido della paura e il sudore della febbre: la testa recisa sul binario quattordici, il coltello sotto il capezzolo della dolce Mariechen, il rumore della massa d’acqua sul corpo annegato, la maschera mortale di Puskin, il triste mattino di tormenta dell’anno millenovecentoquindici, la lingua che trattiene il dissolversi delle cose, lo scaffale fluido, i libri disfatti, la paglia fra i denti del rastrello, il remo smarrito nei campi, l’amico logorato dai viaggi a Parigi. A matrimoni felici e sofferenze serene preferisco la mia stanza dove, ritmicamente, i muri cominciano a girare, l’aria mi porge la penna pesante, gravida di suoni, e vedo il mio alter ego sprofondato nel divano, una sigaretta fra le labbra, le gambe accavallate, che mi guarda con occhi non di carne e mi suggerisce di osservare se la montagna è immobile, se il cielo esiste ancora o se gli alberi non si sono polverizzati nel buio.

Il tempo, in assenza di parole, è inumano. La scrittura è solo un atto di pietà che rallenta la caduta delle ore e consente respiri più ampi, salvandoci dalla certezza che siamo vite in rovina, precipitate nel buio. Nell’oasi deserta, quando divampa l’incendio, non soffriamo l’angoscia delle grida, non sentiamo i tetti crollare, non guardiamo gli uomini fuggire come ombre nel fumo. La fiamma svetta sopra la sabbia, con lingue agili e abbaglianti. Dritta e pura, si perde nell’aria. Volatilizzato in cenere, il fuoco si estingue negli spazi del cielo. Ma non è così, Nina, quando scriviamo. Allora è forma che abita dentro di noi, fiamma fredda, immobile mercurio. La pagina conserva i segni dell’incendio come una maschera di gesso l’impronta del volto vivente. Ma sotto la maschera scrive Puskin, canta Blok, e la speranza, per loro come per me, è la memoria del futuro…

Tuo Ladislav

***

Ladislav Chodasevic nasce a Mosca nel 1886. I suoi primi volumi di poesie sono pubblicati in Russia, dal 1908 al 1922:GiovinezzaLa casetta felicePer la via del grano,  La pesante lira. I versi da lui scritti all’estero sono riassunti col titolo La notte europea, nel 1927. Tra il 1929 e il 1938 si dedica alla critica e alle rievocazioni letterarie, e scrive il volume di saggi Necropoli.

Nina Berberova, autrice de Il giunco mormorante e dell’autobiografia Il corsivo è mio, è negli anni Venti la moglie di Chodasevic, prima di emigrare definitivamente dalla Russia.

*I testi sono tratti da: Marco Ercolani e Lucetta Frisa, Furto d’anima. 40 lettere reali e immaginarie tra uomini e donne nella storia e nell’arte , Greco & Greco, Milano 2018.

CAPRICCIO IN LONTANANZA

Alcuni poeti infrangono gli schemi e finalmente dicono la verità: per loro non esiste la carriera privata dello scrittore, l’elenco dei libri stampati e premiati, la classifica degli onori, ma la segreta partecipazione alla moltitudine laboriosa e assurda di chi, scrivendo, ha messo fra parentesi il mondo e da scrittore vero fugge i confini del linguaggio per inventare altri limiti. Hugo von Hofmannsthal scrive: «le parole non sono di questo mondo», e afferma: «Mi sembra che l’esistenza dei libri abbia questo fine, di aiutarci a prendere coscienza della propria esistenza e in questo modo a goderne. […] Nemmeno a me appare in modo completamente distinto l’uomo che si nasconde dietro al libro: solo di tanto in tanto intuisco il suo essere. Quasi senza sosta vibrano però in me, in ogni esperienza da me vissuta, le esperienze fittizie che provengono dai libri, così come gli armonici, quando una corda vibra, risuonano assieme alla nota principale, e allora sono grato ai libri così come ai miei amici per avere arricchito a dismisura la mia esistenza». Chi vorrà parlare di questi poeti, nel momento della loro scomparsa, ricorderà una composizione di Johann Sebastian Bach, Capriccio in lontananza del fratello dilettissimo, che nel 1704 il musicista dedicò al fratello, l’oboista Jakob. Nell’incantesimo di questo ricordo, ironico e stupito, scriverà le sue pagine come un “capriccio” personale dedicato all’amico lontano, “fratello dilettissimo”.

PER ONDE DI PENSIERO

All’origine, la parola è poco meno di un balbettìo, è qualcosa che interrompe un silenzio, testimoniando una presenza. Poi, in un tempo successivo, ciò che era incerto balbettìo, fragile grido, si riorganizza. Le sillabe incoerenti diventano parole. La parola si articola in frasi, diventa sicura di sé, del suo potere di incantamento. Nasce una lingua compatta, felice della sua pienezza, quasi superba. Linguaggio da celebrare. Ma nel suo intimo è e resta Sorgente che irradia luce: non a caso, nella formazione mitica del mondo, prima viene il suono, poi il suono decade e si trasforma in luce, infine la luce si fa materia, secondo le teorie mitico‒antropologiche di Michel Schneider sul significato della musica. Tanto Mallarmé quanto Celan ce lo insegneranno: la parola poetica, antitesi tragica a ogni forma di pienezza, è “buio senza fondo”. Canto, sì, ma che sgretola la compattezza del canto, lo dissolve in pulviscolo di prospettive. Il destino del poeta torna ad affidarsi a quella sillaba uscita dal silenzio. La parola è stata canto. Ha conosciuto quella natura di canto, quella felice onnipotenza. Ma è tornata, da tempo, a essere fragile grido, traccia di dolore. Non sorprende che i poeti, nella loro vita, traversino queste fasi alternanti del processo poetico. La Parole archetipale di Char non è certo sacrale venerazione del l’archetipo poetico ma il personale “ordine insorto” del poeta verso quello stesso archetipo. La sua celebre sentenza: «dì ciò che il fuoco esita a dire, e muori d’averlo detto per tutti» trova la sua eco speculare nell’altra: «Il giorno nutre, la notte affina la parte nutrita». La poesia deve innalzarsi (essere “sublime”, se condo l’etimologia della parola, sub-limen, affiorare dal basso, di sbieco), andare oltre di sé. Come scrive Yves Bonnefoy: “L’uccello varca il canto dell’uccello ed evade”. L’enigma della poesia è essere “fuori di sé” ma costruire le forme di questa “evasione” con scrupolosa esattezza. La poesia è sperimentazione dell’impossibilità della parola, in quanto parola, di arrivare al suo oggetto, di descriverlo: è stare, ai margini dell’afasia, la lingua mozzata davanti a qualcosa che ammutolisce il linguaggio e non consente altro che uno stupor da reinventare con le parole: essere nell’illimitato e fondare limiti nuovi al linguaggio che ne descrive il dissolversi. «Il senso troppo preciso cancella la vaga letteratura» – sostiene Mallarmé, che non a caso si era prefisso di sabotare il linguaggio. Un poeta contemporaneo, che voterà se stesso a una tragica fine, Lorenzo Pittaluga, osserva che la poesia è «progetto di veglia / con sogno e manovra». In effetti la veglia è un progetto, qualcosa che nasce dall’informe, ma questo progetto si sostanzia di due cose: il sogno (l’irrazionale) e la manovra (il controllo dell’irrazionale), fusi insieme. Luce e buio. Il silenzio è l’approdo a cui tende la parola. Ma non può essere il silenzio dell’inizio: deve essere il silenzio dell’arrivo. Il proprio silenzio, quello del poeta, determinato dalle sue – e di nessun altro – parole. Nessun silenzio è innocente. Nessuna armonia è possibile. Bisogna trovare, con il pro prio linguaggio, il proprio silenzio. e, mentre lo si trova, vivere l’esperienza di uno shock, di un allarme, di uno stupore sempre nuovi, perché la poesia è linguaggio ammutolito, meraviglia dell’impensato, magia fresca del dire, stregoneria del non‒detto. Celan scrive: «dovetti dunque anche dedurre che su quanto lotta da tempo immemorabile per trovare espressione si è deposta la cenere di significati antichi, ormai morti, e altra ancora! In che modo allora il nuovo dovrebbe scaturire con la sua purezza? Ben vengano, dai più remoti distretti dello spirito, parole e immagini e gesti, velati come nel sogno e in sogno svelati». e Jabès aggiunge, parlando del poeta di Czernowitz: «Celan ha quasi inventato una nuova lingua tedesca perché ha messo insieme delle parole, come se le parole potessero in quel momento salvarlo. […] Ha voluto fare l’impossibile con il linguaggio, ma questo impossibile non significava per lui solo desiderio di dire, ma anzi desiderio di tacere».

In sintesi, la poesia, mentre raggiunge con forme diverse, la sua natura espressiva, di frattura potente nella sintassi del discorso e nel suono del linguaggio; si scopre porosa, lacunosa, smossa da sussulti. ogni arte autentica ha qualcosa di elementare, di atroce, di irriducibile alla logica del dire. Poi, dopo aver traversato il sogno e la notte, dopo essere stata a un passo dall’afasia, riprende a essere logica ma come canto nudo, breve, sempre all’inizio, che è anche approdo, di sé. Per Novalis «La poesia è il reale veramente asso luto», e contemporaneamente: «Il poeta ordina, raduna, sceglie, dispone». realtà totale: tutto ciò che potrebbe essere reale, che lo è stato o lo diventerà, e nello stesso tempo capacità di filtrare questa percezione in forme. Se le parole hanno parlato a lungo, prima di arrivare a noi, e arrivano a noi non coniate, piene di silenzi e di suoni, il compito del poeta è ri‒coniarle, per il tempo che durerà la sua opera. Scrive Odisseus Elitis: «La poesia è una fonte d’innocenza colma di risorse rivoluzionarie». Innocenza e rivoluzione: un ossimoro felice, un’architettura nel disordine. E cos’è, questa architettura, se non la necessità di dare forma consapevole, da poeti, all’esperienza del grido? Lo confermano le parole inconsolate di Hölderlin, non ancora definitivamente folle, qualche mese prima di perdere la ragione, essere rinchiuso nella torre di Tubinga vegliato dal falegname Zimmer, e comporre tranquille quartine sui paesaggi e sulle stagioni, libero dalla breccia che lui stesso aveva contribuito ad aprire nella pienezza del linguaggio: aperte le finestre del cielo e lasciato libero lo spirito della notte assalitore del cielo, che ha la nostra terra sedotto, con molte lingue impoetabili, e rotolato le macerie fino a quest’ora. La poesia, sfondando “buchi insospettabili” nelle forme della voce, non può che rientrare docilmente nel regno della notte, nei riti del sonno, a “tirare il fiato”, a strappi, quel “fiato” che prima era canto ricco di versi ed ora è vuoto pieno di silenzi; a tirarlo giù come un peso, sul filo sottile della tragedia e della catastrofe, personale e linguistica, a occhi chiusi, senza vedere, con i piedi legati, senza camminare. Ancora Hölderlin:

E ciò che tu hai

Tirare il fiato.

Chi infatti l’ha

Innalzato alla luce

Lo ritrova nel sonno,

Giacché dove gli occhi son chiusi

E i piedi legati,

Là tu lo troverai,

Giacché dove riconosci….

Atonale silenzio che avrebbe generato, quasi vent’anni dopo, il leopardiano Coro dei morti di Federico Ruysch:

Vivemmo: e qual di paurosa larva,

E di sudato sogno,

A lattante fanciullo erra nell’alma

Confusa ricordanza:

Tal memoria n’avanza

DDel viver nostro: ma da tema è lunge

Il rimembrar. Che fummo?

Che fu quel punto acerbo

Che di vita ebbe nome?

Ancora Leopardi ci rammenta, nello Zibaldone (26 luglio 1820): «Notate che nei pazzi i più malinconici e disperati, è naturalissimo e frequente un riso stupido e vuoto, che non viene da più lontano che dalle labbra. Vi prenderanno per la mano con guardatura profondissima, e nel lasciarvi vi diranno addio con un sorriso che parrà più disperato e più pazzo della stessa disperazione e pazzia». dalla prosa dello Zibaldone affiora sempre un qualche imminente pericolo. La sintassi non mostra niente di classico, il fraseggio si sviluppa per frasi appese, scandite da virgole, archi di frasi con ritorni all’indietro, ripetizioni avvolgenti, in un andamento aperto che spesso si perde in un “eccetera”. Leopardi non “mette in prosa” blocchi di pensiero già pronti, insegue idee che si sviluppano con e nel flusso delle parole; produce una mobilità di scrittura che può espandersi in ogni direzione, inseguendo la sorpresa del dire qualcosa che fino ad allora non pensava. La linea della prosa non è retta: è erratica e frammentaria, mobile e sospesa, come un pensiero sempre interrogante e incompiuto, del tutto privo di protezione. La mancanza di protezione è il pericolo perfetto di questa prosa; ogni frammento dissemina parole per ricordare che il cammino si sta svolgendo all’aperto. La nostra letteratura non possiede un altro esempio del genere, con il fraseggio che scivola a ogni pagina tra diversi punti di un orizzonte non definito. A ogni pagina si passa da un tema all’altro, da un punto teoretico all’altro, senza una visione riassunta in una teoria conclusa. Si va avanti per onde di pensiero, aperture, sequenze, richiami musicali. La visione di Leopardi non prescrive limiti: invita all’erranza, allo sperdimento. Non si può leggere lo Zibaldone sperando di ricavarne una teoria; si può solo trovarvi il senso di un cammino che si sta svolgendo all’aperto, con lontananze e riflessi che possono attrarre lo sguardo dell’osservatore. Sono i poli dell’illimitato e del finito, tra cui si situa ogni visione del sensibile non bloccata da astrazioni. La linea della prosa leopardiana si muove seguendo i richiami delle immagini che affiorano, gli stati emotivi del pensiero. ogni citazione dallo Zibaldone corre il rischio della vaghezza, è un frammento estraneo a ogni sistema. Lo scrittore deve essere spericolato, privo di steccati, mosso da attrazioni, umori, estri, erudizioni, camminamenti, riflessioni da flâneur. Quello che conta alla fine non sono le mete a cui arrivare, ma il continuo transitare attraverso stati emotivi, gioie, dolori, umori che insorgono: l’anima di questa scrittura è un modo di scrivere non ancora catturato dalle “rappresentazioni del reale” o dalle “categorie della mente”. Le frasi pensate, il pensiero confezionato, hanno perso il ricordo di questa mobilità nervosa delle parole, determinante in Leopardi come nucleo della sua “filosofia non filosofia”, e che pone in primo piano gli stati di sensibilità, le inclinazioni del pensiero, gli ànsiti, i desideri. Lo Zibaldone è un diario “affetto” dalle parole. Come quando “si è affetti da una malattia” così si resta affetti dalle parole, e i pensieri diventano onde, desideri della visione, allucinazioni percettive, idiosincrasie. La “ultrafilosofia” leopardiana non avvolge le emozioni con i riflessi psicologici dell’interiorità, ma le intende come effetti dei sensi che sfuggono al volere. Nessun altro pensatore richiama con tanta sicurezza questa germi nazione naturale del pensiero che permette di uscire dalla triste ragionevolezza e dalla noia uniforme delle filosofie analitiche e delle antropologie culturali: il linguaggio della prosa è il vettore fluido e ideale per rappresentare il ritmo di questa ondulazione, indicibile reso dicibile senza l’andare a capo della poesia, flusso emotivo espresso da uno strumento più duttile e meno assoluto delle nitide epigrafi dei versi. Non “prosa poetica” ma “anima” della prosa, lunare fantasticheria, musica-improvvisazione, che tende sì a diventare frase poetica ma senza completare mai la metamorfosi, che resta sospesa in un lungo e inconcluso journal. Hölderlin, il tragico poeta degli Inni, ha interrotto il suo rapporto con la bellezza che lo avrebbe sprofondato nel caos.

Ma inevitabile il lutto li colse quando

si fece sera.

Una parola che metta il poeta a contatto della notte, dell’“aorgico”, di una natura sottratta al potere dell’uomo, sgretola la parola stessa, rende folle il poeta e folle la poesia. Nella parola si apre un varco, e niente è più come prima. La poesia esiste non perché sa trovare la bellezza del ritmo poetico nella lingua ma in quanto esperienza dell’indicibile, esperienza che nasce da Parmenide, da Lucrezio, dagli Oracoli Caldaici. Il luogo del poeta, secondo Benjamin, è il luogo dell’origine, ma non all’interno di un mito favoloso, di un archetipo di purezza, bensì dentro un consapevole ritorno all’origine, a quella “spoliazione” originaria che l’uomo avverte in sé, balbettando di fronte all’irruzione di ciò che lo fa ammutolire. Scrive Hölderlin:

Ma ancora una cosa va

Detta. Giacché troppo

Improvvisa parve a me

Giungere la gioia

Solitaria, tanto che ignaro

del possesso

Mi rivolsi alle ombre…

QUALCOSA CHE RE-INIZIA

«Non so come dirlo: diventiamo veri quando siamo sollevati da noi, presi alla sprovvista, ombre senza paura… Un “sentirci rapiti” da noi stessi, come il famoso sollevarsi per i capelli, un’impresa più che un dono… tu, quasi profeticamente, annunci la tragica bellezza della mente come l’unica patria possibile – lasci intendere si possa essere una comunità (due, più di due…) che cerca fino all’osso il linguaggio che ci faccia diventare un’esplosione di verità. È così?».

Alla domanda del poeta devo rispondere: sì. Dobbiamo restare “ombre senza paura”, mai collocate in un “posto fisso”, cercando “Il linguaggio che ci faccia diventare un’esplosione di verità”. e, dopo quell’esplosione, continuare a giocare, con il foglio bianco, nelle ore che ci sono ancora concesse. Si parla spesso della pagina bianca come del luogo dove potrebbero apparire le parole, dettate da ingegno e volontà, dello scrittore. Per il poeta è il contrario: scrive, nello schermo del foglio, come un pittore/scrittore che addensa i segni bianchi dell’alfabeto nel bianco tessuto della tela, avendo ormai dimenticato quale sia il primo, esatto progetto. Leggere le sue pagine è leggere pagine che la scrittura renderà ancora più bianche, qualcosa che dovrà pur accecarci, splendendo senza significare. Qualcosa che reinizia sempre. Un ri-cominciare, disperato dal non “poter finire”. Immerso dentro un arrivo senza fine, il poeta parte: bisbiglia di finte fughe, di un’alba viva nel tramonto, di foglie che come puledri galoppano via, fuori dall’albero, senza fuggire dai rami.

ROBERT WALSER

Per un nuovo finale di Preferisco sparire.

Congedo

La voglia di parlare con te si è spenta. Preferirei giocare a scacchi, se sapessi giocare, perché potrei farlo con me stesso. Preferirei sentire una partita di Bach per violino solo, anche se Bach non mi fa sentire l’acqua che scorre ma la solenne pietra illuminata dei grandi pensieri. Mi disturba che tu prenda appunti e faccia pochissime domande. A cosa ti servo? A tener viva la leggenda degli ultimi anni del matto scrittore che è ancora scrittore? Smetto di compiacerti. Senza rancore, davvero. Torna alle tue cartelle cliniche. Voglio essere veramente solo, e con te non posso. Anche parlarti di me è stupido orgoglio, e tu che annoti le mie frasi non sei certo Eckermann che parla con Goethe. Io voglio essere la pietra che non ha coscienza di vita. Il matto vero. Da tanto lo desidero. E solo le parole possono avere la magia di trasformarmi in quel sasso perfetto senza parole. Non ci sono scritture minuscole. I miei 727 foglietti sono un delirio.

Libro

Ti lamenti di non leggere niente di mio, Weiss, ma non disperare. Lo sto copiando proprio ora per te. È stato nella mia mente per vent’anni. Ora apparirà su carta. Ora, ma con calma. Non oggi. Non domani. Ogni libro è la vita stessa, è cartavita. Anche non letto, anche gettato via, agirà. Sprigionerà magie. I libri restano anche quando le pagine marciscono nelle fogne e un bimbo un giorno le userà come barchette negli stagni di Biel. Restano, e mettono il mondo a soqquadro. O dolce disordine! O terra ballerina! La mia etica è scrivere per scongiurare il terremoto. Scrivere e riscrivere: atto soprannaturale che nasce dentro il frutto spaccato come un seme nuovo, una nuova fiamma. Ecco la cenere dei miei vent’anni di Herisau: il retro di una lettera indirizzata al Direttore del Manicomio dove un ospite di Herisau, tale Thomas Werfel, dice di non essere lui quel Thomas Werfel ricoverato per schizofrenia ma di chiamarsi Robert Walser. È solo un foglietto, Weiss (gli altri 726 forse esistono, forse no, tu cercali se vuoi…), dove devi distinguere la grande e nervosa calligrafia di Werfel dalla mia, fitta e minuscola…

Le belle nuvole

Vedo di fronte a me, per così tanto tempo, così tante belle nuvole, che non posso ingannare se non con un artificioso trastullo, una tale quantità, un tale mucchio di tempo, che non posso esser lieto di tutto cuore di aver trovato questo passatempo. Non mi si vuole e non mi si può dare un’occupazione, non si ha bisogno di me, sono completamente al di fuori di ogni necessità. Ebbene, allora sarò io a servirmi di me stesso, sceglierò da solo il mio scopo e mi considero sufficientemente portato per svolgere qualsiasi lavoro, fosse anche il più strano ed inutile. Sono robusto e pesante e pieno di sentimenti e di capacità pratiche non comuni. Per quanto possa anche essere miserevole la mia attuale condizione in questa Herisau, io mi sento comunque stranamente libero e coraggioso, e il mio cuore è abile e coraggioso nello scovare pensieri consolanti. Solo di tanto in tanto, per dirla apertamente, mi sento triste e privo di speranze, penso al mio futuro come a qualcosa di perduto e di oscuro, ma si tratta solo di momenti, nulla più.

Essere e sparire

Chi dice sentire dice memoria, chi dice memoria dice movimento, chi dice movimento dice quella concretezza piantata da qualche parte, che prende slancio da un punto preciso. Le belle nuvole fuggitive e grandiose non sono attaccate a nulla e quindi non producono nessuno scuotimento. Ci sono montagne di nuvole e fortezze di nuvole la cui posizione ha qualcosa della noncuranza dei cigni che nuotano, dell’indolenza di donne che si lasciano andare a un sorriso, a un gesto. Le variazioni del bello e del sublime culminano in una docilità silenziosa e totale, come accade per idee elevate, opere di pietà, di giustizia o d’amore. In un silenzio inudibile il più maestoso dei concetti si allontana, soffiato via dal buco arcaico dove scaturisce il vento, dove essere e sparire si confondono. In quest’istante, per esempio, gli alberi sono scossi dal vento per la ragione, immediatamente percettibile, che sono perseveranti. Nella misura in cui i rami si rilasciano può nascere quel senso di scuotimento. Se non fossero ben radicati non si potrebbe parlare delle loro foglie e, di conseguenza, non ci sarebbe ragione di sentire nulla.

Chi è lui?

Non so come si chiama. Non si sveglia mai. Vive solo nel sonno. Cresce ma continua a dormire. Vive negli ospedali. Io lo vedo mentre dorme, io, povero calzolaio, amico di amici (lui non ha né padre né madre). Mi chiedo cosa stia sognando. Non lo so. Ma lui preferisce non svegliarsi. All’età di sedici anni, ne sono testimone, finalmente muore. Forse è andato a riposare in qualche altro regno, senza lasciarci un cenno.

I pittori

La materia del mondo la appiattiscono nella tela, con bellissimi colori, e lì la guardano stupiti. Sono i pittori. Fissano mappe, cartografie, mondi paralleli, sfavillanti. Non si accorgono che fuori si è già scatenato l’ultimo temporale della terra, che nessuno è più vivo, e che stanno decorando l’interno delle loro tombe con offerte segrete. O forse se ne sono accorti, lo sanno da sempre e sorridono proprio per questo.

In sogno

Mentre camminavo per le colline, da ore e ore, seppi che stavo sognando e cercai di svegliarmi. Ma fu inutile. Continuai a camminare per boschi e radure, senza sentire la fatica, e quando lei mi guardò e sorrise, non provai nessun rimpianto per il mondo, lontanissimo, nel quale non riuscivo a tornare.

Musica

La musica non mi è mai piaciuta completamente. Era così bello non sentire suoni. Ma un giorno fui costretto a rimanere dietro a una cascata, perché il sentiero si era interrotto, e da allora capii tutti gli incantesimi che possono essere generati dalla ininterrotta dolcezza del suono. Come faranno, i libri, a restituire quell’incanto se non mancandolo sempre? Se non restandosene muti a desiderarlo? Non è necessario trovare una finestra perché il paesaggio abbia un senso. Senza delle finestre da cui possa essere visto, tutto questo mare di campi e di alberi è una musica indefinita, senza strumenti. Arte della fuga?

Riga per riga

Mi ritrovo dove non credevo di essere, tutte le ipotesi sul tappeto, un passato che parla del mio ininterrotto futuro. Di certe vite che si dicono sommerse non si deve piangere mai: sono opere delicate, nomi interrotti. Occorre guardarle dal vetro, ma senza gridare. Tutto questo sparire è grande chiarezza nella notte e nel sonno, è dimenticarsi sulle rive del fiume. Non avere quasi nulla. Terra senza di noi, da vedere a notte alta. Io studio la paura riga per riga: diari di poeti, viaggi, vertigini, nuvole sparse. Tutto, ancòra, esiste, specchio di quando smetterà di essere.

Cantilena

Trascrivo la cantilena con frasi dettate dall’incanto della luna, e così sparisce il mondo – neve monti giardini. Ripeto la cantilena, termino il libro, ed esco nel mondo vuoto. Domani non ci saremo più. Tutti. Scrivo perché nulla fermi i miei pensieri, sono fiori delicatissimi, appartengono a tutti. Cado, mentre cammino, ma non più in disparte. Invito gli altri a guardarmi e applaudire con gioia. Odio gli esseri tristi. Ho sempre obbedito al mio sorridente e distratto dio.

Basta

Il mio dialogo con te è quanto ho espresso negli ultimi vent’anni a Herisau. Ora basta, con la mia risposta e con la tua curiosità. Basta con la scrittura, la paura, il dolore. Perché a Waldau scrivevo e a Herisau ho smesso? Risponderò semplicemente: sono molto, molto peggiorato. Nessuno mi ha più visto con una penna in mano. Dopo Waldau non mi sono più interessato ai miei libri ma alla mia follia. È quello il mio unico libro, e non vorrei che mi sfuggissero le frasi migliori. No, nessun inferno: è un vivere sottovoce, dentro la trasparenza di me, un po’ come Bartleby nel grande ufficio da cui non voleva muoversi più. Siamo tutti vuoti, nel momento stesso in cui ci dedichiamo alla scrittura. La scrittura non è nient’altro che l’incarnazione della vanità, è nulla. Io rinuncio in tutto e per tutto alla mia vanità. Perdo le parole, sacrifico me stesso, mi salvo.

Segreto

Si dirà che scrivo in segreto, quando nessuno mi vede, anche dentro le suole delle scarpe. Se fosse vero, e questa è la grazia, mi dimentico di farlo. Dimenticare è salute. Ricordare, solo ossessione e mania. Tutte queste cose, adesso, le mura dell’ospedale, le facce dei malati, ho l’impressione che si accartoccino. Ma non c’è nessun incendio, solo che si trasformano e le osservo trasformarsi. Non mi sento tranquillo. Sì, certo, intrecciando canestri, annodando pacchi, leggendo vecchie riviste, conversando con te, mio innocuo scienziato, mi calmo. Capisco che tutto è sonno e non mi impongo nulla. Il mondo mi invita a diventare lo zero che sono, a non avere speranza. Appena inizio a sperare, le cose finiscono per essere troppo vive, per ardere come puro fuoco. Ma dopo bruciano, oh pena e orrore! No, mai, basta col fuoco! Fischietto impassibile, il largo cappello bene aderente alla testa, così i pensieri non volano via come api. Cammino nel freddo. Nel freddo cammino. Non devo vederti più, non voglio vederti più. Buon Natale, Weiss.