PER “PROSE BUIE”. Alfonso Guida

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Prose buie segue un figurante, lo straniero, e un luogo, il non-luogo. La prossimità al non-luogo è l’avamposto, la cittadella militare, la torre di vedetta. Lo straniero incontra. Non sapremo mai se incontra realmente o nei suoi sogni notturni o nell’immaginazione che in questi racconti ha un’accezione edificante. Un’immaginazione che arricchisce perché aiuta a comprendere il reale, non una dimensione alternativa in cui ripararsi dai continui paesaggi industrializzati, antropici. Potrei occuparmi solo della geografia di Prose buie ma non ora. C’è ben altro. C’è l’importanza degli elementi universali e il rapporto che un omino di vetro, trasparente e in corsa, o l’omino di Chagall hanno con l’aria e l’acqua. Il fuoco è lapilli e ceneri, vulcani. Il fuoco è preistorico e il tempo qui è sospeso e contemporaneo. La terra è oggetto di studio astronomico, fisico, di arcaica filosofia quando a dominare erano i rudimenti del pensiero, non i sistemi. Il racconto “Sul bordo dell’aria” commuove per un gesto ascetico dal principio kafkiano. Rompere il quaderno della propria opera, gettarlo di notte nella pioggia dall’alto di un campanile. Per giungere alla coscienza del necessario “tacere”.

“Si tace, non ci si lamenta” – sembra che Van Gogh faccia eco a Marco. Lo straniero fa: è uno scrittore. In Prose buie stento a non riconoscere nel fantasma tangibilissimo dello straniero un alter ego dell’aurora che spicca negli ambienti marini, tra spiagge e fossili, Genova, quasi un’alga rappresa. Ercolani scrive: “Ogni uomo viene dalla mente di un altro che, prima di lui, ha pensato e sognato quasi come lui”. Appare la riserva del “quasi” che potremmo benissimo togliere. Siamo i nostri condizionamenti, le persone incontrate, i libri letti. Si parla di una Bisanzio di provenienza. Veniamo da una città depauperata, saccheggiata, “senza ori e senza poeti”. E questo singolare sentimento dell’assenza porta al deserto, all’assenza di Dio, al vuoto concepito dalla scrittura come atto sovversivo: in Edmond Jabès ci sono prose con passaggi memorabili: “Il sonno sfugge sempre a chi dorme, come all’artista il senso della sua opera”: Marco si chiede se l’arte sia inconcepibile ma vacilla, lo sentiamo vacillare, tra il desiderio e il deserto, tra la necessità e l’imprevedibile, tra un passato che confluisce nell’oggi e un futuro a cui si avvicina con un disincanto dolce e tumultuosamente sardonico. Il sonno come altro, presenza esterna dalle cui mosse dipende la nostra tregua. Il sonno nella visione originale è bellissima di un “Io sconosciuto, inseparabile da noi”. Marco sognatore va tra gli dèi junghiani, non si interessa minimamente di idoli veterotestamentari o evangelici. C’è un incipit strabiliante che ricorda certe poesie di Amelia Rosselli sulla Roma serale. C’è un incipit davvero moderno: “All’ora del tramonto tutti aspettano l’autobus”.

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Carlo Merello

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A Marco interessa la parola. L’importante è che sia capovolgibile. La prosa “Come sentirle” è un atto d amore alla poesia, una promessa di presenza. Ci si chiede della Visione. E Marco, come fa Deleuze col desiderio, cerca di individuarne le modalità da cui si sporge. È nel come, nella posizione, ribadisce Marco col tono di chi, apprese le notizie dall’inconscio, si chiede come catalogare, se farne turbe o razze. Si giunge a un compromesso: il sonnambulismo. Il ciclo immodesto è circolare della ripetizione, il sogno è l’incubo, la vanità dell’espressione artistica, il suo sgretolarsi fino a perdersi. La scrittura di Marco è prodigiosa e prodiga di doni: “Assumere in sé la voce dell’altro è un atto d’amore e di identificazione in un destino”. Ecco la motivazione ai tanti apocrifi di Marco, il senso di uno sperato sentire comune, che avvicini l’altro e lo ricrei in un apocrifi senza scadenze. Qui la scrittura non è cura né uccisione: non è pharmakon. È la parola che testimonia del molteplice reale, della mente che è reale anche quando vola, se lo può visualizzare. L’indagine ferma sulle Istituzioni Totali, gli stati di estrema reclusione, i linguaggi escogitati da carcerati e secondini, da una scolta suprema, da una Corte d Appello che non condanna ma presiede come una mummia. Marco segnala di queste coercizioni l’ingiunzione al mutismo come dal concilio tridentino alla fine dell’800 è stato fatto col sesso, secondo Michel Foucault. Le piazze sono un po’ di mare, un po’ di villaggi nordici. Ci sono i montanari, i monaci, le donne. Ci sono i messaggeri che non possono parlare e sanno che devono, detentori di segreti imperiali, dignitari della tragedia umana, vittime del mutismo, della parola che si sforza ma non può uscire. Bocca cucita con filo spinato. Deportazione e Orfanità dello straniero. Villeggiante per contrade mai cupe, mai beckettiane, semmai buzzatiane, come nella bellissima prosa “Hailai”, sul segreto della sapienza tramandata ai figli e ai figli dei figli in condizioni di estrema coartazione. Prose buie sono referti da un paesaggio della follia, geograficamente folle, foce di più mappe. Marco è fedele al fulmine di Valery nel ricordare la nascita dell’arte, ma non dimentica la spettralità derivante dal cristallo rifratto. Sono scritture che inquietano per la tremenda oscillazione dei volti e dello sguardo che li dissemina

.16/09/18

Giovanni Castiglia

PER KARL BRAND. Nicolas Urzidil

Il testo è tratto da: Nicolas Urzidil, Di qui passa Kafka, Adelphi, Milano 2002.

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Nei suoi Colloqui con Kafka Gustav Janouch riporta una breve conversazione a proposito di Brand, la quale deve essersi svolta nel corso dell’autunno 1921. Janouch aveva allora diciotto anni. Durante quel colloquio aveva menzionato il lascito di Brand, da me recentemente pubblicato. Il commento di Kafka sul poeta scomparso fu: «Era un giovane così infelice che in mezzo agli ebrei centenari dei caffè si perse e morì. Cos’altro doveva fare? I caffè sono le catacombe degli ebrei nell’epoca attuale. Senza luce né amore, Non tutti lo sopportano». L’allusione agli “ebrei centenari” del Caffè Arco va intesa come una parabola. Al tavolino del caffè dove sedeva con Brand, Kafka era quasi il più anziano, sebbene all’epoca (1913-1918) contasse fra i trenta e i trentacinque anni. Ciò che aveva in mente era dunque l’età metafisica, gli assilli centenari e millenari che gravavano sulle spalle di tutti gli ebrei della diaspora disseminati per il mondo. I caffè potevano rappresentare delle catacombe dove in relativa sicurezza era loro concesso di officiare i propri riti. In mezzo ai patriarchi dei caffè, Brand appariva quindi a Kafka come uno straniero smarrito e votato alla morte. Kafka stesso, d’altro canto, non era un frequentatore abituale o assiduo di quei locali. Ma quando arrivava, pur non parlando molto, conferiva alla cerchia degli amici un’impronta così decisiva da suscitare l’impressione che fosse stato sempre lì, e questo, almeno sul piano spirituale, coglieva effettivamente nel segno.

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Karl Müller, pseudonimo di Karl Brand, nasce a Wilkowitz il 15 ottobre del 1895. Si trasferisce e cresce con i suoi genitori a Praga un anno dopo, nel 1896. La sua piccola famiglia borghese riesce comunque a iscriverlo alla German Business Academy. Durante la sua breve vita entra in contatto con personaggi decisivi della sua epoca, tra cui Franz Kafka, conosciuto al Caffè Arco di Praga. Lavora per diverse riviste, tra cui il Die Aktion e Der Sturm, e scrive articoli su argomenti politici ed artistici. La sua opera principale, e ancora oggi la più nota, sarà Die Rückverwandlung des Gregor Samsa (in italiano: La ritrasformazione di Gregor Samsa), breve continuazione in quattro pagine de La Metamorfosi che viene pubblicata per la prima volta sul Prager Tablatt l’11 giugno  1916: Brand immagina che il protagonista dell’omonimo romanzo si risvegli di nuovo umano, dentro un mucchio di spazzatura, dopo che il suo cadavere di scarafaggio è stato gettato via dalla signora delle pulizie della famiglia Samsa. A causa delle gravi condizioni di salute, Brand si sentirà sempre il “parassita” della sua famiglia e si identificherà nel personaggio kafkiano, sviluppando per lui una potente empatia. Viene ucciso dalla tubercolosi il 16 marzo del 1918.

Oskar Kokoschka, Praga

PER “ORIENTI”. Silvia Comoglio

Elio Grasso, Orienti, puntoacapo, 2022

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Quando il respiro si impenna

Orienti, vale a dire una direzione ma anche un’epoca che si radica nel respiro. Un timone qui al plurale perché il movimento è veloce e misura confini nelle cui spirali si sta a nervi scoperti. Orienti, ossia uno stare e un procedere verso Est, un guardare al sole che sorge sapendo che in quel sole due sono i destini che si compiono, quello della coscienza e quello dell’intelligenza che si scontrano deflagrando. E così il respiro si impenna. E accelera guardando sempre a Est, a quel sole che si fa intuizione e quindi, in ultimo, Secolo aggiunto, dove, “siamo, senza saperlo, i resti di un’Apocalisse”. Senza saperlo. Possibile? Inevitabile. Perché del respiro, specie di un respiro che si impenna, non si ha consapevolezza. Un respiro, a maggior ragione se è un respiro con questa caratteristica, non può che avere il monopolio. Non può che prendere il sopravvento, usurparci. E allora? Come aggiungersi ad un’epoca, ad una storia che non si cura dell’immaginazione e neppure la vuole? Solo aggrappandosi, attaccandosi, a quel “Tu salva gli amuleti, ricaccia l’inquietudine indietro, che forse non è così tardi. Le tue parole sono riposi rari fra la matita e le labbra. Nella tua campagna appari sui sentieri. Qualche decennio dopo, correggi le pietre”.

Salvare e correggere. Salvare, adesso, e correggere poi, qualche decennio dopo. Il tempo, l’epoca/storia, che potrà pure essere tutta uguale ma che non si fa vuoto. Il tu, il noi, che salvando e correggendo si veste di eticità, ammanta il tempo di eticità. E l’angolo di osservazione si fa plurimo. Orienti, appunto. Disinnescati “nel risanguarsi”, nel lasciare “orme sui detriti”. E tutto così si passa al vaglio legandosi a identità che si dicono in una contrazione di sintassi. In una fusione di Orienti che si scandiscono ricreandosi in “in mezzo alle onde e alle particelle”.

Una ricreazione che ha qualche punto di contatto con la resurrezione, intendendo qui per resurrezione un’assoluta autonomia del linguaggio. Il respiro si impenna? Ci usurpa? Ecco allora l’assoluta autonomia del linguaggio come risposta. Come prospettiva. La precisione, la sete di precisione, che qui, in Orienti, non è mai categoria astratta ma soppesata valutazione. Morale ed estetica. Raggiunte entrambe sottraendo e circoscrivendo. Slanciandosi oltre la loro soglia per poterle nominare. Uno slanciarsi che è poi un farsi totale presenza. Anche perché lo slancio presuppone, vuole ed esige, la totale presenza, quella che Elio Grasso non nega mai.

Orienti. Ma anche, si potrebbe dire, pienezza. Pienezza di coscienza e di linguaggio. Pienezza di epoche e confini. L’intero dire e dirsi che mette in moto codici totalmente umani. Fatti di inciampi e limiti ma capaci di ristrutturarci. Ristrutturarci. Ecco, questo è il punto. Ristrutturarci, ossia: provare a tornare ad essere pienamente (pienezza ho detto prima) umani. Questo io dico essere Orienti di Elio Grasso.

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Elio Grasso

Silvia Comoglio

COME COLUI CHE TEME E CHIAMA. Nanni Cagnone

*I testi sono tratti da: Nanni Cagnone, Come colui che teme e chiama, Giometti & Antonello, Macerata, 2023.

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Chi è insensibile ai valori percettivi del testo – ritmo, dispositio, torsioni sintattiche, imprese ellittiche, slogature della lingua, transizioni pronominali (quell’oscillare che forza dialogicamente l’inevitabile monologo) -, stenterà a riconoscere il pensiero che da’ fondamento alle figure; le oscurità in cui si sente avvolto sono altrettante complessità, favorite dal ricever cosa estranea entro gli atti dello scrivere, invece di metter in versi pensieri precedenti, attività parafrastica e divulgativa: il genere poetico in luogo della poesia ch’è insuperata scomodità della logica, e congenitamente ostile.

Dalla premessa al libro, Chiarimento.

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La novantacinque poesie di questa raccolta (che inizia con La prima, seguita da Dopo la prima fino a Dopo la novantaquattresima per terminare con L’ultima), testimoniano la scomodità di una poesia ostile alla complicità con il linguaggio e risoluta ad essere “lingua eventuale, sottratta all’uso”, lingua di percezioni arcaiche (“Parlerò con te / quando, / non superfluo, / sarai solo”), lingua sospinta da sogni e temporali, sempre imminente, esitante a definirsi nei confini della singola poesia (“Altamente, in volo, / stride la loro lingua, / i lunghi studi / sembrano lontani”), lingua, infine, che ci richiama al sacro, elementare disordine e ci trova inermi, felici, accoglienti, sommersi (“E io / sfoglio il libro / dei morti / come colui che / teme e chiama”), lingua che ancora vorrà essere perché niente può fermare il flusso del dire generoso, ininterrotto, radiante, che espone la poesia ad essere terreno i cui semi fecondi ci impongono complicità con una creazione ellittica che avviene senza io e senza autore, in una nebbia dove le parole sono libere di agire fuori e dentro i limiti del pensiero (“Errabondi siamo stanchi”) (“Ora sono fra i miei, / degno d’esilio”). (M.E.)

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Dopo la nona

Non hanno senso

gli inni, i malvagi

imperversano

gli altri si curvano,

nessuno da lodare.

Primitive, ingloriose

servitù, polvere

di esclamazioni di luce,

e noi senza dolcezza —

noi agonia.

Ed io

sfoglio il libro

dei morti

come colui che

teme e chiama.

*

Dopo la cinquantesima

Qualcos’altro,

ho saputo, ci manca:

la discrezione.

Ma sarebbe opacità

scansata esperienza

nascosto pugnale.

Quel che si tace

è canna in acqua,

distorto si guasta.

Non puoi sottrarti

qualcosa ti chiama,

né cautamente

avviarti a morire —

a precipizio invece,

e tesa oltremodo

la fune. Di tue

migliori parole,

chiedi osservanza.

*

Dopo la sessantacinquesima

Amorosi dell’aspetto,

non si lasciò il mondo

a sue rovine.

L’avvenenza

non incantò

Sokràtes,

anche noi

a seguirne l’augurio

fummo pronti.

Ma non erano che

sguardi indiscutibili,

perentorie anatomie.

Chiamavano, con

l’autorità di lor fattezze,

oltre le quali

qualcosa di statico.

Si voleva avvenire

ma — vinti dal vedere —

senza moto,

avendo da principio

separato il viso

da quell’aria di viso

che a una donna

può inneggiare.

SU POESIA E FILOSOFIA. Rubina Giorgi

Su poesia e filosofia*

Serigrafia di Paola Pezzi, realizzata per il libro di Rubina Giorgi Una vita imperfetta, Brescia, L’obliquo, 1992.

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C’è possibilità, per letteratura e filosofia – se vogliamo ora guardare a ciò che hanno davanti a loro –, che ci si trovi al cospetto di una situazione mitica, nella probabilità di una «nuova mitologia», dove il «mitico» sarebbe offerto dal chiaro processo del finire umanocentrico; un finire nel quale tutto muta dell’ente che è in questione, l’uomo, così che la metamorfosi ecco richiami il mitico. Un mitico della fine, come c’è un mitico degli inizi – e sarebbe erroneo pensare che «mitico» vi sia soltanto agli inizi, sarebbe come ritenere che l’iniziale sia il «primitivo», che il mitico sia il «primitivo». Forse piuttosto il mitico è delle situazioni estreme, così del primordiale e così del finale – per non soffermarci ora sul fatto che primordiale e finale si implicano anche. E se ciò vale, il mitico è del simbolico (ma non era di questo che volevo parlare), essendo il SYMBOLON ciò che integra, completa, dunque estremizza, situazioni eventi figure fatti, lasciando vedere, o intravedere, il RESTO, i possibili. E forse il symbolon c’entra anche perché il letterario e il filosofico, se in qualche modo debbono affrontare il loro perpetuo affrontarsi, debbono farlo in qualcosa che va oltre di loro, e direi nella loro estremizzazione ancora (di volta in volta) vuota e sempre pronta: nel symbolon appunto.

Se il Symbolon è il contenitore – che contiene e il contenibile e l’incontenibile, e l’“uno” e l’“altro”, e il qui e l’altrove e che è per essere rotto e, quando si rompe, mostra tutto, ed è come se non ci fosse così estremizzando se stesso, energia potenza e sorgente calore pre-creante (pro-creante) della mente –, l’estremità di situazione introduce nelle potenzialità dei modi figuranti esprimenti, le tiene aperte e mobili: su che si stanno misurando e si misureranno letteratura e filosofia? Per ciò che precede, sul mutare della fine (proprio della fine), ossia su un nuovo De rerum natura credo. Una creazione, una mitologia, in scrittura che forse è già in corso, che incombe su di noi, che ci contiene e ci scrive, un poema-sistema del mondo, non un’opera individuale, ad una moltitudine aperta di voci, che dice canta e scrive anche chi non scrive, per poco che in qualche modo canti.

Non è vero che poesia e filosofia hanno sempre bisogno di rapportarsi a inizi e fini, dunque di agire su situazioni estremizzate? Ciò è troppo vago, non ci dà la figura dei loro percorsi?

Vago per vago soggiungo un’altra cosa vaga: non potrebbe essere il pensiero della “complessità”, sue estensioni e radici filosofico-poetiche, date le funzioni globalizzanti del symbolon, ad indicare prossimo-futuri cammini per poesia e filosofia?

* Estratto da una lettera a Giuseppe Zuccarino, datata «Salerno, 7 novembre 1990». Il titolo è redazionale.

Rubina Giorgi

IN SOGNO OGNI NOTTE. Nadežda, Osip

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22 ottobre 1938

*Osja, amico mio lontano! Caro, non ho parole per questa lettera che forse non leggerai mai. La affido allo spazio. Forse tu tornerai e io non ci sarò più. Allora questo sarà l’ultimo ricordo di me.

Osjusa, come è stata felice la nostra vita. Le nostre liti, le nostre baruffe, i nostri giochi, il nostro amore. Adesso non guardo nemmeno più il cielo. A chi mostrare le nuvole che scopro? Ricordi i nostri poveri giochi nelle nostre case randage, le nostre tende da nomadi? Ricordi com’è buono il pane che si trova per miracolo e che si mangia in due? E l’ultimo inverno a Voronez. La nostra felice povertà, le poesie. Ricordi, uscimmo dai bagni pubblici, comprammo uova o salame. Passò un carro col fieno. Faceva ancora freddo e io tremavo nella mia giacca (è il nostro destino, ora so che freddo soffri tu). E quel giorno mi è rimasto impresso: ho visto, chiaro fino al dolore, che quell’inverno, quei giorni, quelle sventure erano la migliore e ultima felicità che ci toccava in sorte,

Ogni mio pensiero è per te. Ogni lacrima ogni sorriso è per te. Benedico ogni giorno e ogni ora della nostra amara vita, mio amico, mio compagno, mia guida… Ci scontravano come cagnolini ciechi, e stavamo bene. E la tua povera testa delirante, e tutta la follia nella quale abbiamo consumato i nostri giorni. Com’eravamo felici, e come l’abbiamo saputo sempre, che quella era la vera felicità.

La vita è lunga. Deve essere difficile e lungo morire da solo, da sola. Possibile che proprio a noi inseparabili dovesse avvenire tutto questo? Noi cagnolini, tu angelo, ce lo siamo meritato? E tutto va avanti. E non so nulla. Ma so tutto e ogni tuo giorno, ogni tua ora mi sono visibili e chiari come nel delirio. Mi sei comparso in sogno ogni notte e io continuavo a chiederti cos’era successo e tu non rispondevi.

L’ultimo sogno: in uno sporco buffet di uno sporco albergo compro del cibo. Sono con me degli uomini completamente estranei, e dopo aver pagato capisco che non so dove portare quel ben di Dio perché non so dove sei tu. Quando mi sono svegliato ho detto a Sura: «Osja è morto». Non so se sei vivo, ma da quel giorno ho perso ogni tua traccia. Non so dove sei. Se mi senti. Se sai quanto ti amo. Non ho fatto in tempo a dirti quanto ti amo. E non so dirlo nemmeno adesso. Dico solo: per te, per te… Sono io, Nadja. Tu dove sei?

*Il testo di Nadežda Jakovlevna Mandel’štam è autentico.

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(forse settembre 1938)

Nadežda,

questa lettera non ti arriverà, vita mia, ma la scrivo perché il fuoco è acceso, fuori dalla baracca 11, e posso muovere ancora le dita senza crampi, un mozzicone di matita va su questo foglietto, trovato fra un cranio e un’uniforme, ecco tre parole a dirti che ti amo, senza le voci rauche dei compagni, senza l’affanno del pane, come unica necessità solo scrivere il tuo nome, Nadežda, i miei versi tu li ricordi a memoria, li trascrivevi, dopo le mille conversazioni notturne, nel lugubre freddo delle nostre notti, meglio che tu non mi veda ora, le mie poesie sono assenti, sono i morti accanto alle fosse scavate, ti scrivo e bisbiglio – Chiare, fresche, dolci acque…-e canto Mozart, Non più andrai, farfallone amoroso…, canto e rido, penso a quando mi abbracciavi, va via il morso della fame, canto quel tono di violoncello, nella Commedia di Dante, quell’oscuro timbro, Nadežda, il conte Ugolino, breve pertugio dentro da la muda, ti scrivo e il fuoco non si è spento e il mondo è ancora la nostra foresta dormiente, non terra coatta, non campo duro, la vita è fiato e canto, canto e fiato, movimento, movimento, movimento, nessuno strappa le labbra che si muovono quando dicono Nadežda, Nadežda, Nadežda…

Sogno un cavaliere. Entra nella foresta, cavalca al piccolo trotto. Aspetta di combattere il drago e di inaugurare la battaglia. Ha sete e si ferma per abbeverare l’animale a una fonte non del tutto limpida. Del drago non c’è traccia, ma l’atmosfera resta minacciosa. Il cavaliere guarda davanti e dietro di sé, vede foresta ovunque, tutto è buio, di un buio minerale, come se l’aria fosse cristallo nero. Passa uno scudiero, a piedi, come vergognandosi di camminare. Il cavaliere gli chiede: «Dov’è il drago?». Lui fa una smorfia, cerca di scappare, ma il cavaliere scende da cavallo, lo ferma con la punta della lancia, gli ripete la domanda. E quello, con un riso beffardo: «Guàrdati in giro. Secondo te c’è bisogno di un drago, qui? Vedi se puoi aprirti un varco fra i rami». Il cavaliere si sente gelare. D’improvviso avverte le mani pesanti, le torce si confondono una dentro l’altra. Comincia a pensare che gli alberi della foresta potrebbero muoversi contro di lui, come nel Macbeth, e si sente in colpa per qualche delitto che non ricorda di avere commesso. Intanto, il cavallo è scomparso, la fonte disseccata, sui rami scuri è scesa l’inutile, densissima notte. L’uomo pensa che un giorno scriverà di tutto questo, se il caso vorrà che si salvi dalle tenebre, dagli indirizzi dei morti, dalle morte voci dei vivi nei gironi della Russia. Se il caso vorrà che io scampi, Nadežda, ti abbraccerò. Ma non s…

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Alla fine del suo libro, Le mie memorie, Nadežda Jakovlevna Nadežda Jakovlevna Mandel’štam trascrive la sua ultima lettera, scritta nell’ottobre del 1938 e mai arrivata al destinatario. Il 12 ottobre di quello stesso anno Osip è internato in un lager di transito presso Vladivostok, a Vtoraja Recka. Una lettera, vergata nella baracca numero 11, arriva a Mosca il 13 dicembre, indirizzata al fratello Aleksandr. Il poeta si spegne il 27 dello stesso mese in una delle baracche adibita a lazzaretto e sepolto in una fossa comune vicino al campo. Dall’inizio del 1939 corre notizia che Mandel’štam non sia più in vita e il 5 febbraio Nadežda Jakovlevna si vede restituire un vaglia postale inviato a Vladivostok con l’annotazione “A causa della morte del destinatario”.

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Il testo è tratto da: Lucetta Frisa, Marco Ercolani, Furto d’anima. Le immagini sono di Francesco Balsamo e di Wols.

PER “NOTHING”. Caterina Galizia

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Sembra il più caotico, il più disorientante dei libri che ho letto finora di questo autore e invece paradossalmente, a ben vedere, è il più centrato su un tema che aleggia attorno ai versi esemplari (l’emergenza dei sistemi, p.85)

non so che pensare, come fare quello che dico si disfa mentre lo dico

E (per una nuova cultura, p.84):

Lo slittamento del corpo della lingua una sorta di vestito chiamato a servire

l’architrave fondativa si dimentica degli umani estensione di predicati.”

Qui si tratta di capire perché questo libro descriva una lingua così in crisi. Per quello che so di Coviello, il linguaggio di cui parla dovrebbe essere quello mutuato dall’amato Lacan, a somiglianza del quale è strutturato l’inconscio, lo stesso di cui l’animale-uomo è preda ma che lo fonda come soggetto. Ma allora perché “una sorta di vestito”? Del vestito, infatti, se si vuole, ci si può liberare e restare nudi, ma del linguaggio no perché è proprio quello che ci struttura. E’ di qui che viene il titolo che, se ci si pensa, è ben tragico? Questo “nulla” che lui sente sia in quello che “si disfa mentre lo dici”, sia nel corpo che rimane senza protezione quando le parole, dentro le quali si nasconde il poeta, sono venute meno?

A questa domanda può rispondere solamente l’autore. Michelangelo gentilmente mi spiega.

Nothing è quanto rimane dopo una vita spesa a scorrazzare in lungo e in largo nel linguaggio. E’ una sorta di coscienza-paura; consegue alla quotidiana aggressione che ognuno di noi subisce da ammassi verbali ad alta inconsistenza per cui (cito le sue parole) ‘la lingua non è più un patrimonio del soggetto’. Ciò genera una frattura ‘è la frattura è dentro al silenzio della lingua degli altri’’”.

La lingua degli altri. In effetti gran parte di questo lavoro si sviluppa come un collage di frasi, registrate nel momento in cui raggiungono l’autore dall’esterno virtuale o reale. Sembrerebbe una resa provocatoriamente consapevole al “luogo comune”; essa, però, viene saltuariamente interrotta da lampi di autenticità che Coviello solitamente concentra in brevi frasi o in uno o due versi in cui passa i suoi messaggi di sempre: la poesia come “conoscenza di ciò che uno non sa di sé”

Stiamo vivendo a proprio piacimento” p.83

o solo desiderio o solo l’infinito” p. 82

murati vivi passatempi sociali” p.78

ho pensato di passare di fronte

cercando il fenomeno il ciò che riluce.” p. 75

andarsene così con passi d’aria” p. 55

ciascuno si ritaglia nella sfuggente

parola e così via.” p. 53

oppure la poesia come “gioco di dissacrazione”:

attrae di più uno che pensa?” p.8

bellezza culo estremo” p.7

questionando conquistava” p.13

coniugi amici due mali” p. 15

animo elevato il cul combatte” p.16

sarà l’egoismo principio universale?” p.17

E, soprattutto, la poesia come ricerca. Molte sono le proposte che l’autore ha presentato nel corso della sua opera. Qui, nella “ Via crucis”, invita a decodificare un idioma escogitato ex novo per ironizzare sulla prosopopea della lingua “colta” per antonomasia (il latino). In “Cuore battaglia” richiede complicità e tolleranza al lettore che, trovandosi davanti ad un’assenza totale di punteggiatura, deve per forza prefigurarsela se vuole dare allo scritto un senso (con la spina nel fianco del dubbio di stravolgere completamente il pensiero di chi scrive).

Comunque, mentre in passato Michelangelo mi è sempre apparso come il grande giocoliere dei punti di vista che riesce a far convivere anche se (o soprattutto perché) antitetici, qui mi sembra inesorabilmente catturato da questo unico tema: lo strapotere della parola che, dopo averli fondati, si dimentica degli umani. Gli umani, però, non possono dimenticarsi di lei.

Parlando” dice Coviello, “bellezza morsi”. (Amore battaglia, p.9)

E ancora:

“ …e ora corri dove più ti piace voce alterata cos’è mai la bellezza? è il rivedersi presto logoro nome che patimmo un giorno”(Cuore battaglia p.30).

Ma se ti piacesse di me che sono apparecchiata cos’è la bellezza? Troppo sarebbe la voglia in cui mi trasformai ti porto in bocca come una canzone.” (p.31)

Cos’è mai la bellezza? Senza fare altri giri tenerla segreta o buttarla fuori farsi male aiutarla in ogni modo.” (p..33)

“…cos’è mai la bellezza? Pelle senza odore colta da corpo e coltivata bianca e perfetta su tutta la notte fin quando l’alba avida e aspra senza più profumi immensa corre insieme a lei” (p. 34)

a te che porti il cielo nello sguardo e parole profumate dell’amante lontano cos’è mai la bellezza?” (p. 35)

cos’è mai la bellezza?…lettere e quaderni dove piove in superficie e tutto passa come nave al tramonto queste parole quiete sul cuore a sua insaputa” (p.38)

Tollerare questa commistione che abita la parola da una parte alienante e dall’altra “dolce ragione sola” della vita è l’obiettivo di questo testo che si accolla coraggiosamente la fatica di esprimere, ma nello stesso momento mettere in dubbio, la propria fede nella lingua, di sfidare per lei vertiginose arrampicate sulle pareti dell’immaginario, di arrovellarsi nella ricerca dell’esemplare più convincente tra i termini noti e i luoghi comuni e nell’invenzione per lui di un senso che gli consenta ribellione e rinascita.

Michelangelo Coviello

POICHE’ L’UOMO E’ L’ALBERO DEL CAMPO. Natan Zach

(traduzione di Ariel Rathaus)

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Natan Zach

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כִּי הָאָדָם עֵץ הַשָּׂדֶה

כִּי הָאָדָם עֵץ הַשָּׂדֶה

כְּמוֹ הָאָדָם גַּם הָעֵץ צוֹמֵחַ
כְּמוֹ הָעֵץ הָאָדָם נִגְדָּע
וַאֲנִי לֹא יוֹדֵעַ
אֵיפֹה הָיִיתִי וְאֵיפֹה אֶהְיֶה
כְּמוֹ עֵץ הַשָּׂדֶה

כִּי הָאָדָם עֵץ הַשָּׂדֶה
כְּמוֹ הָעֵץ הוּא שׁוֹאֵף לְמַעְלָה
כְּמוֹ הָאָדָם הוּא נִשְׂרָף בָּאֵשׁ
וַאֲנִי לֹא יוֹדֵעַ
אֵיפֹה הָיִיתִי וְאֵיפֹה אֶהְיֶה
כְּמוֹ עֵץ הַשָּׂדֶה

כִּי הָאָדָם עֵץ הַשָּׂדֶה
כְּמוֹ הָעֵץ הוּא צָמֵא לְמַיִם
כְּמוֹ הָאָדָם הוּא נִשְׁאָר צָמֵא
וַאֲנִי לֹא יוֹדֵעַ
אֵיפֹה הָיִיתִי וְאֵיפֹה אֶהְיֶה
כְּמוֹ עֵץ הַשָּׂדֶה

אָהַבְתִּי וְגַם שָׂנֵאתִי
טָעַמְתִּי מִזֶּה וּמִזֶּה
קָבְרוּ אוֹתִי בְּחֶלְקָה שֶׁל עָפָר
וּמַר לִי מַר לִי בַּפֶּה
כְּמוֹ עֵץ הַשָּׂדֶה
כְּמוֹ עֵץ הַשָּׂדֶה

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POICHE’ l’UOMO E’ L’ALBERO DEL CAMPO

Poiché l’uomo è l’albero del campo;
come l’albero l’uomo cresce.
Come l’uomo, anche l’albero pone le sue radici,
ed io certamente non so
dove sono stato e dove sarò,
come l’albero del campo.

Poiché l’uomo è l’albero del campo;
come l’albero, egli tende verso l’alto.
Come l’uomo, viene bruciato nel fuoco,
ed io certamente non so
dove sono stato e dove sarò,
come l’albero del campo.

Poiché l’uomo è l’albero del campo;
come l’albero, è assetato d’acqua.
Come l’uomo, rimane assetato,
ed io certamente non so
dove sono stato e dove sarò,
come l’albero del campo.

Ho amato e ho odiato;
ho provato questo e quello;
sono stato sepolto in un pezzo di terra;
E c’è amaro, amaro nella mia bocca,
come l’albero del campo;
come l’albero del campo.

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TRE POESIE. Alfonso Guida

Annibale Carracci

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BERCEUSE

(aragonese)

Parola, presenza rimasta. Amore

nuziale né promesso né giurato,

casuale e libero. O parola schiva,

che mi ha amato in silenzio, senza perdermi,

tenendomi d’occhio, muta e fedele

fino al mio accorgimento. Non esiste

la parola creata quando scrivo.

Sono io la voce che la parola crea.

Si è insediata all’inizio del distacco

dall’informe, ha assunto la vastità

della vita, ci siamo coniugati

senza volerlo, come un’ape sceglie,

nel campo, il fiore in cui entrerà, sposandolo.

Rembrandt van Rjin

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LOESS

Le tue viscere assonnate, il diverbio,

quello che posso amare, senza tremito,

tramando un modo di ospitarmi e farmi

compagnia. Il cerchio ha chiuso le sue forze

di rotazione in una sottile linea

sradicata da una figura piana.

Non c’è tempo, nessun tempo argomenta

le mancanze e le manovre, il morire

di volta in volta aggrappati a un uncino

di ferro, uno squartamento, ricordo

Carracci, Rembrandt, Bacon, macchiaioli

del buio e del sangue nel punto esatto

del suo fluire, quando si fa tenebra

minerale, minuta corrente, alba.

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ZERO DI RIPORTO

Sono in gabbia e mi congiuri, dolore.

Prigione sempre chiusa. Né ora d’aria

neppure dialogo e lavoro. Puro

stare stralunato e stantio. Estuario

difettoso del mio estro, come il sacro

perdurarmi attraverso il chiaro sonno

del bambino dal pensiero impietrito,

dal cappotto di feltro, verde scuro.

L’attimo è questo vedermi negato

dopo, nel dopo, avvenuto il delitto,

questo starmene, isola insondata,

col puro stupore che mi concede

l’onda appena increspata, l’inattesa

figura che domina il dormiveglia.

Chaïm Soutine,

TESTA FA LI TESTI. Per Filippo Bentivegna

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Lettera apocrifa di Filippo Bentivegna, trovata sotterrata sotto una zolla del suo giardino di Sciacca.

Sciacca, 1958.

E lo so, lo so che sono matto, il matto scultore di Sciacca. Io, Filippo Bentivegna.

Maria? E chi è Maria? Di cosa parli? Ti ho fatto entrare nella mia casa, brutto scemo, e mi parli di un fantasma? Vergogna. Vergogna. Non so più niente di Maria. Non so più niente dell’America da anni e anni. Io sono Filippo de li testi, scultore. Il mio pensiero è le mie teste: l’ho conservato per il mondo, tutto dentro le teste. Non ho lasciato niente fuori. Voi uomini vivete nell’inferno. Io raccolgo nel mio paradiso le mie teste. Più di tremila. Intere piramidi. Montagne su montagne. Non ne regalo una. Le tengo come un tesoro. Sono un tipo avaro, pericoloso, dicono strano. Dopo quella botta in testa vivo solo nel mio giardino. Qui, con montagne di teste. La chiave dell’incanto ce l’ho io, è in cima alla cima della testa più alta. Pietre, al mio servizio. E mandorli, ulivi – tutti al mio servizio. Pietre tenere, dure. Intaglio e scolpisco. Chiamami Eccellenza. Chi sarebbe Maria? la mia donna d’America? Quella che stava col tipo che mi ha massacrato? So tutto, dell’America. Tutto. Ho dipinto tutti i suoi grattacieli, con tanti pesci sotto.

Vieni con me. Gli uomini respirano veloci: finiranno per perdersi. Le statue no. Se ne stanno ferme, come schiave. Io lo batterò, il tempo, quel porco. Rovina e corrompe: è ora di finirla. Sono nato quando scoccava mezzogiorno, morrò quando scoccherà mezzogiorno. Sole sulla testa. Sole sulle teste.

Non conosco che i volti che faccio. Devono essere qui. Teste da toccare. Ho altre vie di scampo? Il mondo scorre, sparisce. Io lo fermo qui, fra pietre, pietruzze, sassolini. Qui posso. Se avessi più forza non riempirei solo un giardino ma due, tre, mille giardini, una regione, una nazione, la terra, e pianeti, pianeti, e io che domino tutti, io l’Eccellenza delle mie Pietre… Lo sai cosa dicono di me?

-Ecco il signore delle caverne, il matto!

-Sindrome ciclotimica!

-Esaltazione maniacale!

-Sulle sue carte non c’è la parola «marinaio».

-Inabile, c’è scritto.

-Scemo.

-È indifferente al denaro.

-Non vende le sue teste neanche a peso d’oro.

Stupidi, stupidi uomini!

Le teste umane non sono solide. Le ossa si disfano, il cervello si corrompe. Si diventa deboli, scemi. Non sarà così per le mie. Loro sono salde, eterne. Le coloro, a volte. Un po’ di rosa, un po’ di blu. Belle, calme. Di legno e di pietra. Ho riempito tutto il giardino. Sono io il guardiano dell’eternità. Io sono immortale. Chiamami Dio. Ora la creazione è a posto. Cosa c’entra Maria? Un po’ d’ordine, accidenti! Tutti questi tipi disfatti dalla morte, cambiati, distrutti. Non si poteva andare avanti così. Ora eccole qua: teste vive, che non saranno mai polvere. Teste che un po’ dormono sempre. Occhi come cerchi. Semichiusi. Eccole nel sonno. Teste di pietra. Davanti e di dietro. Non c’è una faccia, non c’è un culo. L’uomo è uomo.

Ecco il mio tesoro. Altro che Maria!

Lo so cosa dicono di me:

-Scava cunicoli nel giardino.

-Scolpisce mostri.

-Dipinge i capelli dei mostri rosa o azzurro violento.

-Non fa altro dal 1919.

-Noce o betulla? No, ama l’ulivo.

-Non si appoggia al bastone. Lo usa come scettro, il re di Sciacca.

-Ci chiama «dignitari di Sua Eccellenza».

-Parla storpiando gli accenti, con frasi incomprensibili.

-A cena pretende dolci strani, con fichi secchi a forma di testa.

E certo! Io mangio pietre. Ieri mattina, martedì grasso, tutta Sciacca mi ha visto. Immobile sul carrozzone che traversava il paese, in compagnia della mia maschera di cartapesta, disegnata nell’atto di scolpire teste. Ridevo come uno scemo guardando il mio doppio di cartone. La folla mi applaudiva. Era il desiderio dei miei servi: che apparissi, in pieno carnevale, come il folle scultore di Sciacca. Esibirmi nel carnevale come quegli idioti che si mettono teste da mangiafuoco o da fata turchina. Hanno riso di gusto, gli stupidi.

Il mio doppio, sì. Non invento niente. Non so scrivere ma ascolto. Sento la radio. So mille cose. So del doppio, di Dio, di Picasso. Cos’è che mi leggi? Chi è che l’ha scritto? Dài, leggi, fammi sentire! E’ un articolo? Un articolo su di me? «Filippo Bentivegna fa piramidi di facce. Ma non assomigliano ai lavori di Fernando Nanetti, che riempì di graffiti le pareti del manicomio di Volterra. Bentivegna ha un progetto preciso: vuole esibire la sua bizzarria, come il principe di Palagonìa i suoi mostri. L’isolamento in cui ha lavorato non ci impedisce di considerarlo, a tutti gli effetti, uno scultore dominato dall’idea fissa della testa umana. È proprio così diverso dal folle scultore di Sciacca un artista contemporaneo come Alberto Giacometti, di cui Bentivegna non avrà mai sentito neppure parlare? Giacometti, le sue teste le mette a confronto con l’aria e la strada. Bentivegna le ammucchia ossessivamente nel giardino, fino a farne un tempio involontario». Chi lo firma? Gillo Dorfles?

Un tempio, già. Io sono vecchio, sì. Vecchio.

Io sì. Le mie teste, no.

Ma da domani, se mi restano le forze, riprendo a scolpire. Non ci sarà un solo momento di sosta. La creazione non è finita. Bisogna fare un po’ d’ordine, nelle tribù di questo pianeta. Tutte queste montagne intorno a me. Teste piccole, appena nate. Teste di re. Teste colorate, seccate, dormienti. Teste sul davanti dei sassi. Teste sul retro. Teste sempre. Quale il dritto? Quale il rovescio? Da nessuna parte. Qui ammucchio incubi ovunque. Ce n’è una che ho infilato dentro un albero di noce, nel cuore del suo legno: è rosata, piccolissima.

Maria? Torna tu, da Maria! Sarà vecchia vecchia, brutta, bruttissima. Sì, da giovane lavoravo a Boston in una linea ferroviaria. Un uomo mi ha colpito, qui, sulla fronte. Ci siamo picchiati per lei. Ma le sono grato. L’amavo e quell’uomo mi ha rotto la testa perché l’amavo e così ho cominciato a riparare la mia testa rotta con le mie teste eterne. Grande, grande fortuna. Guarda laggiù. Guarda lassù. Séntile, le mie storie. Séntile tutte.

Ero bello per Maria? Davvero? Ero proprio bello? I matti, sai, diventano eroi se li ricordi, se non lo scordi…

Testa fa li testi.

Testa fa li testi.

Testa fa li…