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Il testo è tratto dalla raccolta inedita Semina e scavo.
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Scrivere per l’inizio di un anno, per questi pochi giorni.
Tutto traballa. Cosa fare, dove andare. Niente attese.
Niente può aspettare, Pochi resti. Darmi un altro sfondo.
Altre voci. Voler raccontare. Come dire, non solo la postura,
anche il tono, le modulazioni.
La voce. Volere la terza persona, tendere alla prima.
Come sempre è stato. Una lettera.
Oscillare.
Se fossi nato a Berlino.
Le idee.
Fumi, fumi. Per sobbalzi.
Ti fidi, a tratti, di te.
Giorni di squarci. Nell’aria, per strada.
La farmacia, il cielo a piombo.
Tutto grigio, anche il silenzio.
Mi sono svegliato perché ruotavo.
È il moto abituale.
Come te. Il vortice, anche nel sonno.
Essere il chiodo che gira velocemente o lo sguardo che vede la spirale.
Tentare un avanzamento. Come perdere le cose
che si fissano a lungo. Scrivere, allora.
diventa affanno, avidità.
Non lasciare più crepe tra vivere e scrivere.
Voler dire tutto. Ma pesa ciò che sfugge, pesa ciò che se ne va.
E chi va via lascia il posto vuoto.
È l’assenza che crea la mancanza.
Il cuore è chi non può rispondere.
Il testimone è la parola che non può essere detta.
Quando porgiamo la parola all’assenza, scatta l’immaginazione.
La parte comune si offre per farsi svolgere come un compito.
È un passaggio sottile.
È il punto in cui comincia il buio. Che è sempre una galleria.
La testa pesante. Non succede niente.
Rarefatti i movimenti interiori, raggrumato il pensiero.
Ci si proietta in un altro luogo. Il chiodo vortica, la macchina inceppata.
Un errore antico quanto la volontà che ne regge il flusso,
quanto la nolontà che ne allontana l’approdo.
È il desiderio come isola o cammino continuamente fermo al suo inizio.
È una caduta, un meccanismo interno.
Questo congegno ci avvicina alla morte.
Avere tempo, il tempo. Aspettarsi.
Fermare il ramo prima che si stacchi, allontanarsi prima di essere colpiti.
Dall’esterno capisci dove si convoglia. Indovini il binario e riconosci la direzione. Ci sei già stato. Riservi un margine all’imprevisto. Ma il verbo è coattivo e l’azione compulsiva.
Si esce. Domenica. Ore 8:00.
Aria gelida. Ieri, la pioggia. C’è un colore diffuso di aghi, di periferia. Gli alberi morti. Nessuno. Le campane. La piazza vuota e più smisurata. Troppe volte: entrare e uscire. Senza vedersi. Voler essere: gli altri. Lo slancio. Per appartenere. Il modo è diverso. E cambia la posizione, il posto che abbiamo occupato.
Gettare le ombre in cui avviene il racconto.
Far parlare (far perdere) le voci.
Poche parole. Luogo, tempo.
Questo vedersi nella propria fine. Nelle cose che finiscono.
La fame, la mente, la misura.
Ci si schiaccia contro qualcosa di invalicabile come un fondo.
Si spinge verso il basso. Con la schiena. E in questo sforzo è il colpo che fredda.
Qualcosa viene meno. Qualcosa di mortale. Non si può dire.
Non è esattamente un culmine. Non è la punta che si spezza.
Prima di tornare indietro, vediamo un corpo tramortito che si abbandona contro l’abisso.
La scena si ripete. (Segmenti del cammino). La caduta ha molte privazioni.
Per ogni cosa tolta, si cade. La caduta è una risposta.
Fingere che la sedia
sia la panchina di una sala d’aspetto. E qui fiorisce un’eco, un rumore di passi.
La solitudine è appena soleggiata. Qualche ombra ancora si muove e cerca una poltrona.
Per scrivere, devo indietreggiare.
Non sono io a scegliere. Le parole, lente, devono riempirsi di polvere
prima di farsi presenza. Per dire: eccomi. Il senso sospeso, il senso
che ti invita ad andargli incontro perché vuole una fine.
Aprire, chiudere. Ti aspetti questo.