IL FUNZIONAMENTO MENTALE. Alfonso Guida

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Il testo è tratto dalla raccolta inedita Semina e scavo.

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Scrivere per l’inizio di un anno, per questi pochi giorni.

Tutto traballa. Cosa fare, dove andare. Niente attese.

Niente può aspettare, Pochi resti. Darmi un altro sfondo.

Altre voci. Voler raccontare. Come dire, non solo la postura,

anche il tono, le modulazioni.

La voce. Volere la terza persona, tendere alla prima.

Come sempre è stato. Una lettera.

Oscillare.

Se fossi nato a Berlino.

Le idee.

Fumi, fumi. Per sobbalzi.

Ti fidi, a tratti, di te.

Giorni di squarci. Nell’aria, per strada.

La farmacia, il cielo a piombo.

Tutto grigio, anche il silenzio.

Mi sono svegliato perché ruotavo.

È il moto abituale.

Come te. Il vortice, anche nel sonno.

Essere il chiodo che gira velocemente o lo sguardo che vede la spirale.

Tentare un avanzamento. Come perdere le cose

che si fissano a lungo. Scrivere, allora.

diventa affanno, avidità.

Non lasciare più crepe tra vivere e scrivere.

Voler dire tutto. Ma pesa ciò che sfugge, pesa ciò che se ne va.

E chi va via lascia il posto vuoto.

È l’assenza che crea la mancanza.

Il cuore è chi non può rispondere.

Il testimone è la parola che non può essere detta.

Quando porgiamo la parola all’assenza, scatta l’immaginazione.

La parte comune si offre per farsi svolgere come un compito.

È un passaggio sottile.

È il punto in cui comincia il buio. Che è sempre una galleria.

La testa pesante. Non succede niente.

Rarefatti i movimenti interiori, raggrumato il pensiero.

Ci si proietta in un altro luogo. Il chiodo vortica, la macchina inceppata.

Un errore antico quanto la volontà che ne regge il flusso,

quanto la nolontà che ne allontana l’approdo.

È il desiderio come isola o cammino continuamente fermo al suo inizio.

È una caduta, un meccanismo interno.

Questo congegno ci avvicina alla morte.

Avere tempo, il tempo. Aspettarsi.

Fermare il ramo prima che si stacchi, allontanarsi prima di essere colpiti.

Dall’esterno capisci dove si convoglia. Indovini il binario e riconosci la direzione. Ci sei già stato. Riservi un margine all’imprevisto. Ma il verbo è coattivo e l’azione compulsiva.

Si esce. Domenica. Ore 8:00.

Aria gelida. Ieri, la pioggia. C’è un colore diffuso di aghi, di periferia. Gli alberi morti. Nessuno. Le campane. La piazza vuota e più smisurata. Troppe volte: entrare e uscire. Senza vedersi. Voler essere: gli altri. Lo slancio. Per appartenere. Il modo è diverso. E cambia la posizione, il posto che abbiamo occupato.

Gettare le ombre in cui avviene il racconto.

Far parlare (far perdere) le voci.

Poche parole. Luogo, tempo.

Questo vedersi nella propria fine. Nelle cose che finiscono.

La fame, la mente, la misura.

Ci si schiaccia contro qualcosa di invalicabile come un fondo.

Si spinge verso il basso. Con la schiena. E in questo sforzo è il colpo che fredda.

Qualcosa viene meno. Qualcosa di mortale. Non si può dire.

Non è esattamente un culmine. Non è la punta che si spezza.

Prima di tornare indietro, vediamo un corpo tramortito che si abbandona contro l’abisso.

La scena si ripete. (Segmenti del cammino). La caduta ha molte privazioni.

Per ogni cosa tolta, si cade. La caduta è una risposta.

Fingere che la sedia

sia la panchina di una sala d’aspetto. E qui fiorisce un’eco, un rumore di passi.

La solitudine è appena soleggiata. Qualche ombra ancora si muove e cerca una poltrona.

Per scrivere, devo indietreggiare.

Non sono io a scegliere. Le parole, lente, devono riempirsi di polvere

prima di farsi presenza. Per dire: eccomi. Il senso sospeso, il senso

che ti invita ad andargli incontro perché vuole una fine.

Aprire, chiudere. Ti aspetti questo.

LIBERARSI DI SE’. Michel Thévoz

* Il testo è tratto da: Michel Thévoz, Les Écrits bruts. Le langage de la rupture, Éditions du Canoë.

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Non si scrive soltanto per formulare delle idee. Non solo per comunicare qualcosa ai lettori o influenzarli. E non necessariamente per uscire all’esterno o esprimere la propria sensibilità. Si scrive talvolta, e in un senso diverso, per liberarsi di sé, per avventurarsi fuori dalla sfera personale in uno spazio immaginario dove si disfano i poli dell’emittente e del destinatario dei messaggi. Il linguaggio, in quanto sistema convenzionale di comunicazione, è messo a dura prova. Senza quei fili tesi che tengono insieme l’io, il tu, l’egli, e che assicurano istanze individuali differenziate, il linguaggio va alla deriva e si agita, perdendo ora il senso ora la funzione.

Questo gioco di scrittura, che consiste nel manipolare le parole non come strumenti di comunicazione ma come sostanze magiche dagli effetti imprevedibili, è un gioco pericoloso, che mette in discussione il principio primo della socialità. Chi non ha tentato, fosse solo per il tempo di un sogno, di giocare all’apprendista stregone e mettere in gioco se stesso abbandonandosi al linguaggio piuttosto che servirsene? Ma l’istituzione esiste, per normalizzare questi détours, manifestarsi in maniera duratura e reintegrarli in una comunicazione di secondo grado chiamata “letteratura”. (trad. di M.E.)

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Michel Thévoz

IL CANE NERO. Fabio Marabotto

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Il cane nero, mostra fotografica virtuale di Fabio Marabotto, pensata per il blog “Scritture” e ospitata in queste pagine, ferisce per la coerenza del tema: la solitudine urbana. Paesaggi e figure sono consegnati a un malinconico abbandono. Il cane, il bambino, i vecchi, lo scheletro, la spiaggia, la scala, la tomba, la panchina, il vicolo, il mare, sono cifre di un alfabeto che declina la sua timida, triste sopravvivenza. Ma nessuna delle fotografie rivela un compiacimento estetico nell’inquadratura, al contrario svela la solida fierezza del soggetto per come si mostra all’occhio che guarda. “L’attraversamento”, in questo senso, è l’immagine più emblematica: difficile sottrarsi al senso di pesantezza imposto dall’inquadratura al corpo senile che avanza nell’incrocio, ma nell’andatura della donna c’è anche una risolutezza, un persistere del vivente, una determinazione che la spinge costantemente a incunearsi nel mondo, anche se questo è inadeguato, estraneo, ostile. E nell’immagine così come la vediamo questo sentimento trapela dai minimi dettagli. “Il cane nero” spinge lo spettatore a occuparsi del cane, a guardare lui e non l’acqua intorno, spazio ben più vasto, dove la sua sagoma di animale spicca con chiarezza. Fabio Marabotto si può definire fotografo realista? Sì, se restituiamo al termine “realismo” tutta la sua intensità, comprensiva del reale e del pensiero sul reale, e l’attenzione dell’artista ai maestri (italiani, europei, americani), che lo hanno nutrito. In “Solo trafitto” un vecchio percorre il vicolo di una cittadina francese e dal fitto dell’ombra, da cui emerge un menu e la sigla di un antico bistrot, scaturisce una striscia di luce che lo trafigge, lo restituisce alla nostra attenzione. Immagini, sempre, perché le immagini non possono morire e vanno sempre cercate: costellano, interrompono, completano, complicano il nostro vedere. Anche la vecchiaia, la solitudine, sono illuminazioni che negano l’oscurità assoluta. Georges Didi-Hubermann commenta certe rarissime fotografie scattate nei “sonderkommando” dei campi di concentramento affermando che, del dolore dei lager, non si può dire che è indicibile e, di conseguenza, tacerlo senza raffigurarlo: occorre sempre vedere, anche un solo frammento, un segno, a dire che la vita c’è o c’è stata e che potrebbe tornare. Nelle fotografie di Marabotto la presenza della vita è costante, anche nel dolore dei temi che evoca. “La solita discesa al mare” non è solo il corpo senile che scende i gradini appoggiandosi al bastone, non è solo il tempo dell’età ultima ma, alla sinistra dello spettatore un riflesso di ombre che inquadra una capanna, delle piante, un paesaggio in un chiarore di luce. Qui, come in altre foto di Fabio, emerge l’intelligenza dolente dell’artista e lo spirito solare dell’uomo.(M.E.)

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L’indifferenza

Il cane nero

alla finestra

arte presepiale

call me

il bambino che correva incontro alle onde

il mio mondo è la panchina

il peso dell’anguria

il re dei piccioni

il vecchio e il mare

la pausa

la solita discesa al mare

la venditrice di lupini

l’attesa

l’attraversamento

l’uomo sulla spiaggia

mamma con bambino

passeggiata pomeridiana

passo svelto

poco prima del menu turistico

ritorno a casa

solo e trafitto

sotto il ponte di Arles

una preghiera per Oscar Wilde

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Fabio Marabotto, nato a Savona, passato poi per Genova e Milano, dove ha frequentato per anni la professione del libraio. Fotografo da sempre per passione verso le immagini del mondo che abita, nel tempo ha esposto nei luoghi meno consoni alla fotografia se non per la partecipazione alla 54° esposizione biennale d’arte di Venezia nella sezione ligure. Molti i fotografi da lui amati perché molti sono i temi su cui si è confrontato, ma su tutti gli italiani Branzi e Migliori, per il realismo dei primi tempi, e Giacomelli per la capacità di narrazione fotografica; mentre ha sicuramente tratto ispirazione da molti grandi del passato e non come Paul Strand, Eduard Weston, Robert Franck, Stephen Shore, Sebastiäo Salgado e Michael Ackerman. Attualmente vive alla ricerca del tempo e del paesaggio perduto nel monferrato astigiano perché, per dirla con Ansel Adams, “La fotografia di paesaggio è la prova suprema del fotografo, e spesso la sua delusione suprema”. E’ presente su facebook come fmf e su instagram come fabiomarabottofoto.

BERT

Taccuini di Norma Jean

Arrivavo sempre in ritardo sul set. Clark era furioso, io ridevo. Lui mi rendeva meno insicura: era solido, famoso, scorbutico, era stato infelice. Ma adesso aspettava un figlio, sarebbe stato padre. Favoloso. Alla sua età, padre. Mi veniva voglia di tenerlo stretto, non per farci all’amore, ma così, per il calore che emanava dalla sua schiena, dalla sua nuca. Ed è morto. Uno sforzo di troppo sul set, il cavallo imbizzarrito, la polvere. Un infarto, a nemmeno sessant’anni. E io cosa ci faccio qui, se non esistono più uomini come Clark Gable? Dovrei vivere, io, Marilyn Monroe? Io, Norma Jean? Cosa ci sto a fare qui, il corpo sospeso in una bellezza che durerà qualche anno ancora? Penso a Bert, il ragazzo dolce e magnifico che mi scattò 2500 foto in 3 giorni all’Hotel Bel Air, a Los Angeles. Non mi diceva mai: spògliati; mi lasciava così, vestita, nuda, quasi nuda, con o senza foulards, cercava l’attimo giusto. Ne trovo 2500, di attimi, io nessuno.

Sono passate sei settimane da allora. Adesso nulla serve a nulla.

Spostàti, il titolo di quel film. Spostàti, tutti noi. Io, Clark, Montgomery.

Morti o morituri.

Andiamocene via tutti.

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Fotografie di Bert Stern, 1962,

L’ORAZIONE

Discorso sacro di Elio Aristide, oratore.

a A.C.

28 gennaio 149

Sono arrivato nel santuario di Asclepio, a Pergamo, con uno scopo preciso: guarire. Riconquistare la voce che è mia e che un’oscura malattia mi impedisce di usare. Il mondo aspetta con ansia i miei discorsi e io non lo deluderò: ma mi occorre tempo. Da quando sono malato la voce è un sospiro fioco, che mi esce a malapena dalla bocca. In un sogno di otto mesi fa, quando nasceva la prima luna d’autunno, mi è apparso Apollo: al dio chiedevo come comportarmi, e lui mi disse che, per guarire, avrei dovuto trascrivere tutti i miei sogni.

Così sono giunto a Pergamo, per adempiere a quel comando. Trascrivo ogni notte delle scene bizzarre: scale che si affollano di nani, corde che oscillano su macerie, pozzi da cui nascono fiori. Distinguo un sogno dall’altro con chiarezza, senza capire nulla. Ma ricordo bene – non so perché – quello di ieri notte: io sollevavo il braccio, tutto era silenzio attorno a me, molte persone si preparavano ad ascoltarmi, radunate nella piazza: in quel momento un nugolo di cavallette scendeva dal cielo e disperdeva la folla. Il sogno continuava. Io sollevavo ancora il braccio ma questa volta era uno scroscio di pioggia a disperdere la gente. Poi vidi dei lampi, udii una frana, scrutai un incendio, soffrii un’epidemia. Eventi si susseguirono a eventi, sogno dopo sogno. Ogni volta ero cosciente che, nel momento in cui avessi iniziato a parlare, tutti mi avrebbero udito, stregati dalla mia voce, e le catastrofi sarebbero cessate.

Questa notte è diverso: sto sognando il sogno che mi guarirà, ne sono certo. Sono a Focea e il Dio è con me. Sollevo il braccio, parlo con voce chiara, intono il discorso. La voce mi esce fluente dalle labbra. A pochi metri da me, rannicchiato sopra un sasso, un vecchissimo saggio mi sussurra che non è più necessario. «L’uomo ha smesso di esistere – bisbiglia. «e quanto rimane di lui sono dei sassi incisi dalla sua mano, quelli dove vedi dipinte delle bocche spalancate. Non ti affannare più».

Smetto di sognare e lascio Pergamo. E’ inutile restare ancora nel santuario di Asclepio. Farò l’oratore, come mi ero augurato, e le mie parole scorreranno nel mondo, ma potrò mai dimenticare l’esatto significato del mio ultimo sogno?

Publio Elio Aristide

“RIBILANCIARE PER SOTTRAZIONE”. Elisa Longo.

Nota di lettura di Caterina Galizia a: Elisa Longo, Ribilanciare per sottrazione, prefazione di Giovanna Rosadini, Samuele editore, 2023.

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Strani versi questi di Elisa Longo, brevi, lancinanti o soavi, fatti di parole in bilico tra la più brutale quotidianità e la più raffinata forbitezza letteraria. Abolite le parole-scudo dietro le quali i poeti tanto spesso si nascondono, la nostra autrice imbraccia la parola come un Kalashnikov e il lettore deve stare molto attento a posizionarsi dalla parte giusta del mirino. Perché il messaggio che arriva, così come il nemico (p.11), è “sul caminetto…una testa di cerbiatta” che “segue con lo sguardo” e stana il lettore “in ogni angolo”. Questo vale soprattutto per la prima delle tre parti di cui si compone il libro. Essa pesca decisamente nelle zone d’ombra, quelle di cui solitamente noi umani ci vergogniamo, quelle che ci portano a non poter distinguere tra dolore e piacere, che rendono “dolce” il “succhio da vampiro” di chi “innalza” la nostra croce e ha “lo sguardo di chi stacca la coda a una lucertola”. Esiste una complicità attivata nei confronti della “gravità della sottrazione” (riconoscibile anche nello scritto dall’ambigua individuazione del soggetto di alcuni versi), che porta alla conclusione:

non c’è certezza del carnefice

né della vittima”.

A carnefice e vittima, infatti, sono state sottratte tutte le parti luminose: il controllo di entrambi è orientato a “intuire l’ora esatta della fine” e non l’ora esatta del ritorno di chi ha appena chiuso la porta dietro di sé. Perché la casa da cui si esce è anch’essa condannata (p.2):

“”appesa ad un gancio in bella mostra una muta del tempo che non concede

di capire quanto sia

violento

un discorso contromano

oltre il confine del fare

di una casa un nido

e non una macelleria

senza insegna all’ingresso.

Tutto ciò porta il climax a livelli insostenibili ed inevitabilmente, come accade in chimica “La massima pressione esplode in una fuga” che si materializza come descritto a p.8:

L’alito imbottigliato a morte

abbocca al fiato del primo venuto

-pur di prendere aria-”

Vince il bisogno:

Ho bisogno di andare di corpo

in corpo sbottonarmi

parola per parola”.

In questa prima parte è l’umano che la fa da padrone. Vegetali e animali compaiono poco e sempre in negativo “ratti e scarafaggi fanno tana”, “dove il disuso ha gonfiato i muri” e “le ossessioni sono insetti/ accartocciate dentro i rospi” ma la desinenza di accartocciate in e e non in i potrebbe segnalare una speranza: che la mutazione degenerativa non avvenga, che i rospi si tengano i loro parassiti e le ossessioni i loro fantasmi, logoranti, si, ma pur sempre ancorati all’umano.

Non so se esiste in Elisa la possibilità di scegliere se esporsi o no sbottonandosi “parola per parola”. La forza propulsiva che i versi comunicano, farebbe pensare più a uno stato di necessità senza alternative, a una poesia che esce da una porta con le mani alzate: l’irrimediabile sottrazione della resa. Lo spaesamento che ne deriva non può non contagiare anche il lettore che trema all’idea che la realtà dell’autrice possa appartenergli mettendolo a rischio di precipitare in una sorta di buco nero. In questi casi una delle difese più utilizzate è mettersi a discutere sulla validità poetica dell’opera.

Per fortuna, però, non esiste uno strumento tipo idrometro (“freatimetro” se si misura un pozzo, “scandaglio” se si misura il mare) per rilevare il livello di poesia all’interno di un testo ma certamente esso non dipende dall’operazione centripeta che può venir messa in atto così come non dipende dall’intento che ci si prefigge scrivendo: comunicare (con il mondo piuttosto che con i rappresentanti di una categoria o con un soggetto con nome e cognome), oppure imboccare l’unico viottolo che consente di salvare la pelle, o ancora riuscire a capire qualcosa del proprio caos o chissà cos’altro.

Bene. Toccato il fondo con la prima parte, si tenta con la seconda una risalita. Giovanna Rosadini, nell’ottima ed essenziale prefazione, descrive l’inizio di questo percorso come un “dialogo-radiografia” con un sé disperso che fatica a trovarsi:

Mi pare di essere

in una radiografia

altrove la bocca

intrappolata a spicchi

in uno specchietto da borsetta

minuscola e dislocata

*

Abbiamo tutti il nostro

cane immaginario

cui lanciamo il nostro osso di dolore

ancora e ancora

perché ce lo riporti”.

Nell’ultima parte avviene il ribilanciamento. Esso è reso possibile dalla presa di coscienza dell’inevitabilità di una sottrazione. Compare tra le righe anche il soccorso della scrittura nei confronti della quale l’autrice avanza, all’inizio, qualche perplessità:

scimmiotto il cielo con le parole

sono io che traduco
un campo in sillogismo

tradisco”

Viene spontaneo rassicurarla: “Ma quale tradimento se io, che leggo, il campo lo vedo?” E’ il miracolo della poesia che se c’è (è come la grazia: o c’è o non c’è) non consente tradimenti. L’unico tradimento possibile è l’inautentico ma allora la poesia non è neppure ipotizzabile, non è in discussione. E l’autentico, qui, ha il sapore della convalescenza, un attutirsi nella natura che prevede l’appassire senza che necessariamente compaia il soccombere. Perché per un’evoluzione ci vuole una perdita. Se il seme non si annientasse nella terra non ci sarebbe la spiga. E’ la sottrazione che consente “la speranza del bocciolo” che nasce da un’accurata potatura. Solo così:

è una rivelazione appartenersi

sentire di nuovo gli alluci dei piedi

anche se sono nelle scarpe

e non li vedi mai”.

Solo così ci si può “sbalordire della solidità dell’aria” (dell’aria o della poesia?)

Solo così si può recuperare il vantaggio del mancato possesso: niente di quello che satura un bisogno può insegnarci qualcosa. Il possesso impedisce lo scambio che, per avvenire, necessita di uno spazio intermedio tra due creature libere. Come Elisa e il suo gatto:

una gatta gironzola in giardino

-neppure lei è mia-

Poi mi s’infagotta accanto

in cerca di carezze, provo,

le gratto la testa….

quando smetto si gira

e con il muso mi cerca

la mano, m’insegna ad amare”-

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Elisa Longo nasce nel 1974 a Tradate (VA). È specializzata in giornalismo e comunicazioni social. Ha pubblicato, in poesia: Buttate la poesia fra le gambe di una donna che passeggia (iQdB, 2018), Ho sbagliato tutto perché lo vedevo con i miei occhi (ibidem, 2020), e uno di racconti, Come se qualcuno vi vedesse nudi (ibidem, 2018). Il suo ultimo libro di poesie è Ribilanciare per sottrazione (Samuele editore, 2023).

Elisa Longo

ROSALIA. Ronny Someck

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רוני סומק

רוזליה. הילדה החנוטה מהקטקומבות של פלרמו

עַל שְׂפָתֶיהָ מִתְמַלְמֶלֶת שׁוּרָה אַחֲרוֹנָה מִשִּׁיר הָעֶרֶשׂ שֶׁאָהֲבָה.
סֶרֶט צָהֹב מְגַנְדֵּר אֶת שְׂעָרָהּ,
וְתַלְתַּלֶּיהָ הַשְּׁמוּטִים עֲדַיִן לֹא מָחֲקוּ אֶת טְבִיעַת הַנְּשִׁיקָה
שֶׁהוֹתִיר בְּמִצְחָה פִּיו שֶׁל אֱלֹהִים.
בְּ – 1920, שְׁנָתַיִם לְאַחַר לֵידָתָהּ, נֶחְנְטוּ הַחַיִּים בְּגוּפָהּ
וּמִישֶׁהוּ שָׁאַל: אַחֲרֵי שֶׁהַזְּמַן נִגְמַר אֵין עוֹד אֵיזֶה
רֶבַע שָׁעָה?

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Rosalia, la bambina imbalsamata delle catacombe di Palermo

Sulle sue labbra mormorano le ultime parole

della nenia che amava.

Un nastro giallo le acconcia i capelli

e le ciocche cadenti non hanno ancora

dissolto l’impronta

del bacio

quando le ha sfiorato la fronte la bocca di Dio.

Nel 1920. A due anni.

La vita si fermò. Imbalsamata in lei.

Qualcuno chiese: alla fine del Tempo

ci sarà ancora, forse, un quarto d’ora?

(Traduzione in italiano di Sara Kaminski)

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Ronny Someck (Israele, 1951) è autore di quindici libri di poesia ed è tradotto in 44 lingue. In italiano: Il Rosso catalogo della Parola Tramonto, con Fausta Squatriti, e Il Bambino Balbuziente (Mesogea, 2008).

Giovanni Castiglia

IL SANGUE CHE VA VIA

Il dipinto prende la forma di ciò in cui ero coinvolto.

Mark Rothko

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L’ordine del cosmo

violato.

E Praga, dai tetti d’oro?

Ricordo erba su un prato, il giardiniere la falcia lento,

nessuna legge spiega nulla

nodi sciolgono e stringono attraggono e disperdono.

La materia potrebbe non avere corpi:

essere solo ponte fra cristallo e fumo.

Spia è il colore.

Il colore il segreto da salvare.

Ogni chiave segna una nuova porta.

Chiamo Medea un profilo rosso,

Oreste un cerchio nero.

Collere e pianti: un giallo senza ritorno.

Tutto presente. Nessuna ruga.

Il tempo: radice di forme.

Guardo paesaggi e figure, pronti finalmente

a sparire.

Nessun punto da cui partire,

nessun porto dove prevedere approdi.

L’ombra non è l’opposto della luce.

La tenebra non cancella l’oggetto.

Tutto è presente. Io non dipingo,

sono dentro la cosa, ne spremo

colore. La cosa si scheggia, sparisce,

ritorna. Nessuna sapienza

la sazia.

Dai vortici stalattiti, dalle macchie

cristalli. Diventare immobili:

puro quadrato bianco.

Semplifico segni, cancello presenze.

No alle vie del mondo, ai corpi in cammino.

Concentrare forme, colori. Non esco più dallo studio.

Dovrei?

Torno alla sorgente. La tela di un solo colore:

il grigio. Quella, la soglia

grande. Quella che tutti possono vedere,

nessuno varcare.

Ora sono puro, senza più peso. Ma può, il mio corpo,

diventare grigio?

Se lo svuoto.

Prepararlo

alla morte, giù, nel garage.

Il sangue che va via.

Io, accanto alla tela, opaca cosa.

Io. Lei. La fine. Avverrà.

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TEREZIN. Silvia Comoglio tradotta da Monica Liberatore

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Margit Koretzovà

Plzeň 08.04.1933

Terezín 1942 – Auschwitz 1944

Stolperstein: Plzeň 08.09.2022

disegnò a Terezin

Rozkvetlà louka s motyly. Le farfalle

* * *

Se mi ami ­– soffia

sulle ali, le ali di farfalla,

quélla di Terezín. E allarga, allárga,

l’alba di memoria, fondandola vicino

al per sempre che si apre

in cime di specchi ripetuti. E poni,

poni un sasso, a nitore di fúlgido turchino,

un sasso, un sasso grande, in ore

di cesura di nudi amori nudi, e –

in becco al cardellino in lunga traversata

nel porto di ogni casa, perché resti

résti eterna la farfalla, e sempre da lì –

da lì ci guardi, da lì, da Terezín –

– – – – – – –

Margit Koretzovà

Plzeň 08.04.1933

Terezín 1942 – Auschwitz 1944

Stolperstein: Plzeň 08.09.2022

diseñò a Terezin

Rozkvetlà louka s motyly, Mariposas

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Si me quieres ­–sopla

en alas, alas de mariposa,

la de Terezín. Y agranda, agranda,

el alba de la memoria, fundádola cerca

del para siempre que se abre

en cumbres de espejos repetidos. Y pone,

pone un guijarro, un esplendor turquesa,

una piedra, una grande piedra, en horas

de cesura de desnudos amores desnudos, y–

en el pico del jilguero en larga travesía

al puerto de cada hogar, para que permanezca

permanezca eterna la mariposa, y siempre desde allí–

desde allí nos guardes, desde allí, desde Terezín–

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Immagine di Giovanni Castiglia

PER “CRONACHE DI FINE OCCIDENTE. LA COLLINA DEL DINGH”. Antonio Alleva

Antonio Alleva

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Questo ultimo libro di Antonio Alleva (Cronache di fine occidente. La collina del Dingh, con note di Lorenzo Gattoni e Marco Munaro, Puntoacapo 2023), ha un doppio titolo perché è composto proprio da due libri distinti. Nel primo, fra minacce di distruzione sociale (la pandemia da Covid) e militare (la guerra recente russo-ucraina) prende forma l’apologo poetico di un tramonto violento della civiltà occidentale. Scrive Lorenzo Gattoni: «Nei versi di questa raccolta, scritti in linguaggio piano e ricco di musicalità, in un impasto di dolcezza e colloquialità, Antonio Alleva ci consegna un messaggio forte e chiaro: abbandonare la contesa, conquistare, anzi fondare una terra d’esilio (di cui La collina del Dingh rappresenta la prima pietra)».

Entrare nella natura di questi versi (mai sigillati in monologo lirico ma sempre vibranti in un dialogo frastagliato, furioso, tenero, drammatico) è indagare il modo, del tutto personale, che Alleva cerca e trova, per costruire e una poesia intima che sia civile e una poesia civile che sia intima. In ogni punto del libro osserviamo quella che lui definisce “l’inadeguata luce del mondo”. Alleva sa che tutto è inattuale, nella sua ostinata ripetizione («Quanta energia – mi dico – / quanto stupore e trasalimenti alla vista delle orme, / quanto infantilismo per la malia dei reperti: / e nessuno che capisca // che anche allora era banale il presente degli avi»), e che dii certo non arrivano né arriveranno consolazioni né dalla storia né dalla filosofia né dalla poesia. In questo clima la sua voce, ondivaga, divisa fra versi lunghi e brevi, prosastici ed emotivi, cerca spiragli, tenerezze, sprofondi improvvisi, ma è sempre viva, attenta vicina ai protagonisti delle sue “ballate civili”, siano essi personaggi noti o no (da Giovanni Falcone ad Antonio Vullo, caposcorta di Borsellino) per arrivare alle vittime anonime dei massacri quotidiani Alleva rifugge una poesia lirica che sia specchio di interiorità: la trova debole, forse inutile; vuole una registrazione in presa diretta (un bisbiglìo drammatico) su paesaggi, cose, sentimenti, che evoca con un verso lungo, frantumato, frutto di un lavorìo lungo e ostinato sulla materia della parola. Il libro non è contenibile da qualche definizione. Ogni poesia è intonata per le vittime del mondo, e un certo senso Alleva si proclama poeta di chi scompare, impegnando la sua voce per esaltare la necessità e la bellezza della sopravvivenza umana.

Cronache di fine occidente, La collina del Dingh, si caratterizza da un trascolorare spasmodico di immagini e colori, ma soprattutto di voci, di strumenti. Il poeta si organizza come se attuasse una vera orchestrazione della composizione poetica. La cifra dei suoi testi non segue vie prefissate o maestri definiti (si potrebbe ritrovare eco del Saba maturo, ma remota), ma si affida a quelle articolazioni vibranti fra verso e verso che sanno creare un organismo vivo con il movimento delle parole.

Cronache di fine Occidente è orientata su toni diaristici e introspettivi, ma le considerazioni interiori sono spesso amare riflessioni sul presente, denunce civili di una condizione umana sempre più fragile e drammatica, sull’onda del precedente Ultime corrispondenze dal villaggio (Il Ponte del sale, 2016), in un gioco di equilibri/squilibri tra locale e globale, mondo interiore e mondo esteriore, che da sempre regge la rete della sua scrittura. La Collina del Dingh, invece, libera la visione prospettica e sceglie la collina come nuovo e privilegiato punto d’osservazione, da dove il soggetto ruota lo sguardo partendo da una condizione di elevazione, cercando una nuova «mappatura del territorio». La cifra stilistica della sua scrittura, ondeggiante e barocca, fedele all’”Aperto” di Hölderlin, convoca nei versi di una stessa poesia salti temporali tra passato e presente, linguaggio alto e lirico alternato a incursioni nel dialetto, fra tana e microfono (per richiamare l’ancora precedente raccolta di Alleva,  La tana e il microfono, Joker, 2008). La Collina del Dingh è dunque il luogo nuovo da cui il poeta riprenderà voce per il prossimo libro.

Il poeta appare spesso come al centro di temporali linguistici, orrori reali, soprassalti emotivi, mantenendo una sua precisa posizione interiore, da testimone e da sentinella. Singolari gli homenajes affettivi, gli “omaggi ai fratelli e alle sorelle” (nella prima sezione Lorenzo Gattoni, Marco Munaro, Loredana Magazzeni, Umberto Simone), nella seconda gli “omaggi ai maestri e alle maestre” (Zbigniew Herbert, Raymond Carver, Giuseppe Ungaretti, Emily Dickinson, Wislawa Szymborska). Gli omaggi hanno un senso preciso: convocare i compagni di poetica, morti e vivi, nel tessuto vivente del libro. L’amato Carver ci rivela anche una delle predilezioni di Alleva: il racconto breve, o brevissimo, con cui da alcuni anni ha cominciato ad esercitarsi in scrittura e che lo porterà, forse, a prove nuove. Come non è difficile mostrare e dimostrare, i poeti onesti sono creature curiose, mai ferme nello stesso punto, e che sempre cercano nuove prospettive, proprio a partire dalla mitica Collina del Dingh (“Io sono la gioia / senti che suono. / La prima sillaba a conficcarsi / ascendendo dolce e potente / la seconda acrobata e piuma / a congiungersi perfettamente”). Ma ogni prospettiva è calibrata con lenta, appassionata attenzione. Il poeta scrive le sue composizioni a penna, senza ausili digitali, sul foglio bianco, ma solo dopo averle elaborate mentalmente. Le varianti non sono mai scritte sulla carta ma registrate nella psiche. Questo permette alla singola poesia di essere pensata, musicalmente e tematicamente, per mesi, e poi di essere scritta (liberata) solo quando il momento è giunto, quando la necessità poetica è percepita come ineluttabile. Alleva, poeta di calibrata lentezza, cerca emozioni che durino quanto le sue scritture (eccone un esempio: i giusti, dedicata a Gian Maria Testa, il cantautore scomparso: “dammi la mano vieni su / o potrei abbracciarti lo stesso, venire io giù, / dài la mattinata è superba portiamo all’epilogo / la tragedia, il via vai senza requie di questo Mare Nostrum / o concediamoci l’ultima chance proviamo a riscoprirlo / luce e zaffiro dondolo e culla / proviamo a guardarlo come fosse un’Arcadia che risale / una Talia che riscrive l’uomo e l’utopia. // Se vieni su potremmo ammirare i giusti, / ad esempio quei vecchi che giocano a scacchi // o perché no? Quella collana di musetti a colori / quelle donne che l’imbracciano o – se vuoi – / sciogliamo il finale vengo anch’io scendiamo giù”. Alleva, libro dopo libro, insegue la sua tragica, irregolare coerenza: far vibrare la materia della lingua come un direttore gli ottoni, i fiati, gli archi dell’orchestra, per ricavarne la musica necessaria. (M.E.)

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Antonio Alleva nasce a Nocella di Campli (Teramo), il villlaggio-altana protagonista dei suoi primi tre libri, e attualmente vive a Giulianova Lido. Ha pubblicato Le farfalle di Bartleby (Tracce 1998), Reportage dal villaggio in 7 poeti del Premio Montale, 2000), La tana e il microfono (Joker, 2006), Ultime corrispondenze dal villaggio (Il Ponte del Sale, 2016), Cronache di fine occidente. La collina del Dingh (Puntoacapo, 2023).