LA TERZA PAGINA. Laura Caccia

I testi sono tratti da: Laura Caccia, La terza pagina, Book editore, Fuori collana, 2023. In copertina l’immagine è dell’autrice, Cadenza 1, olio su tela, 1985.

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Se non fosse per qualche

soglia irreparabile

a sovvertire ogni fatto marginale

la pagina è l’una

e l’altra del foglio

scoglio emerso

sommerso tra mareggiate

intemperie

e acque altissime

*

nostro dicibile indicibile – le prove dai balconi agli orizzonti – dai corpi alle maree – il doppio della scena fronte e retro – il sipario del foglio ci somiglia

**

sporcare le voci finite

nel folto di troppi testimoni

impresentabili a

confondere i numi

i frantumi

nel risuonare

di riti sommari la pretesa

di parlare di

abiezioni e di fango

con abiti puliti.

*

increspa le labbra – come dire come osare – di pace in pagina – ogni cosa in disarmo – la prima l’ultima volta — parola in farsi – senza nulla in cambio

**

uscire dal foglio nelle cadenze del sangue costi quel che costi la felicità in affitto oscurando la voce

una seduzione casuale il lutto in apnea la labbra nel loro canto esposto

*

ridotta ai minimi termini / o all’infinito / memore immemore / fuori dii sé / nella distanza che non termina seduce / chiederci se il demone che infuria in noi sia ombra o luce

**

Laura Caccia, Cadenza 1, dettaglio

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Tutte le pagine che compongono La terza pagina di Laura Caccia sono costruite come un dittico di strofe in versi e in prosa (più che strofe sequenze ritmiche, campiture pittoriche, poèmes en prose); la poesia è stampata in carattere tondo e la prosa in corsivo, ad eccezione del prologo. Ne deriva una struttura rituale e musicale, un andante pacato che compone e ricompone un equilibrio di contrasti. Il lettore è guidato, ipnoticamente, senza interrogarsi sulla differenze fra senso e suono, a percorrere le tracce di una via maestra ma minima che mescola toni e risonanze, inventa limiti, li sconfina, li reinventa ancora, ma sempre nell’ottica di una pace, di una interezza cercata e raggiunta dal poeta-pittore, nel suo intimo paesaggio. Così Laura Caccia scrive nella prosa, poetica e teorica insieme, Osare scrivere di felicità, che mette fine al libro, anzi lo apre verso nuovi orizzonti: «Lasciarmi sorprendere dalla bellezza. Screpolare da un nome. Annodarvi tralci, monconi di azzurro e di ocra. Sentirvi vibrare echi e contatti, la musica del vento, un respiro comune. E passeggiare tra i vigneti lungo i filari ordinati della scrittura quando il sole vi stempera i suoi inchiostri rossastri. E deviare oltre, smarginare. Svoltarmi all’altro, all’inaspettato. Assaporare l’incontro. Rendere fertile lo strappo, l’errare. Quali gradazioni dare a tutto. Forse esiste una terza pagina del foglio, quella assente, quella di un sentire felice. Una pagina che potrebbe dare forma a quello che alla vita appare confuso. Affrescare con tratti di fulgore il corpo precario e ferito dell’esistere. Farne intuire l’intero. Dipingere la luce ancora bagnata. Osare scrivere di felicità.»

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Laura Caccia (Varallo Sesia, 1954), laureata in filosofia presso l’Università agli studi di Torino con una tesi di estetica, relatore Gianni Vattimo, si dedica per diversi anni alla pittura. Il passaggio alla poesia avviene con Asintoti (Opera Prima, Anterem – Cierre Grafica, 2004). Nel 2012 si aggiudica il Premio Lorenzo Montano per la raccolta inedita con D’altro canto (Anterem Edizioni, 2012). Fa parte del Comitato di lettura di Anterem Edizioni, della giuria del Premio di Poesia e Prosa Lorenzo Montano ed è nella redazione della rivista Osiris, con sede a Greenfield, Massachussets, USA. Sue poesie e note critiche sono apparse su riviste, siti, antologie.

Laura Caccia

UN PURO CON TANTI RITORNI. Donato di Poce


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Sfonderà gli spazi della poesia
questo germoglio forse
che rischio di calpestare
ogni volta che scrivo…
questa disperata, violenta, tenera incertezza
che ti fa gridare
un nome confuso,
una parola misteriosa,
mentre dentro ti graffia il desiderio
che non diventa comunicazione

*


Come una siringa
mi penetri dolcemente
e sento uno stridio di stelle
nella tua vita sdoppiata, divisa, accartocciata.
Cerco la tua spiaggia
e incontro una processione di domande
che mi squarcia il cervello.
Questo può dirti un uomo in crisi
un uomo insicuro
un uomo da tutti i giorni
un puro con tanti ritorni

*

Eccoci dunque tra le macerie dell’essere
ingenui e incompiuti
a cercare le radici
di un nuovo umanesimo,
a mendicare un poco d’incanto
ora che in noi a esistere
è solo il terrore
di non esistere.

**

Va a sapere perché
mi legarono ad un tavolo
quand’ero appena fanciullo,
ma perché lo rovesciai
e mi scagliai con rabbia contro la finestra
questo lo so bene
ve l’assicuro.

*

Come una siringa
mi penetri dolcemente
e sento uno stridio di stelle
nella tua vita sdoppiata, divisa, accartocciata.
Cerco la tua spiaggia
e incontro una processione di domande
che mi squarcia il cervello.
Questo può dirti un uomo in crisi
un uomo insicuro
un uomo da tutti i giorni
un puro con tanti ritorni

*

Gli avevano detto
che aveva le dita storte
e mangiava le unghie,
che per questo
non poteva essere un poeta,
che per essere tali
bisognava curare l’estetica delle mani.
Forse un giorno
vi racconterò la storia
di un poeta monco
che andò a morire
in un orto di fragole.

*

Eccoci dunque tra le macerie dell’essere
ingenui e incompiuti
a cercare le radici
di un nuovo umanesimo,
a mendicare un poco d’incanto
ora che in noi a esistere
è solo il terrore
di non esistere.

*

Scrivere forse
È raccogliere la caligine dei versi
Nei solchi bruciati della storia.
Scrivere forse
È raccogliere briciole di vita
Per continuare a sognare
Oltre il silenzio e il caos

*

Restiamo soli
Come scaglie di luna
Mentre il vuoto cresce in noi
E la vita svanisce.
Nelle mani resta solo l’odore
Del glicine strappato nella notte

**

Giovanni Castiglia

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Le poesie sono tratte da Vincolo testuale. Il libro, opera prima di Donato Di Poce, è stato pubblicato per le Edizioni Lietocolle nel 1981 e ristampato per “Eretica edizioni” nel 2023. Il tono giovanile e “rivoltoso” dei suoi versi si arricchirà, negli anni, di una leggerezza aforismatica.

LA LEZIONE DEGLI DEI. Lucetta Frisa

*I testi sono tratti da: Lucetta Frisa, La lezione degli dèi, Il Cappellaio Matto 22, a cura di Vincenzo Guarracino, New Press Edizioni, Como. 2023.

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Dalla prefazione di Marco Ercolani

*Soffrire di metamorfosi

“Il poeta soffre di meraviglie” scrive Nanni Cagnone. E aggiungerei: soffre anche di metamorfosi. Nella parola si apre sempre un varco, da cui sbucare inattesa, vertiginosa. La poesia, in quanto esperienza dell’impossibile, ci racconta di un luogo dell’origine traversato dai miti, un luogo che però resta archetipo delle passioni originarie. Ogni poesia efficace e sincera è la versione che il poeta ci offre del suo personale grido di dolore. Di fronte all’irruzione di quanto fa ammutolire, il poeta tesse parole non consolatrici, che lo sprofondano in un felice desiderio di fuga da sé, di trasformazione dell’essere: “Voleva perdere la sua identità / e non sa ancora se l’ebbe davvero / non volle mai cambiare la figura / l’infanzia il desiderio ed il pensiero; / soltanto non vuole più essere lei / non essere più un’umana creatura / ma appartenere solo all’universo / sotto altra forma o colore e leggera / spalancarsi e ridere. Nelle favole / gli animali si trasformano in uomini, / massimo premio degli dèi, ma lei / chiedeva loro un’opposta magia: / mutarsi voleva in animale / divino di compagnia”.

Non soltanto di meraviglie soffre il poeta ma anche di costanti metamorfosi, che lo guidano turbato verso isole sconosciute, anche quando crede di essere il tranquillo abitante della sua antica casa. Ogni poeta vero può non riascoltare, per l’ennesima volta, la “lezione degli dèi”? La visione di Frisa non prevede e non prescrive limiti: invita all’erranza, allo sperdimento, e alla musicale narrazione di quell’erranza. Non si possono leggere queste poesie sperando di ricavarne una qualche teoria; si può solo trovare, nella misura meditata e ardente dei versi, la traccia di un cammino che si snoda fra lontananze e riflessi, errori ed enigmi: “un segno degli dèi forse un loro errore / forse un enigma difficile che neppure / la sfinge avrebbe potuto chiarire”. La poesia di Lucetta respira all’interno di una linea ondulata ma ferma, dove le immagini che affiorano evocano le emozioni del pensiero attraverso una scrittura vibrante, politonale, commossa ma fiera, sempre modellata in un suo felice equilibrio sonoro.

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Clitemnestra, Agamennone

C’è chi sa incenerire un amore

per un delitto senza rimorsi

in un attimo copre di nero il suo corpo

e non lo ricorda più:

il fuoco e il sangue sono affini e puri.

Muore di fuoco chi è onesto lotta e perde

diventa quell’aria fine che gli dèi respirano.

Ma l’acqua calma sta nel ventre della madre

deve morirci dentro chi non riesce a nascere

ad avere un nome, morirci chi è sleale e con dolcezza

tradisce chi lo ha amato, guardandolo negli occhi.

La rete maliosa lo lega affogandolo illuso

di essere tornato nel grembo

inerme pulito sazio prediletto e torpido

nei giochi oziosi e orizzontali come al principio della vita.

Così il grande eroe dovrà morire senza onore.

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Atteone, Diana

Sapeva guardare e guardando imparava

le cose che gli mostrava la Natura

e quelle scritte nei libri dei sapienti

così tutto poteva apparire

facile possibile chiaro. Ma sentiva

che più imparava meno sapeva

e qualcosa gli sfuggiva sempre

e sempre ancora solo andava

disperato piangendo i suoi confini.

Poi una luce furiosa e feroce lo accecò

alzando cortine di nuvole e fumo

e dentro quella speciale cecità infine

eccola, è lei.

Subito morsi di cani emersi

dagli inferi e ferite di corna angeliche

lo ridussero a una poltiglia sanguinosa:

così se ne andò da questo mondo

insieme a quel mistero che finalmente

lo portava via.

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Nausicaa, Ulisse

Qualcuno mi disse di un uomo diverso

che parla una lingua più aspra della nostra

simile a un singhiozzo?

Un uomo nudo e ferito in tutto il corpo

con mani scorticate ma con gli occhi

che tremano non so se per la gioia

di questo approdo o d’incertezza. Da dove

viene? Ha traversato a nuoto questo mare

infinito sempre in burrasca? E’ un dio

marino o un demone emerso dal fondo

messaggero di sciagure?

L’ho scoperto su questa spiaggia sassosa

che dormiva. Vinto da stanchezza, certo,

e nel sonno sembrava voler tenere con sé

tutte le voci e i silenzi del mare.

Dopo avere ascoltato giorno e notte il racconto

dello straniero accolto nel palazzo di mio padre

(sembrava felicemente stupito della nostra generosa ospitalità)

capii come ignorasse il nostro modo di essere e nulla

sapesse del sonno e dei sogni, nulla dell’isola dei Feaci.

Ascoltavo come non avevo mai ascoltato prima

e giorno dopo giorno vedevo il nostro grandioso palazzo

disfarsi, le sue pareti volare come vele bianche di nave

ai soffi del vento, Il viso paterno perdere i tratti così quello dei fratelli

e delle mie belle schiave: non potevo toccare nessuno

perché tutto si scioglieva lieve come neve al sole

tutto diventava aria tutto tornava all’origine,

Al termine del racconto più nulla e nessuno esisteva.

Nausicaa figlia di Alcinoo, principessa di un’isola felice,

non c’era più. Ma solo chi avrebbe seguito

lo straniero per sempre, lottato accanto a lui, incontrato

divinità ostili, nemici astuti, spogliata dei suoi abiti

d’oro dei gioielli della sua vita inconsistente.

Sarebbe stata una donna che si feriva le mani.

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Ifigenia

Il padre è un dio per la famiglia; comanda

punisce è potente come in guerra.

Ma l’altra notte l’ho spiato nell’orto

che sussurrava a qualcuno che non vedevo

sospirando diceva eseguirò

la tua volontà se è questo che mi chiedi.

Gli chiedeva un sacrificio umano

come prezzo della sua vittoria a Troia.

Il sacrificio ero io: Ifigenia sua figlia.

Poi non so come andarono le cose.

Fui presa di forza, legata come

una bestia, stordita con una bevanda

amarissima. Non ricordo null’altro.

Ora sono qui con un lungo abito

bianco a vegliare il tempio della dea

che mi ha salvato .Siamo tutte donne

vergini preghiamo la luna e danziamo

lungamente al suo chiarore.

Se sono felice non lo saprò mai.

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Da Il dolore si nasconde in un sorriso

Voleva perdere la sua identità

e non sa ancora se l’ebbe davvero

non volle mai cambiare la figura

l’infanzia il desiderio ed il pensiero

soltanto non vuole più essere lei

non essere più un’umana creatura

ma appartenere solo all’universo

sotto altra forma o colore e leggera

spalancarsi e ridere. Nelle favole

gli animali si trasformano in uomini,

massimo premio degli dèi, ma lei

chiede loro un’opposta magia:

mutarsi voleva in animale

divino di compagnia.

EL DORADO. Giorgio Mobili

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IL LUNGO INVERNO

C’è un taglio nuovo nella luce

non te lo aspetti dalla vecchia tenda

sfreghiamo gli occhi ma i nomi

non sono gli stessi, non sono

più per noi. E l’ombra

insabbia il sognatore, e già nere

le schiene…

Brucia il mondo intero

questa sera

ma senza far rumore: il mare

ricomporrà le cifre del miraggio

la strada che credemmo

stella…

La carta per le nuove sponde

identica ad ogni passaggio

l’insegna con la V scomparsa

il brivido che vive solo

sulla costa.

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EL DORADO

Il sonno spezzato tra di noi

se lo inghiottono i palazzi di vetro

indifferenti al metro

e alle ragioni per cui

ci dissanguammo all’El Dorado Café…

Quante cose da farsi

e il pulpito a pochi centimetri

dal giro di boa:

ma stretto sotto il neon

imperturbabile, il varco

si richiudeva ancora prima di aprirsi…

Nel tempo che ci resta

scintilleranno altre opportunità

e viste dorate

ma ogni notte bianca

il vento fischierà su quelle

abbandonate.

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IL RITMO DEI PENSIERI

Ti sei mai chiesto cosa sia

che dal Portico dei Morti

accampa flebili diritti

come se ricordasse intatti, a ruota

gli echi del gioco?

Oggi c’è un’aria che s’incaglia

perché al vaglio di assonnate telecamere

siamo già in Missouri –

con troppi auguri

e nove lune da ammazzare…

Nessuno decifrava

la farragine del rientro:

straniero in casa ripulendo il viso

scaldandomi le dita al fuoco lento

che divorerà

la tua corsa sulla terra

(ma qual è il ritmo dei pensieri

quando ogni tappa manca

in fretta la misura

e lo spavento galoppa sul mare?)

**

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CITY

Dopo la collisione, mi stendo

i fasci dei fari ti annunciano

mi stringi la mano

e con l’altra, ruffiano

attivi i tamtam periferici.

Rientrato il viandante

il cerchio si chiude, ma cresce

una nuova inquietudine:

la cinta del cielo

ha un colore straniero

(o per l’ora stentiamo

a riconoscerla…)

E un filo di brezza accompagna

quell’ultima voce lontana:

posso impazzire oppure farmi le ossa

ascoltando.

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MACCARESE BEACH

Sia benvenuto l’ultimo rimesto

di famuli e padroni

che anche i castrati mimano il vocione

da dietro i paraventi

lacrimogeni…

E mentre aspetti che il roveto bruci

c’è chi per due soldi scalderà i tuoi crucci

sotto il telo

di Maccarese Beach.

Davanti al dito alzato ci arrangiamo

pronti senza pudore

a perdere i sensi, a finire in tivù

all’alba già in ghingheri

per la posterità:

è il grand guignol delle cause al vento

ma non è detto che si diano tutte

appuntamento

proprio qui.

Sogniamo il paradiso di Tahiti

o su una palla d’obice

di sorvolare il souk a Marrakech.

Ci attrae l’immunità divina

di Hammamet…

Ammiccano gli angeli

dalla costa Smeralda, ma il piede

obbedisce al baleno bastardo

sull’eternit

di Maccarese Beach.

Ogni promessa è stata mantenuta

e anche tu saresti in salvo

se il lembo non si fosse sbrindellato:

ora lascia che il sole ciociaro

ti scaldi le ossa…

Si appisola lo spettro di Pier Paolo

sui campi d’oro dietro l’aeroporto

togli la cera, Ulisse:

non canta più nessuno.

Ci ingegnavamo a sostenere tutto

pur mancandoci il fiato

per sviscerarlo a freddo, sotto un melo:

la spiaggia (asserivi contento)

ha una logica in cielo…

Venimmo armati per bruciare i ponti

finimmo ad un revival dei Bisonti

giù alla stazione

di Maccarese Beach.

Ci siamo addormentati sulla sponda

nel mezzo di uno screzio

su come adoperare ciò che resta:

viene l’ora di usare le forbici

di imporre il silenzio…

Mortificato, pigro o impenitente

sai che la somma tornerà ugualmente

senza tanti ritocchi

per la dignità.

Giungemmo a meta su un binario morto

con l’ultima consegna

e un indirizzo cieco sul polsino:

alla fine del mondo

eccoci on the road again

Dal solco duro delle offerte al mukhtàr

dal lungo addio di Sunset Boulevard

prendi l’uscita

per Maccarese Beach.

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NOTA BIOBIBLIOGRAFICA

Giorgio Mobili (Milano, 1973) è un poeta, traduttore e critico letterario italiano. Trasferitosi negli Stati Uniti nel 1999, insegna da anni alla California State University di Fresno, dove risiede. È autore di vari saggi e dello studio Irritable Bodies and Postmodern Subjects in Pynchon, Puig, Volponi (Peter Lang, 2008). La sua poesia è apparsa in svariate riviste letterarie (tra cui L’immaginazione, Poesia, Steve, Gradiva, La Clessidra, Fili d’aquilone) e nell’antologia bilingue Poets of the Italian Diaspora (a cura di Joseph Perricone e Luigi Bonaffini, Fordham UP, 2013). Ha pubblicato sei raccolte poetiche: Penelope su Sunset Boulevard (Manni, 2010), Planet Maruschka (La Vita Felice, 2013), Waterloo riconquistata (Puntoacapo, 2014), Miracoli ed effetti (Pèquod, 2016), Dimenticare un Hotel (Puntoacapo, 2020) e Missori/Missouri (Fili d’aquilone, 2023). Al 2013 risale la sua prima raccolta in lingua spagnola, Última salida a Ventura (Mago Editores, Santiago, Cile). Nel 2021 esce Sunken Boulevards (Fomite Press) il suo primo libro di poesia in lingua inglese e fotografia. Ha tradotto in italiano i poeti Narlan Matos (La provincia oscura, Fili, 2016), Christopher Merrill (Necessità, Fili, 2017) e Carmen Berenguer (Orme di secolo, Fili, 2021). Ha tradotto in inglese il poeta Luigi Fontanella (Adolescence and Night, Fomite Press, 2020), e il filosofo Massimo Cacciari (Essays on Dante, SUNY, 2022).

Giorgio Mobili

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Le poesie del libro sono pubblicate in Missori/Missouri, Edizioni Fili d’Aquilone, 2023.

Le fotografie sono inedite..

POI LE OSSA. Alfonso Guida

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I

Dipingi San Mauro a grosse gocce di latte

ingrazi ogni sera la Mezza Signora che si affaccia

dalla feritoia centrale della torre normanna.

Scendi, tra caditoie cadenzate e maldestre chiaviche,

chiacchiere fatate, calce, tubercoli cotti,

ti distrai, ti distendi, trovi un vicolo cieco, balbetti

cretto, strettoia, angiporto, passi in rassegna il variabile

dell’iride, il lirismo di una specie minore

di bestiario e di novelliere coi quadri verniciati

di nero-Goya o nero-Dorè. Scendi, rispolveri

gli inizi, ingaggi la masnada dei fallimenti,

ripeti la tenebra e lo stellato, ripeti

che qualcosa hai visto e perduto, una linea che divideva

dall’ interno la dismisura a imbuto. Poi sei affondato.

II

Qualche saggio mastica e sputa, una piazza muta.

L’ uva ringrazia, colma.

Le spine strisciano per terra o addensano il tronco di un albero.

Nutrice e perpetua, Isabella Morra.

Le vie annebbiate, le Orse prese a sassate dai ragazzi,

dopo l’ incestuoso delitto edipico, un villaggio vinto,

Tebe, Delfi, Eleusi, cerimoniali di mezz’aria,

la quiete infinita che annuncia fine,

che c’inoltra, ci riconduce, ci fissa in un luogo

sterminato di fine.

E si attediano saggine e pallottole, ferite essenze,

le spoglie distillate nelle gole selvagge,

nei baratri che schiudono l’ inverno

col suo fratello eterno e sua madre Averno, un tempo

di vento inconcludente, corrosione

del principio discusso e distaccato

dal punto iniziale, sbocco di siepe

dove, avventura adolescenza, un uomo

di ardesia inaugura la lingua chiara

della sorgente. Un modo di cercare.

III

Nessun pastore viene più a trovarmi.

Detriti, ghiaia,

cosciente sedimento.

Sedata crisi

di abbandono, se vai via, se non torni,

notturna canzonetta come questa

costruita inanellata, infilata,

conteria su conteria, distribuendo

l’idioma sul principio di analogia.

Nessun pastore, il sudore potente,

lo stordimento veloce a stupire

per la piena vigoria delle cosce,

per la luce ingraticciata alle tempie.

IV

Per tutto ciò che resta e si allontana,

per l’unione e l’ustione, per le case

coloniche che hanno impresso nell’ idea

questa casa e l’aria di borgo e pietra,

per il bene intravisto che ho toccato.

Terre, terre, terre morte e a riposo.

Qui siamo giunti, qui ognuno è arrivato.

C’è un bastone all’ orlo del precipizio

che afferma sarai debole avanzando,

nessun nero, non cadrai in nessun nero,

perché invecchiare è un grigio quasi bianco,

quasi Cartagine Roma, poi le ossa.

V

Ghiaccia dell’inverno di tutti gli anni

questo istante e non accendo la lampada,

scrivo al buio, il ticchettio

del computer, le ondate di riflessi

sul vetro, come se qualcuno fosse appena partito.

Ho questo coltello è rimasta l’ arma

con cui mi hanno colpito non capiscono

proletari e borghesi non capiscono

la parte è uguale al tutto da cui viene

Che l’aria è grigia, sono solo e ho sonno.

Vedo i miei occhi chiusi ma lo specchio

prepara il buio come sfondo e sfodera

barlumi di contrasto, è fumo e finto

sferragliare di officine. Più a oriente

l’autocarro del mattatoio fugge.

**

Infinite altre occasioni, Giovanni Castiglia

San Mauro Forte

Gustave Doré

San Mauro Forte

TORNARE

Ogni nostra persona vigila il suo personale dirupo. G.C .

Un precipizio

dove volare è tornare

e nella ritrovata terra

ripetere i nostri passi ancora,

perché il vento restituisca

alle dita il vuoto,

il futuro silenzio

dove le parole finalmente in volo

saranno isole di silenzio

grazia

del non dire

Giovanni Castiglia

TEREZIN. Silvia Comoglio tradotta da Giorgio Mobili

**

Margit Koretzovà

Plzeň 08.04.1933

Terezín 1942 – Auschwitz 1944

Stolperstein: Plzeň 08.09.2022

disegnò a Terezin

Rozkvetlà louka s motyly, Le farfalle

**

Se mi ami — soffia

sulle ali, le ali di farfalla,

quélla di Terezín. E allarga, allárga,

l’alba di memoria, fondandola vicino

al per sempre che si apre

in cime di specchi ripetuti. E poni,

poni un sasso, a nitore di fúlgido turchino,

un sasso, un sasso grande, in ore

di cesura di nudi amori nudi, e —

in becco al cardellino in lunga traversata

nel porto di ogni casa, perché resti

résti eterna la farfalla, e sempre da lì —

da lì ci guardi, da lì, da Terezín —

_______

Terezín

Margit Koretzovà

Plzeň 08.04.1933

Terezín 1942 – Auschwitz 1944

Stolperstein: Plzeň 08.09.2022

drew in Terezin

Rozkvetlà louka s motyly, Butterflies

*

If you love me — blow

on the wings, the butterfly’s wings,

the butterfly of Terezín. And spread, do spread,

the dawn of memory, founding it near

the forever that opens up into tops 

of repeated mirrors. And place, 

do place a rock, like clearness of shining blue,

a rock, a big rock, in the hours

of caesura of naked lovers naked, and —

in the beak of the goldfinch on its long journey

through the port of every home so that

the butterfly may remain

remain eternal, and from there —

from there always look upon us,

from there, from Terezín —

­­­____________  

Traduzione. Giorgio Mobili

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA

Giorgio Mobili (Milano, 1973) è un poeta, traduttore e critico letterario italiano. Trasferitosi negli Stati Uniti nel 1999, insegna da anni alla California State University di Fresno, dove risiede. È autore di vari saggi e dello studio Irritable Bodies and Postmodern Subjects in Pynchon, Puig, Volponi (Peter Lang, 2008). La sua poesia è apparsa in svariate riviste letterarie (tra cui L’immaginazione, Poesia, Steve, Gradiva, La Clessidra, Fili d’aquilone) e nell’antologia bilingue Poets of the Italian Diaspora (a cura di Joseph Perricone e Luigi Bonaffini, Fordham UP, 2013). Ha pubblicato sei raccolte poetiche: Penelope su Sunset Boulevard (Manni, 2010), Planet Maruschka (La Vita Felice, 2013), Waterloo riconquistata (Puntoacapo, 2014), Miracoli ed effetti (Pèquod, 2016), Dimenticare un Hotel (Puntoacapo, 2020) e Missori/Missouri (Fili d’aquilone, 2023). Al 2013 risale la sua prima raccolta in lingua spagnola, Última salida a Ventura (Mago Editores, Santiago, Cile). Nel 2021 esce Sunken Boulevards (Fomite Press) il suo primo libro di poesia in lingua inglese e fotografia. Ha tradotto in italiano i poeti Narlan Matos (La provincia oscura, Fili, 2016), Christopher Merrill (Necessità, Fili, 2017) e Carmen Berenguer (Orme di secolo, Fili, 2021). Ha tradotto in inglese il poeta Luigi Fontanella (Adolescence and Night, Fomite Press, 2020), e il filosofo Massimo Cacciari (Essays on Dante, SUNY, 2022).

DI VOCE IN VOCE. Jurij Karlovič Oleša 

Il testo, apocrifo, è tratto da Di voce in voce (taccuini inediti di Jurj Oleša, 1973), ed è fra i racconti che compongono Discorso contro la morte (I Libri dell’Arca, Joker, 2008).

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Da parecchi mesi mi affascina assistere ai recitals di uno strano attore, Djuma Petrov.Petrov non interpreta nessun ruolo tradizionale né lavora in compagnie conosciute. Nessuno può raccontare di averlo visto nella parte di Amleto o di Shylock. Odia Shakespeare e tutto il repertorio teatrale: lo giudica enfatico e ne parla spesso come della “noiosa isteria” che trasforma l’attore in non attore. Petrov è un uomo alto e timido dalla voce mite e dall’aria sommessa, e interpreta, in parecchi cabarets d’avanguardia, dall’Arciere di Pietra al Gatto Nero, uno strano tipo di monologo. È quasi impossibile definire cosa sono effettivamente i monologhi di Petrov: lui ne parla come di racconti. Con la sua voce serena mi confessa che colleziona diari e lettere d’artisti. ”Mi servono per il mio lavoro. Per reinterpretare le loro voci. Non saprei aggiungere altro.” Ricordo la prima volta in cui lo vidi, a Kiev: era una nottedi ottobre, fredda e ventosa, e lui, nel livido teatrino di Karskoe, parlava come se fosse Raskol’nikov, ma in prima persona. Penso che ogni lettore russo sappia che Delitto e Castigo è scritto in terza persona, come la maggior parte dei romanzi di Dostoevskij. Ebbene, Petrov diceva “io” e ci raccontava emozioni e deliri del celeberrimo assassino che io non ricordavo affatto. Alla fine del monologo, spiegò al pubblico che aveva lavorato su alcuni documenti inediti di Dostoevskij, tra cui il Diario di Raskol’nikov, la prima stesura di Delitto e castigo, che era effettivamente stato scritto in prima persona. La seconda volta in cui lo vidi recitare, provai un’emozione ancora più intensa. Petrov narrava la sua fuga da Jasnaja Poljana come fosse lui stesso il vecchissimo Tolstoi che, a ottantadue anni, lasciava la sua casa come un folle. Fu in quel momento che capii come i confini tra il vero e il falso fossero incredibilmente labili: Niente poteva assicurarmi che Petrov lavorasse su del materiale “vero”, tratto da autentiche testimonianze di Tolstoi, eppure ciò che vedevo sulla scena era proprio Tolstoi, e ciò che sentivo era proprio il linguaggio solenne e semplice, esatto e impetuoso, dell’autore di Guerra e pace. Compresi che quelli di Petrov erano “racconti in trance”, scritti all’interno di alcune voci, vissuti nell’orbita di certi destini. In qualche modo, ascoltandolo, mi sembrava di vedere delle stelle, traversate da scie di nuove stelle, trasformarsi in galassie. ”Lavoro per salvare qualcosa di essenziale” ripeteva Petrov. Una volta, quand’ero ragazzo, salvai per caso l’occhio dall’impatto di una scheggia, e negli anni futuri, mi rallegrai di possedere gli occhi, le iridi, le pupille, le ciglia. Ero quasi commosso nel vedere le soffitte incendiate dal sole al tramonto con il fumo che si leva azzurro nel cielo. Provavo un’emozione simile anche adesso: vedere oltre quanto ci concede un’esistenza, guardare nel fondo di un destino, variare i timbri di una voce. Chiesi a Petrov di sfogliare i suoi appunti. Egli me lo permise con un sorriso. “A un grande scrittore, caro Oleša, non si rifiuta nulla. Ecco i miei jeux de cartes.

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“Lessi i nomi di Cechov e Dostoevskij, Filonov e Garsin, Babel e Eisenstein. Poi la mia attenzione si concentrò su altre pagine. Portavano come intestazione “Taccuini di Jurij Oleša”. Lessi rapidamente con ovvia curiosità. Ricordo le prime parole: “Mosca è uno sciame di uomini. Cresce l’illusione di chi mi immagina al lavoro, le grandi mani poggiate sui fogli, la testa concentrata a pensare la trama del secondo capolavoro. C’è il sole, fuori, ma non posso uscire all’aperto. Oleša non è come gli altri uomini -dicono- deve uguagliare il primo libro, scrivere un’altra opera della stessa potenza. Invidia è prodigioso ma non può restare unico. Il grande scrittore moscovita ha la missione di superare se stesso. Non ho nessun’altra alternativa: devo emularmi e superarmi. Là fuori, aspettano un altro capolavoro, non si accontentano di paginette, racconti, impressioni. La folla vuole il numero 2. Il terribile 2 (…) Perché non mi lasciano in pace? Non sono più all’altezza di me. Avrei dovuto scrivere Invidia nella piena clandestinità e magari pubblicarlo anonimo. Oggi non sarei inchiodato a questa scrivania come un servo della gleba Pensare che detesto la forma esatta, il romanzo scintillante e funambolico! Che amo le parti segrete e dimesse della scrittura e vorrei essere ricordato solo per questo mio diario (…)Mi auguro che la morte mi sorprenda benevola nel bel mezzo dei Cahiers sterminati e scrupolosissimi che preparano il mio grande deuxième livre, e tutta Mosca possa dire che Oleša non ebbe il tempo materiale dell’ultima stesura. Ancora un mese, ancora ventiquattro, forse venticinque giorni, e il capolavoro sarebbe sprigionato dai suoi appunti come un fulmine nel cielo stellato. Ma il tempo, il tempo…”

Dopo aver letto le mie pagine, pensai a lungo alle parole di Petrov: ”Lavoro per salvare qualcosa di essenziale”. Queste parole mi ossessionano anche oggi. Che cos’è “l’essenziale” che bisogna salvare? I testi scelti dall’attore di Kiev avrebbero potuto essere diversi da quelli che ho trovato e letto. Se continuassi a frugare tra le sue carte chissà cosa scoprirei, di quali destini condividerei le favolose possibilità, così come un lettore, sprofondato nelle Mille e una notte, vuole sempre cambiare i nodi del tappeto fantastico dove proliferano le storie di Shéhérazade. Petrov conferma una mia vecchia convinzione: non esiste, nella cultura universale, un autore definibile, padrone unico dei suoi testi, ma uno scriba anonimo a cui diverse leggende hanno prestato, nel corso dei secoli diversi nomi – quello stesso scriba che i popoli aztechi mutilavano della mano per impedire che scrivesse la storia del suo popolo e magicamente gli impedisse di morire. Gli scrittori che Petrov ha trovato e citato o reinventato, diversissimi per carattere e genere artistico, hanno singolari analogie nella loro “scrittura intima”. Il brano firmato “Oleša” lo dimostra. Ovviamente non l’ho mai scritto io, è un’invenzione di Petrov: ma mette l’accento sul mio problema. Io, scrittore acclamato in tutta la Russia come autore di Invidia, voglio sottrarmi al mio destino. È assolutamente e psicologicamente vero, dentro di me, anche se non l’avevo mai confessato così chiaramente: Petrov ha scritto qualcosa di cui io ammetterei volentieri la paternità.

Credo, in sostanza, che la forza monumentale dei capolavori annunciati, ci distragga dalla verità eccezionale delle opere scritte con la mano sinistra – ognuno di noi potrebbe avere scritto gli appunti e le lettere citate da Petrov ed essere stato ora Cechov ora Leskov ora Belyi ora Vaghinov. Questi scrittori appartengono tutti alla stessa specie, perché sono colti in un momento estremo o intimo della loro arte. Sono un autore dalle molte mani e dai diversi destini. La somiglianza più precisa e impressionante che mi viene in mente è quella con un organo nelle cui canne soffiano tantissime voci. La lettura di queste pagine ci suggerisce che esiste una misteriosa uguaglianza di stile che i secoli non riescono a cancellare: nei diari e nelle lettere degli artisti abita quella misteriosa e comune affabilità che, nelle loro opere maggiori, quegli stessi artisti non possiedono o si rifiutano di mostrare. Henry James disse poco prima di morire “Ecco qui,questa cosa distinta”. Probabilmente alludeva alla morte; per lui e per molti scrittori, ne sono certo,la capacità di distinguere appare solo nella lucidità della morte e diventa, per citare un racconto celeberrimo dello stesso James, la loro specifica Cifra del tappeto. Finché siamo vivi, un filo rosso ci accomuna e non ci consente di distinguere tra il ricordo di Dostoievskij o l’aforisma di Cechov. È tutto un cielo fitto di stelle e ogni stella brilla del suo particolare chiarore, vicinissimo al chiarore dell’altra. Quale filologo potrebbe distinguere una dall’altra senza spazientire il poeta? Questo cielo fitto e luminoso non è forse il Fiore rosso di cui ci parlava Garsin in un celebre racconto – il desiderio inspiegabile di un folle per un fiore rosso, un desiderio così intenso da privarlo della ragione ma non della voce? Immagino talvolta un cielo non fitto di stelle ma di voci, e la mia attenzione si sposta rapidamente di voce in voce, senza potere, senza sapersi fermare Ogni opera intona sempre lo stesso tema, ma ogni volta lo esegue con timbri diversi. Ricordo ancora l’esecuzione alla radio del Bolero di Ravel sotto la bacchetta di Guido Cantelli: l’esecuzione era strepitosa perché trascurava il tema per mettere in risalto la nitidezza della percussione. Il notissimo refrain raveliano ne usciva fuori come il rombo selvaggio di mille tamburi africani..

Io penso che la stessa percussiva e sotterranea violenza occupi i taccuini passati e futuri degli artisti che avremo in sorte di conoscere vivi o morti, e questa uguaglianza, più che turbarmi, mi rallegra e mi convince che, in un modo o nell’altro, potremmo sempre pensare, benché lontani nello spazio e nel tempo, lo stesso sogno e questo sogno non smetterà di ricreare il mondo. Obietterete – ma se tutti questi racconti non fossero solo una capricciosa invenzione di Petrov, un divertissement senza altro scopo che quello di menarci per il naso, un banale apocrifo? Una futile parodia? Vi direi: è la stessa cosa. Non avete forse immaginato, leggendo queste pagine, che Cechov fosse Cechov e Garsin Garsin? Anche se qualcuno vi avesse ingannato, ciò che conta non è forse la sensazione che abbiamo vissuto, l’emozione eccezionale di trovarci sempre, in qualsiasi momento dell’atto artistico, nella piacevolissima posizione del funambolo che può volare di sotto, attratto da una musica antica, come volare di sopra, stregato da una musica nuova?

PER “LA SPECIE STORTA”. Giorgiomaria Cornelio

Qui si tenta una prima lettura di questo libro vertiginoso e lieve di Giorgiomaria Cornelio, sul quale sarà necessario ritornare.

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I testi di La specie storta sono stati scritti tra Dublino, Valle Cascia e Venezia, e pubblicati dalle edizioni Tlon, che così si presentano: “Le edizioni Tlon nascono dall’esigenza di mettere al mondo libri come gradini su cui salire, maniglie da afferrare, vele da spiegare e briciole da spargere”. In La specie storta, che esce nella collana “Controcielo” ed è rischiarato dalle partiture visive di Giuditta Chiaraluce, si parla della memoria dei “nati di contro”, di “specie storta”, di “fossili di rivolta”: qualcosa, nel lessico di queste prose/poesie, evoca il genio bizzarro di Henri Michaux. Ma Michaux era un angelo alternativo di questo pianeta, ironico e surreale. Nel libro di Cornelio c’è un vento da oltrepianeta, un’aria rituale che percorre favole colte nel “troppo sbandare”, apologhi ineluttabili, vertigini in stato di grazia. Non è, naturalmente, un libro solo di favole, e neppure un volumetto che raduna versi e prose: è l’arcaica mappa di un viaggio mistico/materico che sfuma nella nube della non-conoscenza, dove un noi plurale descrive l’immersione in un mondo sonnambulo, organico, vegetale, che è mysterium gaudioso, grazie anche alla lingua poetica che viene usata – inservibile, ustionata, contorta, splendente. “Solo la ferita conosce il nucleo insonne della ferita”. Questa cronaca di spiriti che “smuovono la finitudine” dissolve ogni regola nota, è nuova e personale navigazione dove si può dire: “Prega ogni giorno che basti una lucciola per dar fuoco al mondo”. Leggere questo libro ci consegna al ritmo di un creare diverso che freme come un nuovo “cominciamento”, nell’oltre della grazia. “Allora / le doglie scavalcheranno / il concepimento. / Allora resteremo abbandonati. // E per questo / salvi». Si profila, come paesaggio, una fornace, una miniera sotterranea. un luogo arcaico – sigillo di utopia. Si parla da superstiti che vogliono ritrovare una archeologia del possibile, dove “i corpi estinti e i corpi negati andranno restituiti al mondo che viene”. Se “sta scritto: ciò che è storto non può essere raddrizzato”, tutto il libro è l’andirivieni di un movimento immaginativo che “propone non una ginnastica di raddrizzamento ma un’ulteriore postura della valanga”. Ciò che versi e prose attestano come “fossili di rivolta” è l’evidenza di un dono, di uno stato di trance rigorosa e febbrile. “Tempo di ripartire. Coloro che dovevano hanno parlato. Qui non possiamo più restare. Torniamo nel dirocco, tra terraglie malconce, tra pozzi turati”. Scrive Elena Frontaloni: “Nelle favole di Cornelio e Chiaraluce si propone all’invero un’impossibilità di totale estinzione, si enfatizza il valore gaudioso di ogni corpo e di ogni parte di ogni corpo, si attribuisce una funzione costruttiva ai resti del mondo e delle parole e alla loro metamorfosi, si rigetta la distinzione tra cielo e terra, tra alto e basso, per ridisegnare una topografia immaginale dei luoghi, abitati da esseri profondamente nuovi per ii quali la città diventa fornace alchemica e l’inverno stagione di crescite e promesse, in una primavera sotterranea che non è metafora ma biologica realtà”.

Cornelio propone una scrittura semplice, complessa, eversiva, articolata in variazioni, che lascia il lettore nel guado di un fiume ipnotico di cui non intravede più le rive, come accade nel viaggio finale di Aguirre. “Badate: è semplice lo sprofondo”. Ogni volta che il poeta riprende a parlare si delinea un altro tratto di paesaggio, un nuovo frammento di visione. Così conclude l’autore: “Vorremmo giunti qui – all’approdo del nostro dire -, immaginare questo sforzo di attenzione come il prodursi di un tremolio in ciò che è dannato; un trasalire che non distrugge la dannazione, ma genera un piccolo intervallo tra la cosa e se stessa (fra l’inferno e se stesso). Poesia è dare un nome di riconoscenza a questo tremore. E farlo durare, fargli spazio”. “Il pensiero del tremore”, scrive Edouard Glissant. E la scrittura, per Cornelio, è un avvicinamento inflessibile, insolente, meravigliato, a questo tremore. Per iniziare un’indagine della sua poetica, occorre essere in un punto estremo della parola e del narrare dove quanto accade non ha bisogno di teorie, spiegazioni, codici, ma naturalmente accade: è il desiderio di liberarsi, anche come “specie storta”, nell’utopia di una generazione superstite che distacca da sé l’inferno, e propone un viaggio senza custodi, a colpi di sonda, con ferite d’ascia o tagli di lama. Chi parla, ha da dire soltanto le sue/altrui risonanze, corrugando o lievitando la sintassi, creando grappoli di versi come covoni di Monet, nel suo oro visionario. Ma dobbiamo approfondire il tema dell’aberrazione e dell’apocatastasi. Scrive Cornelio: «Come definirei un’aberrazione? Forse come una specie di tenacia implacabile, di fede furibonda nella polvere degli eventi o nella verità di un inciampo; come una deformazione capace – nel tempo – di fare del rigore l’esercizio del suo attorcigliamento». E, più oltre: «allontanata l’esattezza del dato, ciò che si salva è la vertigine di un metodo». Di questa vertigine il libro è portatore sano, come di un delirio che feconda e non distrugge. E, rispetto all’Apocatastasi, Cornelio annota: «…Condannata come eresia durante il secondo Concilio dii Costantinopoli, la dottrina dell’Apocatastasi conosce numerosi periodi di risorgenza, arrivando ad affascinare anche Walter Benjamin, che ne parla nelle sue considerazioni sull’opera dello scrittore russo Nikolaj Leskov: “Egli era molto influenzato da Origene (…). In armonia con la fede russa interpretava la resurrezione come una trasfigurazione, come la liberazione da un incantesimo, in senso affine a quello della favola” (il narratore). In un tempo di rifiuti perentori, questa interpretazione può esserci utile per non esprimere tutto quanto è dannato, comprese le aberrazioni, le “fondamenta” e gli attrezzi che hanno fatto parte della causa dell’oppressione e che ora siamo chiamati a rovesciare. Ma se la dannazione è propriamente ciò che si mantiene senza rimedio, come fare salvo il “dannato” oltre il compito della salvezza?».

Qui si chiarisce un tema caro a Cornelio: la performance della redenzione, vista come liberazione da un incantesimo senza più sensi e significato, liberazione che è minima attenzione, spirituale e sensuale, all’intervallo fra le cose, al loro intimo tremore. Una foglia mossa dal vento, libera da ogni mandato se non da quello dell’aria che la fa oscillare, è la verità esemplare che si nasconde nella complessità. Un fruscìo reale, ai confini delle cose, oltre ogni dovere di redenzione e di salvezza. Nel suo saggio Rabbrividire (pubblicato in “Antinomie”), Cornelio motiva in modo scientifico la sua attenzione verso i bordi delle cose: «Che ai bordi  le cose reclamino un proprio riconoscimento lo spiega il neuroscienziato Giorgio Vallortigara attraverso il fenomeno dell’Inibizione laterale: si tratta “di una trovata ingegnosa promossa dalla selezione naturale più di cinquecento milioni di anni fa, che possiamo vedere all’opera anche oggi, non solo negli invertebrati con gli occhi composti, ma anche nell’occhio a camera di animali come gli esseri umani. La sua funzione sembra quella di filtrare l’enorme massa di dati potenzialmente disponibili nelle immagini, scartando quelli ridondanti e lasciando passare invece quelli informativi. Le superfici omogenee non convogliano informazioni lungo la loro intera estensione, è soltanto nei bordi, là dove le cose cambiano – in colore, chiarezza o tessitura – che dimora con agio l’informazione. Questo spiega perché semplici disegni a tratto siano così efficaci nel rappresentare le scene naturali: i sistemi visivi si sono evoluti per rivelare i margini, così da segregare figura e sfondo. I disegni a tratto, che rivelano solo la transizione figura-sfondo, sono rintracciabili dagli albori della rappresentazione pittorica nella storia umana, fin nell’arte rupestre (Pensieri della mosca con la testa storta)”. Vi sono due modi di guardare ai bordi: come luoghi di fissazione, di stringente e avara familiarità, oppure come luogo di transito, di una conoscenza di confine che, nel momento in cui conferma la propria momentanea confidenza con la figura, già si prepara a doverla riattraversare. I bordi, lo ripetiamo, tremano, necessitano di una continua rinegoziazione, vivono di tensioni, di differenze irrisolvibili. Proprio l’arte rupestre lo afferma con più forza, mostrando che la ripetizione multipla degli stessi contorni non ha come scopo il congelamento delle figure, ma il loro movimento: i contorni determinano l’inafferrabilità, e basta una torcia per mettere in moto gli animali, per romperne l’inerzia, per vederne cambiare di secondo in secondo il margine». Se i contorni determinano l’inafferrabilità, la poesia esiste negli inafferrabili contorni del pensiero e delle cose. Il poeta, oggi, dovrebbe indicare i modi in cui la materia delle proprie parole – i toni, i ritmi, le phonai del linguaggio – convive con la materia del proprio “sentire” – emozioni, pensieri, significati. La parola poetica, attraverso la discontinua e tormentosa necessità della sua fisiologia linguistica, vive la necessità, altrettanto discontinua e tormentosa, delle passioni che la modellano. Il poeta è chiamato a un gesto, a una visione in cui, fuori dalla parola ma vincolato alle sue leggi, riviva il cortocircuito fra suono e senso come atto di ri-trasformazione e ri-nominazione del mondo – trionfo della specie storta, dei nati contro, delle galassie parallele. Alla fine, la sola lotta è quella contro il dolore. Non a caso Cornelio cita il Lenz di Buchner: «Ma io, se fossi onnipotente, vede, se io fossi così, non potrei sopportare il dolore; dovrei salvare, salvare». (M.E.)

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Breve antologia

L’isola del torcibudello

Non era qui che dovevamo finire: cerchiati da un giacimento di frane; sparuti per il troppo sbandare. Ma a noi hanno insegnato soltanto la manovra dello sbando. Su quest’isola non c’è una buccia da succhiare, o un poco di cicoria per la povera minestra. Solo Lui che qui regna, Parla forte. Scolora nel pentimento. E se guarda, sradica la luce dagli occhi. Lo chiamano Torcibudello. Fu altre cose: l’inizio del polverume. L’Iguana che inghiottì il sole al tempo della prima estinzione. Poi l’Attosicato, l’Albero Patriarca. Ora ha gli Arresi come servi. Regola le calure del globo, e sceglie le dodici eclissi rivoltando il calendario.

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L’isola dei fondamenti immobili

Non tutti sono tornati in mare. È facile incollarsi all’inciampo, dire basta e presto dimenticare la rotta. Così fu per il regno e la perla. Così anche per noi.

Abbiamo remato. Sbandato una volta ancora. E adesso avanziamo su un’isola che pare il Diluvio impietrito a forza.

*

La nave dei bastonati

È tra le acque che li abbiamo avvistati, La loro nave c’è venuta incontro come un’ingiuria. Stirpe senza rimedio. Sterminatori con bastoni dalla testa di iena. Hanno l’odore dello scannatoio. Hanno una rabbia che insogna paesi senze più alture, e una giustizia lavata dalla giustizia.…

Voi siete deboli. Avete solo la preghiera. Ma nell’altrui indolenza, la preghiera è sottovento.

*

Non c’è pace nelle mie ossa. Sono

mischiato con ciò che indietra.

Frugo nel cesto dei morbi le mie

malora.

*

Non c’è correttura che

rivolti all’indietro, siero e leva

per il nato di contro.

Oh vita giù accanto alla paglia,

antartide a confetti, provincia

della malinconia. Mi avete di–

giunato.

*

Allora

prima che sia ancora guerra,

bucherò la placenta di questo

sonno, farò l’occhio aguzzo,

l’occhio desto, per fissare, den-

tro la strabica radura della

specie, la specie non corrotta,

la forma di ciotola vuota.

*

Di tutti i nomi, solo

uno non sarà vinto:

quello che ancora

manca.

Chi ha polvere nella bocca.

Chi è nato sotto il tamburo.

Chi non serra il cerchio.

Benandanti, sconclusi, dis-

sepolti, male fatti. Siamo

sempre stati qui: nel punto

in cui le parole

si ritirano.

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Giorgiomaria Cornelio (1997) ha fondato insieme a Lucamatteo Rossi l’atlante Navegasión, inaugurato con il film “Ogni roveto un dio che arde” durante la 52esima edizione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. La loro “Trilogia dei viandanti” (2016-2020) è stata presentata in festival e spazi espositivi internazionali. Cornelio è curatore del progetto di ricerca cinematografica «La Camera Ardente», e redattore di «Nazione Indiana». Suoi interventi sono apparsi su «Le parole e le cose», «Doppiozero», «Il tascabile», «Antinomie», «Il Manifesto». Ha vinto il Premio Opera Prima con la raccolta La Promessa Focaia (Anterem, 2019). È uscito per Luca Sossella Editore il suo secondo libro di poesia, La consegna delle braci (2021). Nel 2023, per le edizioni Tlon, pubblica il libro di prosa e poesia, La specie storta. Insieme a Giuditta Chiaraluce ha ideato il progetto di esoeditoria Edizioni Volatili.

PER “MACULA”. Letizia Polini

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La poesia di Letizia Polini “procede per allusioni e bagliori dentro un buio che non è facile scalfire”, come scrive Umberto Piersanti nella prefazione. Questo il fulmineo inizio della poesia eponima: “Posso enucleare l’occhio / per vedere meglio il mezzo, / osservare / ciò che non dovrei / ciò che non potrei / vedere meglio / vedere meglio / assomiglia / a una disfatta. / Le parole: / come gli ossi, / reggono la struttura / principale”. Possiamo già intuire, dalla prima poesia, il tratto di un disegno geometrico le cui pulsazioni interne sono contenute nel rigore dell’espressione. Il libro si articola in quattro parti (di cui la prima, Macula, è il breve preludio): Macula, Visione centrale, Visione periferica, Piccoli atti di visione. Senza entrare nei dettagli dell’indagine critica, ricordiamo che la macula dell’occhio è la parte della retina dove si trova la visione centrale, quella che ci permette di distinguere, nel dettaglio, i movimenti, i colori, i volti. Questa poesia ha la sua prima fascinazione nella appuntita leggerezza delle descrizione, sia si tratti di paesaggi esterni come di emozioni interne: “Tracciarti il contorno / per ricordare la forma // e rifarla. / Nel sonno fare densa l’orma / della sparizione, ricordare / che ti è intrinseco tentare / con prudenza l‘equilibrio / sulle linee quando corrono / verso il punto della fuga”. Immagini tragiche e surreali riducono l’emozione a disegno essenziale, quasi a tentarne l’esorcismo: “ È sempre lo stesso: / affondare al centro del petto / le dita fanno l’ultimo intreccio. / Prima un piede,/ poi l’altro. / Serrata l’apertura / diventi capello sul foglio / o ciglia. / Non lo sa ciò che resta, / l’occhio / o la testa, / chi precipita / l’ultima scala / o la porta / possono dire”. La ricerca di Letizia Polini è guidata da un’ellissi espressiva, che è volontà di sparizione/ liberazione dai vincoli de corpo e della mente, ma sempre delineati in punta di penna, quasi direi “scolpiti”, con malinconica ironia. Il verso breve ne è testimone: “Levare, / scomparirsi pezzo pezzo / straripare dal sistema di svuotamento / dove porre il corpo andato perso. / Mettere ogni cosa a posto / ripiegare impilare / spostare poi aprire / arieggiare”. La fermezza della voce innerva una poetica tragica, scandita da segni densi e rigorosi, che evoca la fermezza di Paul Wuhr: “Non posso dire tutte le parole / natatorie, in quest’aria mutilata / basta stare per attraversarsi / e senza pronunciare, / il filo sfinisce / ai due capi / c’era l’uno / c’era l’altro”. Letizia Polini, all’ìnterno di una visione asciutta e laconica, ci sprofonda nel dolore dell’io gettato nel mondo, dolore che raggiunge la più intensa cifra espressiva per contrasto, attenuando la potenza espressionista della parola: “Svincolarmi con la forza delle mani / che mi avrebbero sperduto in calamità naturali. / Dentro l’ennesima separazione / che non salva, si precipita / viene la febbre alta quando la casa è vuota, / quando la lama opera e non ricuce, / almeno il corpo prende aria” (M.E.)

Antologia

Con la schiena bruciata

apri e spunti

oggetti appuntiti,

a nervi infiammati

ammansisci l’asfalto,

sai disfarlo nel verde,

“si procede lo stesso”

farsi portare da questo,

rendere il petto capiente,

metterci i resti.

*

Dici tutto

ora che sei senza

parola, implori

la riconciliazione.

Dicono che hai fame e,

sfamandoti,

ti fanno allungare le ossa

e indurire la pelle.

Non credere

al ritorno del nodo

ricorda l’urlo, quando

avrai la parola.

*

C’è potenza in questo tuo scavo

del volto, trapela da luccichii

perenni, risalgono dagli occhi.

Parli come se sbriciolassi

il pane, senza perdere la strada

cammini senza risparmiare

porzioni di terre emerse,

incendi.

Graffi quando passi, annodi

e lasci cumuli di resti.

*

Ti vedo affogare sulla riva

e fissarmi senza vedermi.

L’orizzonte ti pesa e tu

gli porgi le spalle, ti ripari

dal sole piegando la testa

eppure mi bruci davanti.

*

Abbiamo scrostato l’ombra per rendere chiaro

il tempo che ha la lucertola a staccarsi la coda.

Abbiamo contato gli spasmi dell’amputazione

rinunciando anche noi a una parte di corpo.

Quando sono mancate le parole che tiravano

l’inizio del giorno

e la fine

la coda apriva fra i sassi tagli perenni.

*

Dai capelli si capisce che è la figlia,

è la figlia che circonda

il padre con il braccio,

si porta all’orecchio

gli dice qualcosa,

lui fa no con la testa.

La domanda alla bimba

le si spande fra i capelli,

poserà una pietra

cambierà intonatura,

le parole.

La domanda non si estingue

scorrerà nelle vene.

*

A dividersi gli organi si svuotano

e le braccia improvvisano

una collana di resti

stare così con ciò che rimane

e finire

la serie di separazioni a noi destinata

o essere come certi liquidi,

per natura a sé fedeli,

l’olio nell’acqua si fa calotta e non s’apre

neanche sprofonda,

la pioggia penetra la terra

gonfia brilla, poi evapora

ritorna.

*

Domandarsi se queste architetture del corpo

non siano mappe che disvelano nature.

Se tutto non sia già scritto nelle ossa.

Io per natura aspetto, non riordino

come farei con un cassetto.

Restare dentro al corpo

come sulla soglia di casa

ad osservare cosa accade

quando nessuno

guarda.

*

Permane una struttura che forza,

allenarsi ad uccidere per vedere

cosa accade a sparire.

Consistere in una ferita

scrostarla

per non farla più guarire.

C’è liberazione in questi

esercizi di dolore

in questi abbandoni.

Letizia Polini

Giovanni Castiglia