I testi citati dal commento sono tratti da: Angela Passarello, Poema Rupe, New Press, 2022.
Se escludiamo i pochi versi introduttivi e un paio di eccezioni, abbiamo davanti coppie di quartine, una coppia per ogni pagina, e ogni quartina reca la propria immagine chiusa in sé, tessera di un mosaico che abbraccia tutto il poema. Talvolta l’immagine è semplicemente esposta, ti si para davanti; talvolta ti trascina verso una microstoria narrata da poche preziose espressioni folgoranti. E tutto ruota attorno a “Rupe”, parola iniziale di ogni strofa che, pagina dopo pagina, aumenta di concretezza tanto che ne vedi il profilo con il suo intorno di
“pipistrelli
Indiavolate creature dei sogni
con zip zip modulanti nell’aria
gli echi di ritorno.”
e con il suo riflettersi in
“antri di roccia
regno della vespa scavatufi
guerriera pungicarne
dei vespai di frontiera.”
Ti si impone in un
“quotidiano scorrisguardo d’orizzonte”
baricentro di un mondo dove
“fossili e archeologie
custodiscono mutamenti”.
La Rupe è dotata di un gigantesco occhio che osserva un mondo la cui ricchezza vive nella sovrapposizione di umano-animale-minerale, di mormorio di futuro nel passato, un mondo il cui persistere nel ricordo di chi scrive ne consente la sopravvivenza proprio perché, giorno dopo giorno nel tempo, ne ha strutturato l’identità. La Rupe è una roccia-creatura, frutto della magia di un pensiero bambino che si lascia catturare da ogni figura osservata – “figure” come dice da par suo Angelo Lumelli autore della prefazione, “che si avvalgono dell’esistenza come dell’unico movente, ancor più quando fossero resistenti al senso. Renitenti”. La suggestione che avvolge chi legge, infatti, è proprio questa: non sempre il flash che ci regala ogni singola quartina è benedetto da un senso. In molti casi è sospeso sulle ali della meraviglia di uno sguardo infantile che lo osserva prima ancora di poterlo comprendere.
“Rupe dell’urinante con le gambe aperte
dal sollevato lembo del vestito nero
statuaria come una matrona greca
lu cuntava nella sua intrepida lingua”
Il piccolo conosce solo quello che gli portano i sensi e quindi regala alla sua dea profumi:
“Rupe odorante di malve e di roseti
aggrovigliati su muretti di frontiera”
suoni:
“Rupe gridata dal gabbiano sulla costa”
“Rupe dal sentore orecchiabile
con il cri cri di grilli e di cicale”
“rupe dimora della civetta ohu ohu”
colori:
“Rupe della volta celeste segnata
da vettori unidirezionali”
sapori:
“Rupe del siero ricottaro profuma-aria”
Poi la bambina cresce ma la magia della Rupe rimane in quella terra di mezzo che si apre per ogni gesto creativo e, in particolare, per ogni produzione poetica. Il poeta mantiene le potenzialità di ogni passaggio, bambino accanto al ragazzo, all’adulto e al vecchio, mai regressivo ma evolutivo (solo se salvi i chicchi del melograno puoi avere la pianta). È il misterioso fenomeno dell’immaginazione creativa che affianca all’intuito della mente le funzioni inconsapevoli di comprensione emotiva che il cuore ha maturato negli anni. Ora la Rupe ha pensieri “da grande”. Può provare pietas:
“Rupe accarezza silenzio dei morti
nel fruscio la cima del pino
come un angelo chino
sul marmo del riposo perpetuo”
“Rupe dei poveri rognosi dormicane
dall’occhio querulo.”
può persino giudicare:
“Rupe dei nulla facenti guardiacoste
riluttanti a imprese salvavita
di barconi rovesciati
con i morti trascinati dalle maree”.
“Rupe martoriata da costrutti
afferravita
di organi e di apparati
di viventi ignari delle alterazioni.”
“Rupe della maldicenza provinciale
In ammiccamenti sparlagente
fra uscio e uscio
voci sussurrate da malalingua.”
Una sola cosa la Rupe non può fare: decidere se essere pietra o poema. È proprio il paradosso della sua doppia natura che può farne quello che è per Angela, quello che è per noi: un frutto di hic et nunc e di storia, di natura e cultura: un mito con una faccia verso le pale eoliche ormai assimilate nel paesaggio e una faccia verso lo
“scacciamalocchio degli orti
nel rituale della semina annuale
mormorando preghiere alla luna.”
