MARSIA. Francesco Denini

Marsia. Aforisma come evento di una forma

Improvvisazione quasi musicale su Nottario di Marco Ercolani (e un caldo invito a leggerlo)

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Dissolta la pietra del cervello

inesprimibile ebbrezza scorre

in tutti i corpi che tacciono

nei loro pesanti confini e sciolti

leggeri volano più in alto degli astri

più in basso delle radici della terra.

E tutto questo sa unire l’altro suono?

Lucetta Frisa

I libri in cui Marco Ercolani è venuto perlustrando negli anni i più diversi piani di scrittura sono davvero molti. E tra quelli che proverei a riunire in un’immagine teorica d’insieme ci sono in primo luogo Lezioni di eresia (1996), Fuoricanto (2000), Vertigine e Misura (2008), L’archetipo della parola (2018) e Galassie parallele (2019). Ma dovrei poi aggiungere subito Il tempo di Perseo (2004), Discorso contro la morte (2008), Sentinella (2022), Turno di guardia (2011), Preferisco sparire. Dialoghi con Robert Walser (2014), L’età della ferita (2022), al cui carattere attribuirei ora tratti più creativi, ora toni più apertamente esistenziali, ora squarci riflessivi entro gli ambiti della sua professione di psichiatra. E l’inadeguatezza di ogni inquadratura più ordinata risulterebbe probabilmente già evidente anche solo dalla polifonia di questo elenco. La domanda che può quindi sorgere è quella per cui ci si chiede come sia possibile orientarsi nel affrontare tale molteplicità.  

La sua scrittura – sebbene sappia farsi non violenta nei confronti degli scomparti di biblioteca più vicini – è congenitamente sorella di ogni entartete Kunst e di ogni art brut, mossa da presupposti che non si limitano a prevederne l’interstizialità o l’ambivalenza, ma perseguono la consapevolezza dello strappo che spinge questa sua natura anfibia e sonnambolica in prossimità d’ascolto con la follia.

Su Nottario. 2015-2021 posso dire che appartiene a quei libri che ‘leggono’ il lettore. Ma non ideologicamente. Leggono dentro il lettore, gli chiedono: ‘Cosa leggi?”. Forse è una peculiarità del libro di aforismi: non è solo un fatto di rispecchiamento in un personaggio o in una vicenda. Da Eraclito in poi, forse da I Ching in poi, il lettore rimane impigliato nello scritto senza che lo scrittore, o chi altro, ne avesse coscienza dell’intenzione. Nessun ragno, nessun uccello nella rete. Un cenno scritto, un lettore che lo coglie. Ho idea che questo scrivere dia il meglio di sé quando non c’è più ‘il’ lettore, ‘lo’ scrittore. Non si tratta dell’aforisma a contatto immediato con l’Assoluto dei romantici. Nemmeno dell’aforisma dialettico di Adorno. O dell’aforisma preghiera o racconto di Kafka. Al fondo c’è l’idea che l’esperienza e la coscienza siano più autenticamente se stesse quando perdono contatto o meglio non hanno mai veramente avuto contatti con alcuna intenzione: contatto quasi diretto tra due inconsci.

Nottario – pubblicato nell’aprile 2023 per i tipi de “I Quaderni del Bardo”, nella collana ‘Dissensi’ diretta da Donato Di Poce (e che prosegue una omonima impresa tenuta sul web tra il 1990 e il 2010) – si propone, nella Prefazione dell’autore, quale luogo idealmente devoto al facteur notturno, lo scultore e architetto Fernand Cheval, intento lungo gli anni, notte dopo notte, alla costruzione in ‘semifolle lucidità’ del suo Palais Ideal. E questa programmatica devozione s’esplicita lucidamente rimandando all’idea che il poeta Nanni Cagnone è venuto proponendo nel suo libro Discorde (2015) di una poesia che “ricerchi il compossibile”, una poesia cioè “che non perda la fortuna dell’insonnia”, che si faccia laboratorio di un abisso di “libertà irriducibile”, di una “lontananza costitutiva”: “Dover scegliere equivale a perdere le illusioni infantili. Si deve preferire, si deve rinunciare. Rassegnazione inevitabile, ma difficile da esercitare per chi, in poesia, ricerchi il compossibile” (pag. 10) L’etica sommersa nei Tre saggi sulla sessualità infantile da Freud è, direi, insomma, qui, per un attimo, e programmaticamente, sospesa. E gli aforismi contenuti nel libro – ordinati a tre per pagina quasi a seguire una numerologia proto-junghiana, che elegantemente si stempera e un poco si fa dimenticare – assumono al contempo forme imprevedibili come gocce di piombo fuso in acqua fredda: “Proprio per ciò che non è dicibile costruisco grotte di parole.” (pag. 52). Siamo indubbiamente in un laboratorio poetico. Ma qual’è il lavoro all’interno dell’aforisma? Non sembra questo il regno del cortocircuito surrealista. E non si tratta certo qui delle antitesi alla totalità di Adorno, né di ciò che l’Heidegger del primo Schwarzer Hefte opporrebbe, a lui e ad altri, in quanto baluardo alternativo a ogni “formula di ciò che è pienamente pronunciato” e in quanto “vicinanza pensante al lampo dell’impronunciato” in cui “l’esperire approda a quella cosa (Sache) che in sé è l’intero, ma lo è in quanto “subitaneità del silenzio del mondo”. Né del tutto, né dell’intero qui è, per Ercolani, questione: “Se la luce del giorno non è compatta ma si dissolve nelle cose e le dissolve, nessun sole dominerà nessun paesaggio” (pag. 9).

Si tratta più probabilmente dell’infinito di Levinas, della suo differire rispetto al divino immediato dei romantici e alla totalità dialettica degli idealisti? “Guardare il centro è una forma di potere. Osservare la periferia è il diritto a difendere la propria esclusione.” (pag. 97). Si tratta forse della differenza tra scrittura e logos di Derrida, del cenno e della traccia come propaggini del segno e del linguaggio (Wittgenstein)? “Guardano fogli bianchi, ma fitti di incubi oscuri, non ancora disegnati” (pag.32). Qualcosa traluce forse, nell’aforisma, del nesso tra Eregnis e Liebe che l’Antonella Di Cesare di Heidegger & Sons riconosce ad Agamben come radicale impossibilità, riducibile e non, a custodia della lontananza e quindi a preludio/postludio dell’abbandono? “La mia carezza e i suoi occhi, colmi di gioia. Come vorrei dimenticarli così vorrei ricordarli fino all’ultimo secondo di vita: solo la certezza che l’amore ci attraversa e ci rende immortali, come un vento di cui non dobbiamo presentire la fine” (pag. 76). Si potrebbe rispondere con alcuni sì. Ma sarebbero comunque dei sì parziali.

E la filosofia non è respinta nemmeno là dove si preserva dall’ontologia più dispiegata: prospettive scientifiche ed epistemologiche sono convocate a interloquire con il poetico; anzi, a tratti Ercolani sembra far dialogare un fronte e l’altro del dibattito di Davos del 1929 (Heidegger/Cassirer): “Non una mente ordinatrice, non un progetto della ragione, ma il sonno in cui sembrano non esistere: a questa pausa si ispirino le scienze dell’uomo. Cancellare il reale con un mondo visto nel sonno, senza che diminuisca il desiderio di sognare” (pag. 9). In genere, il dibattere filosofico è la premessa a questo esprimersi aforistico, là dove la grande letteratura – da Lichtenberg a Hofmannsthal, da Goethe a Canetti, ma anche da Guicciardini a Vico, da Pascal a René Char – ne è antefatto formante.

Figlio di sibille e proto-filosofi, medici e giocolieri, l’aforisma letterario è anche un problema temporale: nipote ripudiato da poemi e romanzi fiume, è esso stesso un messo d’emergenza lanciato nella Biblioteca di Babele, un proverbio ‘impopolare’, un sussulto del linguaggio nel sapere e un singulto del sapere nel linguaggio. La sua vicenda chiave è quella avvenuta con i Romantici tedeschi che, dopo la pacatezza di un Lessing, si scontrano con la questione della totalità assoluta come posta dai filosofi idealisti, contro la metafisica dell’armonia leibniziana e parimenti successiva alla caduta dei principi di causa (Hume, Kant). Ma la storia è anche anni luce lontana. Si è in un luogo del corpo che sembra lontano dalle trasvalutazioni di ogni valore (Nieztsche) e dalle differenziazioni ultime come resistenze alla/della metafisica: “Restare vivi, in un rapporto amoroso con l’aria. Questo amore rende comprensibile il suicidio di Deleuze: non potendo più respirare, il filosofo spalanca la finestra e si getta nel vuoto” (pag. 100).

Questa idea temporale dell’aforisma sembra collocarlo in un interregno tra ‘evento’ e ‘forma’. E la mente vagola. Se, ad esempio, Martin Heidegger avesse considerato l’opera di Carlo Alberto Diano Forma ed evento: principi per un’interpretazione del mondo greco (1952), avrebbe forse collocato diversamente la posizione filosofica del popolo ebraico e anche molta sua filosofia dopo la Kehre sarebbe stata diversa? È qualcosa di impalpabilmente prossimo da suggerire Lessing allorché, in un suo aforisma, definiva la grazia come bellezza in movimento. E le ipotesi si approssimano a tentoni in un luogo che riguarda la considerazione del ‘tempo’ e dell”altro da sé’ messa in gioco da questi aforismi. La mente torna a quella differenza che Lukacs indaga tra l’allegoria in Schiller e il simbolo in Goethe, qualcosa che attiene a loro più che Freud, quando Nanni Cagnone viene indagando la compossibilità nel poetico (Cagnone si direbbe conoscere a pelle queste cose). E qui Ercolani lancia una teoria, con riferimento ad Jaynes e al suo affascinante Il crollo della mente bicamerale per reimmaginare un mondo completamente popolato dagli Dei (pag. 63) in un modo che, tra l’altro, entra in risonanza perfetta con il recente La lezione degli dèi di Lucetta Frisa (New Press Edizioni 2023). Ma tale prospettiva mi sembra più vicina indubbiamente a quella di un Levinas. L’allegoria si allineerebbe all’evento di una forma come libertà della responsabilità? Il simbolo si allineerebbe alla forma di un evento come responsabilità di una libertà? Un’uscita dall’aura si alleerebbe a un qualche hic et nunc come due facce di un nastro di Moebius? Questa è forse la zona che, in poesia, avvicinerebbe le poesie di Ecolani alle incredibili vette extra-genere di Flavio Ermini? “Abbiamo liberato ombre non per trovare qualche improbabile luce ma per custodire meglio i contorni. Non ci sono mai due ombre uguali, e con lo stesso significato” (pag. 75). Lascio aperte queste domande per futuri approfondimenti più ordinati.

Mi soffermerei invece su un aforisma relativo a Marsia (pag. 11), pensando alla musica in un senso a me caro. “Marsia è strumento a fiato, voce del corpo, porta infera. Nessun Apollo può scorticarlo perché nasce scorticato”. E così rispondo, sebbene solo in modo personale, alla domanda su come orientarsi all’interno della scrittura tutta di Ercolani. Il fenomenologo polacco Roman Ingarten, esplorando l’ontologia dell’opera musicale in L’opera musicale e il problema della sua identità (1958), si era scontrato con la difficoltà di focalizzarne il nucleo soggettuale tra spazio documentale della partitura e tempo diretto, se non estemporaneo, dell’interpretazione dello strumentista. La proiezione cartesiana che la pagina musicale pone rispetto al tempo dei suoni per il fenomenologo sembra vada intesa, oltre che come condizione di possibilità dell’opera musicale come uno spiazzamento ontologico dell’opera stessa. E qui entra in gioco il mito di Marsia. Ma in una versione che non potrebbe essere più moderna, e che mi sembra di ritrovare in quel che Ercolani dice puntualmente su Rimbaud (con cui concludo) (pag. 60): “[…] Rimbaud sposta le frontiere del noto verso ciò che, inaccessibile e sovversivo, l’ignoto predispone per noi. […] Come pochi altri classici della poesia, Rimbaud non è leggibile in un modo conclusivo. La sua incursione nel mondo della letteratura è una meteora disgregante, un’intrusione che attira tutte le domande e tutte le risposte, un enigma che ha scordato il suo senso, un furore freddo e grottesco che trascina via dalla stessa magia della scrittura e ci fa dire: “E se tutto fosse sempre e soltanto segreto?”. Qui filosofia dell’aforisma e letteratura sembrano incontrarsi e suggerire qualcosa che potrebbe riguardare l’ontologia stessa dell’opera musicale, il suo essere ‘scorticata’ tra un suo essere e non-essere nella partitura o nella sua esecuzione. Ma, va da sé, sono solo alcune tra le cose che muove questo libro

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