TRADIRE, NON TRADIRE. Gustavo Giacosa

(in dialogo con Marco Ercolani)

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Ma quale è, per te, la funzione del “tradimento”? Chi non tradisce? Una realtà compatta e priva di deviazioni, di tradimenti, impone una purezza tirannica, un pensiero unico. Tradire è la natura del viaggio umano. Chi diventa adulto, tradisce se stesso bambino. Chi invecchia, oltraggia la sua giovinezza. E chi interpreta la voce dei pazzi non sfigura forse il loro silenzio? Oppure dovrebbe restare fedele al loro delirio e condividere la stessa gabbia? Essere disorientato come loro e non più lucido di loro? Ma non è forse l’esasperata lucidità la sola, fragile illusione che il sano possiede per cogliere la sfuggente follia? (M.E.)

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I territori dell’arte sono luoghi sprovvisti di qualsiasi moralità. Qui, tradire, rubare, uccidere, sono parole che non spaventano nessuno e anzi sono azioni da incoraggiare all’interno di qualsiasi pratica artistica. È solo tradendo le aspettative di genitori e maestri che un artista può incontrare la sua strada. Per primo li deruberà di soggetti e informazioni che serviranno ad alimentare la sua vocazione affamata. Infine egli sarà costretto a ucciderli per poter liberarsi di ogni rimorso che lo terrebbe legato alle sue origini. È chiaro: queste non sono azioni che un’artista fa in maniera cosciente. Solo ad azioni compiute, e con la distanza operata dal tempo, può riconoscerle come tali. Per le strade dell’arte si avanza a tentoni e i contorni si definiscono di poco solo col tempo. Si è confusi, contraddittori e in questi casi il tradimento è talvolta rivolto verso se stessi. E forse questo è l’unico tradimento imperdonabile, quello che non riesce a liberare noi stessi dalle nostre illusioni, dai nostri fantasmi. Per ciò come dice Pier Paolo Pasolini ne Il fiore dei mille e una notte: «La fedeltà è un bene, ma è un bene anche la leggerezza». (G.G.)

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La psichiatria non è una scienza ma la strategia di un viaggio nelle tenebre. Nel gennaio del 1889 Nietzsche è giudicato clinicamente pazzo. Ma le sue invettive filosofiche non sono riducibili ad anamnesi psichiatriche. In un aforisma di Aurora scrive: «Facciamo ancora un passo avanti: a tutti quegli uomini superiori che erano irresistibilmente attratti ad infrangere il giogo di una qualche eticità e a dare nuove leggi non restò nient’altro, se essi non erano realmente folli, che diventare pazzi o farsi passare per tali; e ciò vale in verità per i novatori in tutti i campi». Con Nietzsche il desiderio di essere folli entra nella storia della filosofia e la necessità di un pensare oltre, fuori dai bordi della ragione, diventa tradimento del pensiero cartesiano. Ma chi sprofonda definitivamente nella malattia mentale rischia di perdere la fiamma della follia, di trovarne le braci carbonizzate negli archivi di una letteratura psichiatrica che ripete formule logore e riti asfittici. L’idea del folle, se non viene spenta dall’uso prolungato dei farmaci, è e resta quella di una chiesa incomparabile, dalle guglie altissime, che rende immune dai pensieri meschini degli altri: una cattedrale personale inscritta nei segreti di un sapere che niente ha in comune con gli altri saperi perché è un lampo che sconfina fuori dalle terre ragionevoli. Antonin Artaud scrive, nei suoi Cahiers de Rodez: “C’est la recherche d’un mond perdu / et que nulle langue humaine n’intègre”. Il poeta parla di un mondo perduto, di una lingua che non può integrarsi a nulla. Ma le teorie antropologiche dello psichiatra Binswanger sono davvero diverse dalle parole del folle Artaud? Ogni uomo è alla ricerca di un mondo perduto e irriconciliabile, come Ferdinand Cheval che costruirà la sua Maison ideale e Raymond Picassiette la sua Cattedrale. (M.E.)

Maison Picassiette de Raymond Isidore (Chartres)

Palais Ideal du facteur Cheval (Hauterives)

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Riconoscere il tradimento, riconoscerci come traditori è un salutare esercizio di scoperta e di accettazione del sé. Accettare che non si è una cosa o un’altra, ma viceversa e reciprocamente entrambe, apre orizzonti inaspettati per chiunque: folli o “diversamente folli”. Anche la più oscura psicosi si inonda di luce quando questa tradisce se stessa e rifiuta (anche per poco) l’identificazione con il rassicurante statuto di malattia. Anche lo psichiatra sarà atteso da un superamento, una sorpresa, un’apertura, se riuscirà a negare e tradire – almeno per un po’ – il suo ruolo. Scrive Salvador Dalì all’interno di una sua opera: Parfois je crache par plaisir sur le visage de ma mère (“Talvolta sputo per piacere sul viso di mia madre”). In queste parole non riconosco tanto una provocazione quanto il piacere di chi riconosce appieno il suo ruolo di traditore! Non per vendetta, non per rabbia o rancore, ma semplicemente per piacere, per quel piacere infantile de l’acte gratuit l’artista si concede all’oltraggio e alla devastazione. All’interno dei meccanismi della creazione il tradimento è il superamento del sé. Il mio personale lavoro di scrittura ha sfondato dei muri quando è riuscito ha rinnegare le sue fonti d’ispirazione. Per esempio, ricordo ancora l’atteggiamento di devozione che portavo fino a qualche anno fa verso la parola di certi autori. Da anni mi dedico allo studio di manifestazioni artistiche spontanee e dei loro autori, spesso emarginati, nella doppia veste di curatore d’arte e di regista teatrale. Come curatore spesso mi capita di dover redigere le biografie di alcuni di questi artisti che non riescono e soprattutto non sono interessati a raccontarci da dove proviene la loro arte. Così, col tempo, si matura un rispetto quasi sacro verso tutto quello che questi autori hanno detto o fatto. Talvolta scrivo su di loro costretto da mille preoccupazioni etiche: sto dicendo bene? sto raccontando il giusto? sto rispettando le loro scelte? sto tradendo il segreto di una cartella clinica? Come artista invece, quando scrivo uno spettacolo ispirato al loro universo creativo la situazione si ribalta. È successo con Nannetti, il colonnello astrale ispirato alla vita e all’opera di Oreste Fernando Nannetti e recentemente con Giovanni!…aspettando la bomba, ispirato ai disegni e ai testi di Giovanni Galli. In entrambi i casi la prima fase del lavoro viene spontaneamente influenzata dal rispetto verso il loro vissuto. A metà delle prove mi accorgo che qualcosa non va, e che quello che sto facendo non rispetta né loro né me stesso: così sono obbligato a fermarmi e a rivedere tutto. Non ci si può avvicinare alla follia con le sole futili armi della ragione. Bisogna avere il coraggio di interrogare la nostra propria follia e di abbandonare la loro, che è stata fonte d’ispirazione, un’eco che forse ci può solo guidare nella discesa verso i nostri stessi abissi, là dove finalmente la ragione tace e si possono cogliere i frutti strani che si fatica a nominare. È alquanto vertiginoso perché ci si avvicina all’oltraggio dell’essere amato, ma assolutamente necessario per poter scoprire qualcosa di nuovo. Di questi tempi trionfano le biografie filmate raccontate con sapiente ritmo da sceneggiatori avvezzi a intrattenere e soprattutto non annoiare lo spettatore. Ebbene se penso a questi film o a questo tipo di narrazione che così “con-temporaneamente”, così veritieramente, cercano di raccontarci l’alterità altrui, provo ribrezzo. Possiamo interrogare la follia di certi autori soltanto accettando di guardarci allo specchio che essi ci tendono. Questo ci porterà a tradire tutto quello che credevamo di sapere su di loro e su di noi. (G.G.)

Oreste Fernando Nannetti

Giovanni Galli

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Fernando Pessoa osserva: «La mia non è pazzia; ma anche la pazzia deve procurare un abbandono nei riguardi di ciò che fa soffrire, un astuto piacere degli sbigottimenti dell’animo non molto differente dal mio». Alla fine si tratta di un abbandonarsi, un arrendersi sbigottiti alla propria diversità. Si inventano altri mondi – quelli che in un mio libro ho definito “galassie parallele” – quando le personali costellazioni, in questo mondo, sono gallerie strette, nodi asfissianti. L’arte nasce dall’impulso di sovvertire cose note, di “tradirle”, e di questa sovversione la follia è strumento essenziale. Se ci mancasse, guarderemmo un mondo vuoto, asservito, scarsamente vivo. Gli antichi maestri, da Hölderlin a Kleist, da Walser ad Artaud, ci insegnano che la follia è passione dell’oltre, senza indulgenze. Io ho indagato le opere, spesso sconosciute, di chi non costruisce un’arte prevedibile dall’esterno, ma la modella dall’interno, ne è avvolto, invasato: inventa qualcosa che prima era impossibile. La lingua di Celan tradisce la lingua dei poeti precedenti: non è idioma imitabile, è stato di shock. L’arte non è mai compiacente: è un’esclusa, come scrive Pascal Quignard. Chi si immaginava il suicidio di Mark Rothko? E quello di Nicolas De Staël? Non erano “matti” sintomatici ma esseri umani troppo sensibili e scorticati, artisti potenti e fragili, consumati da una passione dove perdere anche la vita. Ma la vita, se è vera, tradisce sempre la nuda sopravvivenza: si dona e si perde, nella volontà di risplendere, nel rischio di essere dimenticata. Scrive Fausto Melotti: «L’artista deve avere un credo, penso, ma lo deve anche tradire. Altrimenti, prigioniero del suo tabernacolo, si vede consegnato a un equilibrio indifferente, come un piano perfettamente orizzontale. La palla vive quando rotola in basso, o è lanciata in alto». La vita si dona e si perde per un mondo Altro. Osserva Paul Klee: «Più di uno non riconoscerà la verità del mio specchio. Deve comunque rendersi conto che io non sono qui per riflettere la superficie (questo può farlo la lastra fotografica) ma che devo penetrare all’interno. Io rifletto fino all’interno del cuore. Io scrivo parole sulla fronte e attorno agli angoli della bocca. I miei volti umani sono più reali di quelli veri». (M.E.)

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Il sogno di un mondo Altro e altrove, di cui si è unici fautori e urgente motivo fondante, costituisce il cuore del mito del ‘bandito creatore’ e paradigma a partire dal quale analizzare la ‘creazione bandita’. Opera chiave a questo riguardo è il Nuovo Mondo di Francesco Toris, un insieme di ossa finemente cesellate che evocano la struttura di sostegno di un archetipo cosmogonico. Parto di una lunga notte solitaria, l’uovo cosmico macera gli scarti del mondo. Come avviene per altri banditi-creatori da Giovanni Podestà a Melina Riccio, Toris risana il mondo reietto nutrendosi dai suoi rifiuti e trasformandoli in pilastri del Nuovo che deve sorgere. Il sogno di un mondo Altro e altrove, di cui si è unici fautori e urgente motivo fondante, costituiscono il cuore del mito del ‘bandito creatore’ e paradigma a partire dal quale analizzare tutta la ‘creazione bandita’. Ricco di simboli del tempo e dello spazio, è il risultato di voci che lo tormentano e lo spingono all’atto. La mano obbedisce a un diktat divino. Opera composta da numerosi elementi scolpiti e intagliati in osso bovino incastrati gli uni negli altri. Un percorso tortuoso dal disegno inestricabile, apparentemente privo di una via di uscita. Il labirinto di Toris rappresenta un percorso iniziatico verso un centro sacrale nascosto. In questo luogo segreto l’anti-eroe solitario potrebbe avere accesso a una perduta unità del sé. Due porte danno indistintamente accesso o uscita all’antro, dove s’annida il Khaos. Insieme d’elementi d’intensa carica simbolica: la porta, la scala, il ponte, la ruota. Tutti artifici vincolanti creati dall’uomo per superare un ostacolo e impossessarsi dello spazio. Estensioni del desiderio in ogni senso, in qualsiasi direzione. Il cuore di questo mondo nuovo è pregno di allontanamenti e abbracci: aprire, chiudere, salire, scendere, nascondersi, sporgersi…

Francesco Toris, Il Nuovo Mondo

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L’immagine esteriore del mondo è ai nostri occhi un insieme frammentario suscettibile di essere riunito o separato. Dice Georg Simmel: “c’est à l’homme seul qu’il est donné, face à la nature de lier et de délier, selon ce mode spécial que l’un suppose toujours l’autre” e ancora “nous sommes à chaque instant ceux qui séparent le relié ou qui relient le separé”. L’artista in un vero processo alchemico inizia coll’isolare e curare ogni singolo elemento o traccia recuperata che integrerà l’insieme cosmogonico. Ognuno di essi è un’unità risanata e potenziata per mezzo di azioni talvolta apotropaiche che mirano alla purificazione. Sono così ingeriti, sputati, lavorati, levigati e infine scolpiti. (G.G.)

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Azioni apotropaiche? Percorsi labirintici? Henri Darger ne è il massimo esempio. Henri è un clochard immobile. Inizia il suo diario-libro occultandosi al mondo e cominciando prima a scrivere, poi a disegnare. Dedica centinaia di pagine alla descrizione puntigliosa dei tormenti e delle uccisioni di bambini e bambine strangolati, impiccati, decapitati, smembrati, arsi vivi, crocefissi, sventrati. Lavapiatti in un ospedale, cattolico fervente e praticante (onora la messa alle sei di ogni mattina), vive recluso in una camera di magazzino poco lontana dalla foce maleodorante di un fiume. Quando di giorno lava i pavimenti imbrattati, lo chiamano «idiota» ma lui tace. Da sessantanni scrive e dipinge bambini e bambine nelle sue quindicimila pagine dedicate ai Regni Irreali. Ricorda, da bambino un tornado, che strappò le case dalle fondamenta e i corpi dalle case: vuole scongiurare che ritorni. Per questo nel suo libro traccia le cronache sia dei dei bambini massacrati sia delle loro improvvise resurrezioni in campi fioriti. Tutto si compie nelle grandi pagine del suo libro, a notte alta. Lì tutto muore e rinasce. Dio non esiste a caso. Lui lo prega tutti i giorni. Scruta la carta bianca con pietà, perché fra qualche ora sarà colma dei cadaveri che disegnerà, e delle minuziose parole di pietà con cui descriverà ogni dettaglio. Le oltre diecimila pagine di Nei Regni dell’irreale intimoriscono il lettore/spettatore. Henri dipinge con imperscrutabile gentilezza e ogni ragazza uccisa nella carta è destinata a risorgere. Darger addensa la carta di immagini fittissime (riproduzioni e disegni), si concentra sul soggetto della percezione rappresentandolo in tutta la sua interezza, reale e irreale, come sul punto di esplodere, un attimo prima della morte. Ma non lo trattiene sul margine del disastro: lo libera. L’oggetto brulica, ricolmo di tutti i colori e di tutte le forme. Non diversamente le composizioni furiose di Bacon affondano in una spettrale figuratività che appena richiama l’esistenza umana: nelle sue figure torturate e distorte c’è una materia liquescente e raccapricciante che appanna i lineamenti dei volti, una materia che l’occhio deve guardare perché il resto del quadro è chiuso a ogni fuga: è parete, letto, finestra, colore opaco di luoghi murati. Nel suo oscuro scantinato di custode-voyeur, dove lascerà inedite le quindicimila pagine del suo libro, scritto e dipinto, Darger pensa alle oscure maree del fiume Hudson. L’acqua-fiume è un’immagine rifranta e minacciosa che sprigiona migliaia di apparenze confuse, senza cornici. Mentre lo specchio, confinato nelle stanze borghesi, è un cerchio tranquillo, l’acqua scompone i riflessi, increspa e agita, è flusso che trascina e disperde, portando l’immagine verso l’evanescenza. Fra l’armonia dell’immagine ferma e la dissonanza dell’immagine mobile il pittore ha scelto l’acqua mobile dove a volte rifugia le sue figure innocenti. Il solitario custode, che morrà ottantunenne, consuma il suo mondo in una pittura-parola frastagliata e ininterrotta, piena di fogli disegnati e scritti. Potrebbe uccidere. Ma dopo? Il finale consueto. L’irruzione della polizia, la rimozione dei cadaveri, l’incarcerazione dell’assassino, la fine dell’enigma, le pareti di una cella. A cosa serve disseppellire il brutale desiderio? A generare morti crudeli, a determinare l’ergastolo di un miserabile. Da pittore di forme e parole Henri può mostrare nei suoi fogli migliaia di ragazze uccise e risorte nelle sue fantasie pittoriche, in un combattimento mitico fra crudeli schiavisti e salvatori gentili. La fantasia delirante rende lui, recluso di una misera stanza, non il misero assassino che avrebbe potuto essere ma il pittore-salvatore che sa mostrare, dentro i suoi “regni dell’irreale”, la realtà di una psiche che si redime con le sagome dei fantasmi, che sempre risorgono, e non con i cadaveri delle vittime. L’assassino si traduce/tradisce nel pittore. Non è questa una realtà comune a tanti artisti anche sani di mente, che oltrepassano ogni rassicurante superficie visibile? (M.E.)

Henry Darger, Nei Regni dell’Irreale

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Nei Regni dell’Irreale è una saga che comprende più dii 15.000 pagine, illustrate e scritte notte dopo notte, nella solitudine della sua piccola camera di Webster Street a Chicago. Cominciata nel 1911 e proseguita per tutta la vita, questa narrazione visuale descrive una guerra che oppone i cattivi Glandeliani, carnefici e schiavisti di bambini, senza altra ragione pratica se non quella del proprio piacere, ai gentili Angeliniani, guidati dalle sette sorelle Vivian. Queste ragazze (provviste di sesso maschile) sono aiutate dal Capitano Darger, capo di una organizzazione per la protezione dell’infanzia. In collera contro il suo destino. quest’uomo che si descrive come un vulcano “che sputa e tuona”, ha saputo esorcizzare le sue frustrazioni e la sua stessa violenza intensificando nella sua opera fuochi divoranti, tempeste devastatrici e supplizi imposti ai bambini. Arte della vertigine e della dismisura, l’insieme dei suoi quaderni intimi non sarà scoperto che dopo la sua morte. È senza il suo consenso che oggi li guardiamo e li giudichiamo. Il suo autore lo avrebbe accettato di buon grado? Come per i testi che Max Brod “salva” dal testamento di Kafka, il fatto di attribuire statuto d’arte alla creazione è sufficiente ad autorizzare la possibilità di impadronirsi dei segreti e delle decisioni altrui? Il motivo è ben noto: etica e arte non sono sposi felici. (G.G.)

Henry Darger

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Talvolta, direi spesso, il tradimento è essenziale. Sarebbe stato bello salvare le Anime morte dal desiderio di Gogol di bruciarne i manoscritti, dei quali solo casualmente si è conservata una copia parzialmente leggibile. Ma il quesito resta aperto. Rispettare e tradire sono due due “mostri” che si guardano dalle parti opposte dello stesso specchio. Milena Jesenska ha obbedito a Kafka e ha distrutto le lettere che lui le aveva inviato. Possiamo rimproverarla di quel mancato tradimento? Lei ha rispettato, con chiarezza, le volontà dell’uomo che amava. Di ogni artista si conserva ciò che il destino decide. Ma ricordiamo che tradurre/tradire non è la via dell’inferno ma quella della conoscenza. (M.E.)

Marc Chagall, Le anime morte

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