THIERRY METZ. Alfonso Guida

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Di Thierry Metz mi colpì la scrittura, poi la tragica sorte comune a tanti poeti italiani della sua generazione: da Beppe Salvia a Nadia Campana, da Giuseppe Piccoli a Remo Pagnanelli etc. La sua parola ha dei vortici interni il cui movimento tortile attinge alle altezze della visione, al suo stesso librarsi, a mezz’aria, sospesa, senza mai toccare terra eppure non diresti che a questa parola-soffio, a questa parola-arcobaleno manchi la terra. Lo specchio rovesciato a livello del filo dell’acrobata coinvolge nei suoi riverberi e nei suoi chiaroscuri tanto il paesaggio terrestre quanto quello appena sotto il manto traforato delle nuvole che lascia intravedere il “Fiume Celeste” e le costellazioni come attraverso un limpido velario d’agosto. E cosa si rispecchia nel ciborio rovesciato che Thierry Metz incarna a livello del filo dell’ acrobata? Si rispecchia la materia, “l’altra”, come la chiamava Platone, “la bestia”, come la chiamavano Pascal e Xavier De Maistre, “la prostituta” come gli alchimisti chiamavano la materia nuda e cruda, primitiva, primigenia, grezza, non ancora distinta e separata nelle sue componenti, l’uovo non ancora esploso, la chioma non ancora aperta allo sviluppo della ramificazione. La “prostituta” che ama tutti e non distingue, la carne priva di discernimento, l’offesa della durezza di avere un corpo. Questo trapela nello specchio del ciborio rovesciato da Thierry Metz a livello del filo dell’acrobata. Ma c’è dell’altro. Scontato dirlo: calce e malta, calcina e putrelle, intonaci e travi, tegole e pavimenti, bidoni e barili, ferro e piombo. La fatica. Il dover farsi carico di un peso come questo. Una vanessa, non illudiamoci, non potrà mai portare in groppa un prato. Thierry Metz era un uomo debole. Scriveva nei momenti di riposo e di beatitudine, tenendo la lampada accesa, come una spiga, come un mannello di spighe, per usare un’immagine a lui familiare. I nudi, gli stati ipnotici della realtà bevuta nelle osterie o sui cantieri con i compagni di lavoro, manovali, carpentieri, muratori, la lettura dell’amato Paul Celan, le commosse finestre aperte sulla campagna francese a scrutarne nel Sud il Nord, nel chiaro il vero, per dirla con Celan, e per obbedire alla solennità disarmata e mai altera di uno scavo che non troverà rimedio per la ferita e ne abbandonerà l’infezione all’estremo di se stessa. E’ così che a livello del filo dell’acrobata si snodano e sfilano esistenze intestardite dal demone avversario che vince. O forse sono loro a vincere perché hanno decapitato il caprone spiccando il volo o inchiodando una trave e appendendoci una fune. Quest’ultima la sorte tragica di Thierry Metz mentre in Italia stringeva le parole quasi scrivendo digrignante Nadia Campana oppure Giuseppe Piccoli, emarginato Pierrot Lunaire con la rosa in bocca. Oppure Remo Pagnanelli col mito delle acque e dell’ immenso che deve essere percepito nel minuscolo, nell’intimo, nell’infinitamente piccolo, nella parte imponderabile del peso, come gli insetti. E come dimenticare la catalogazione entomologica che allestì Beppe Salvia da ragazzo liceale a Potenza? Beppe Salvia o della tradizione letteraria linguisticamente ristabilita. Beppe Salvia o delle sperimentazioni metriche mai facete. Non ci sono imitatori tra questa gioventù degli Anni Cinquanta divenuta fossile di una generazione negli Anni Ottanta. Thierry Metz era intriso di autobiografismo. Non poteva non esserlo. Tutto però nel suo pensiero e nell’articolazione creativa della sua lingua perde pesantezza e si affaccia tra gli emisferi. Thierry Metz, lui, l’uomo debole, i quotidiani esercizi di forza e di sforzo, a livello del filo dell’acrobata. (Thierry Metz, Lettere all’ innamorata, Il Ponte del Sale, 2022).

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Thierry Metz

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