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Terra magra (Il convivio editore, 2023), l’ultimo libro di Gabriela Fantato, è preceduto da una prefazione di Ivan Crico, Dentro l’assedio di ogni volto, e si suddivide in dieci sezioni: Racconti d’acqua e terra, Congedi e ritorni, Passo in passaggio e altre fughe, Dieci passi nell’acqua, Maternale, Del sempre e del mai, Una geometria elementare, Cantilena della specie. Cadute e resurrezioni, Qualunque cosa succede.
Il libro di Gabriela, intenso nell’impianto e articolato con rigore, viene così descritto da Ivan Crico: «La poesia di Gabriela Fantato è anche, non esibita, altissima poesia civile. Nell’Orestea di Eschilo, ad un tratto Agamennone dice: “È natura dell’uomo calpestare chi cade”. I versi di Terra magra hanno invece la forza e la fermezza della mano tesa per aiutare gli indifesi a rialzarsi; la parola scelta, pur nello scarto dalla lingua di ogni giorno, assomiglia sempre a quella, senza fronzoli, essenziale, per infondere coraggio, speranza anche a chi sappiamo essere senza scampo, anche quando siamo noi i primi a non riuscire ad immaginare parole di salvezza per noi. Una pietas, che ha origini remote, dunque, segna tutta la raccolta di Fantato».
Ma può, un poeta “civile”, non essere “poeta” fino alla radice di sé? L’esempio di Yannis Ritsos è emblematico. Gabriela segue questo esempio, frastagliando la sua avventura poetica di frammenti di memoria e di pensiero, per i quali trova le immagini essenziali. L’alternarsi del carattere tondo e corsivo, nelle singole poesie, sembra dirci che siamo sempre intrisi da voci di diversa intensità. Ma, in questa breve nota, utile spero a evocare la struttura del libro, mi piace citare la prima e l’ultima poesia del volume, proprio per sottolineare la coerenza di un viaggio. La prima è RITORNI «Dalla spiaggia ritorno sempre / con un sasso, un ramo liscio / o una conchiglia. / Ho pezzi minuscoli / di isole che non ricordo. / Scaglie, ossa persino e / frantumi di colonne. // Stanno nella ciotola, vicini / come bambini nei cortili. // Non so se ricordano il nome di chi li fece / – interi, la pianta che li univa / e il dolore, prima dell’arsura // Le voci, certo le voci, / le hanno addosso, / una sintassi di calcare e vento. / Le guardo riposare, / non chiedo, non posso sciupare / – il patto». Le cose, frantumate e colme di voci, parlano sempre, con la loro “sintassi di calcare e vento”. È questo il patto? Non essere disperse come anonimi frammenti ma, benché immobili, continuare a “dirci”, a “chiederci”? Domande a cui il lettore non trova risposta, a inizio libro. Ma può notare che la lingua non è oracolare o sapienziale ma neutra, porosa, dialogica, pronta a narrare ed evocare.
L’ultima è PROVE DI VOLO (poesia a occhi chiusi) «Anche tu vai, / stai già andando là dove / finisce il bordo, / dove inizia la marea / e cerchi – un appoggio / una verità di ossa e paure, / quel foglio bianco che sottrae / la morte ai giorni. // Dammi la mano adesso, / vieni qui dentro le onde, / accetta che sia, fai tutto come fosse / ora e per sempre – un gioco o solo la tua vita senza risposte, / la vita presa al volo / dentro un’eco. // Vieni, sono qui, / nella fragilità dei giorni, / insieme saremo mille occhi, un bosco dentro i passi / e i racconti / salvati al crollo». Partendo da quei “racconti salvati al crollo”, lì “nel foglio bianco che sottrae la morte ai giorni”, appare la verità, la vita presa al volo, la nostra personale eco: questo riesce e può essere l’uomo, nella sua pietas. “Proprio quando nessuna parola / sa prendere il volo”, per un attimo, dentro un’alchimia di parole, può tentarlo, il volo; non esibendo niente, non forzando porte o prigioni, prova a essere medium della libertà di chi non sarebbe capace di liberarsi. («Vaghiamo // senza carte di viaggio, / senza una lingua / per dire – il taglio»). Fantato cerca la voce dei sommersi e dei perduti, la fa sua, ma non inventa personaggi drammatici, come le accadde in diversi testi teatrali del passato: è lei stessa, qui, nel libro, la portatrice degli altrui dolori. «Qualcosa si radica duro nella terra, qualcuno lo tiene stretto / lo afferra nel poco della notte / nel foglio sbiancato / per il troppo sopportare.. // Qualcosa sfugge alla parola / e resta cocciuto dentro al gran mutare, / a tutto questo andare a cumuli / di roba rosicchiata in morsi / piccoli e continui / e resta, in questo gran rovinare / verso un punto»). Gabriela predilige espressioni metaforiche e metatestuali (“il foglio sbiancato”) che rendono la denuncia civile non solo un verbale scritto dei massacri ma un atto non dissimile dal grido poetico. Il “rovinare verso un punto” evoca un’esecuzione senza ritorno. Essere fisicamente dentro la poesia è l’intento del poeta da sempre («Nella stanza si vede il taglio, / quello non scritto, quello senza nome, / nella cronaca dei mesi / nel racconto fatto piano / con la fede nei dettagli / Quando tutto si sgretola, / la forma oscilla, / resta la voce che ci fa – timidi e terribili»). Non dimentichiamo come spesso ritorna nella poesia di Fantato la parola, “taglio”: il “taglio” cesareo permette a una madre sofferente di partorire, il “taglio” è ferita in corso, talvolta mortale, “il taglio” è crudele aggressione ma anche scoperta di una nuova, inattuale prospettiva nel proprio paesaggio, interno ed esterno.
Qui ritorna il sogno di una “comunità inattuale”. Già Gabriela scriveva, in Verso la superficie. Letture di poeti italiani contemporanei 1970-2004, Bocca editore, 2004: «..la contemporaneità della poesia procede per individualità più che per gruppi o linee di poetica, ma queste singolarità possono dare vita a quella comunità inattuale…tesa ad esplorare passioni, sapendo mantenere vivo il lavoro di lettura e ascolto della parola poetica, per costruire così ponti, o almeno lievi passerelle, sospese sopra il rumore del tempo attuale». Non sono parole consegnate al passato. Il lavoro di Gabriela è ancora lo stesso: costruire passerelle di parole come ponti che salvino esseri indifesi, consegnati alla rimozione, al silenzio. “Qualunque cosa succede”, la poesia resta. E i “congedi” possono essere “ritorni”. «Faccio un balzo indietro / salto la misura, arrivo dove / il taglio si fa voragine, / una crepa del sistema, / Invento una storia / e ci credo / e te la dico tutta d’un fiato… / e ci credo ancora ogni giorno». Tutto è ancora racchiuso qui, nell’inventare una storia da vivere con il “coraggio obliquo” del superstite. E tutto il libro è intessuto di storie che resistono alla sopraffazione. Restano, alla fine, come suggerisce Ivan Crico, le parole di René Char. Il poeta “discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile, campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagare per questo” è l’uomo che Gabriela elegge ad esempio. La missione civile del poeta è, per sempre, “la meticolosa cura alla vita” e “l’eredità incisa nella pietra”: cioè, ad un tempo, attenzione e testamento, rispetto e traccia, dovere e bagliore. (M.E.)
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Gabriela Fantato, critico e poeta. Le sue raccolte poetiche: La seconda voce (Transeuropa, 2018); L’estinzione del lupo (Empiria, 2012); A distanze minime (in “Nuovi poeti italiani 6”, Einaudi,, 2012); The form of life, trad. E. Di Pasquale (Chelsea Editions, New York, 2012): Codice terrestre (La Vita Felice, 2008); Il tempo dovuto. Poeise 1996-2005 (editori&spetttacolo, 2005); Northern Geography, trad. E. Di Pasquale (Gradiva Publications, New York, 2002); Moltitudine (in Settimo Quuaderno di poesia italianq, Marcos y Marcos 2001): Enigma, (DIALOGOlibri, 2000); Fugando (Book, 1996). Ha curato con Luigi Cannillo La Biblioteca delle voci. Interviste a 25 poeti italiani (Joker, 2005), e diretto la rivista di poesia, arte e filosofia “La mosca di Milano”.
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Gabriela Fantato