*In queste quattro lettere si evocano due libri: Il mese dopo l’ultimo, di Marco Ercolani e Anime strane, di Marco Ercolani e Lucetta Frisa.
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Bruno Schulz

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1.
Oh, Bruno!
“Cosa poteva affascinarmi di più se non tentare di riscrivere, seppure in forma frammentaria, proprio il Messia? Ogni libro, per me, è la scommessa di un “libro impossibile”, che non può esistere perché è composto di testi apocrifi ma che tuttavia esiste, e Il mese dopo l’ultimo è la principale scommessa della mia poetica personale: riscrivere un libro perduto, sapendo che non potrà mai essere solo quel libro, perché è il risultato della mia immaginazione, ma sapendo che, alla fine, qualcosa di ciò che sono andato sognando, attraverso questa ri-scrittura resterà presente – scommessa di un libro infinito e interminabile, che sarà sempre di più e sempre di meno del libro finito, classificabile, giudicabile da critici e filologi. Un libro come racconto fantastico, appunto diaristico, lettera personale, frammento. Un libro instabile, progettuale, un non libro che contiene già il germe, se non la forma, del libro futuro. Nel mio romanzo apocrifo io ho voluto non tanto riscrivere il Messia perduto ma trascrivere degli abbozzi, degli appunti, che potessero segnalare un “lavoro in corso” intorno al Messia. Entrare nel suo laboratorio è stata la mia utopia, il desiderio di reinventare la storia anche contro la realtà degli eventi compiuti. Perché, in sintesi, ho scritto questo libro per combattere un sopruso irreparabile perpetrato contro l’opera di Schulz – relativamente cancellata dalla memoria storica – e la vita di Schulz – eliminata totalmente da quell’assurdo colpo di pistola”.
In queste parole sigillo il senso del mio libro, e anche della mia assenza dal mondo degli autori. Io sono colui che sta nell’ombra di un altro, e trascrive ciò che lui potrebbe sognare o pensare. Chissà se riesco, Angelo, a comunicarti con quale commozione quel libro andrò formandosi in me alla fine del secolo scorso… No, non mi interessava trovare il Messia quanto sapere che avrei potuto farlo, diventare rabbino, mago, figlio, fantasma di Drohobycz, e non essere, come Kafka, ascetico notaio della mia angoscia ma estasiato bambino travolto dal calore e dalle stelle di una notte di luglio dove non era mai vissuto. Ma dove sono realmente vissuto per tutto il tempo che il non-romanzo agiva dentro di me come una fioritura stregata…
Oh, Bruno, potessi incontrarti non appena finisco i miei giorni qui, da uomo ridicolo!
2.
Oh! anch’io ho il mio oh! – Marco, hai mai pensato a un oh! da solo, in posizione di oh! – una posizione senza inclinazioni, mantenuta perfettamente verticale, dopo innumerevoli esercizi, dopo le lusinghe…
Caro Marco, la tua lettera e la mia rilettura, in questi giorni ospedalieri, del tuo Il mese dopo l’ultimo, mi hanno profondamente toccato, non soltanto perché il tuo libro c’è, meravigliosamente esistente, “nero di frasi, pulsante di vita”, ma perché la sua esistenza è, come l’arrivo del Messia, fuori tempo massimo, quando, per poter esistere, ha dovuto assentarsi, darsi per morto, come alcuni piccoli animali, inseguiti…
“Venir meno è la forma necessaria della parola… Un artista non può mancare al suo venir meno. In nome di questa fedeltà, se diventasse consapevole di non essere all’altezza del suo compito, dovrebbe avere la forza di morire”. Tra affermazione e morte, facendosi beffa del sistema binario, Bruno Schulz, in Le botteghe color cannella, avanza un’ipotesi geniale, che tu hai preso al volo: “…quel grande eccentrico che è il tempo crea dal suo seno altri anni, diversi, particolari, degeneri […] Altri paragonano questi giorni ad apocrifi segretamente introdotti fra i capitoli del grande libro dell’anno.”
Nella nota al tuo libro, Giorgio Galli, pur con cautela, lo definisce “romanzo” – tu, nella tua lettera, lo definisci non-romanzo: Ma dove sono realmente vissuto per tutto il tempo che il non-romanzo agiva dentro di me come una fioritura stregata… Il non-romanzo appartiene a quella fuga dal libro che, mentre mette in salvo l’autore (nel tempo degenere), lo rende fantasma, ombra della vita? – “ …il mio romanzo…per esistere veramente, deve fare a meno di me, deve essere l’esecuzione capitale in cui il condannato a morte sono io, l’autore, e nessun altro.”
Mi verrebbe da dire – da tanti segnali che tu, Marco, lasci in giro tra le pagine – che la tua scrittura abbia una prioritaria funzione riparatrice – nel suo vivere accanto al non accaduto, al non detto – tanto da occultare la sua portata teorica, la sua radicale teoria della prosa e, tout court, del romanzo.
Tu scrivi, negli appunti di Bruno Schulz: “Chi non cerca viene trovato. Il non-senso lo afferra e diventa senso… […] Scrivere è il desiderio di parlare della fiamma che, appena sprigionata, si dissolve. […] Sciogliere l’identità di una cosa perché vibri della possibilità della sua assenza. Trovare la notte della luce. Accettare i lampi come neri più lucenti.“(pag.66)
Avremo tempo per indagare ancora, per farci del male. Ora vorrei chiarire l’inizio stravagante di questa mia lettera Oh! anch’io ho il mio oh!
Tu sai come sono le giornate all’ospedale, quelle senza dolori, giornate apocrife direi, in tuo onore – nel dormiveglia (oh beatitudine, gratis) avevo stampato in fronte quel tuo: Oh, Bruno!
Accanto al tuo Oh – pronto a crollare, per amore, per compassione, per l’allegria e il dolore dell’intelligenza – pronto alla scrittura! – si ergeva un mio oh! latente, che era lì da tempo, senza inclinarsi, isolato, nel più solenne abbandono – chi lo aveva ridotto così? Era il primo verso di una poesia che non potevo scrivere! Quel primo verso, trasformava me in un’esclamazione, neutrale, segnata da una passione oscura, alla quale dovevo offrirmi.
È dal 2020 che nessuna parola regge ai miei attacchi! – sono più di tre anni.
Il tuo oh! è piombato sul mio oh!
Dei tempi lontani della propria vita rimangono alcune immagini viventi, qualche decina nel mio caso, richiamabili in ogni momento, dettagliate fino allo spasimo. Una di queste, tornata nel pomeriggio di lunedì, mi portò nella vecchia cucina, una sera d’inverno, mentre facevo i compiti di seconda elementare, sgomberato il tavolo dai piatti. Non c’era ancora la luce elettrica, arrivata nel 1961 – c’era una lampada a petrolio, con la fiamma sempre agitata, fabbricante di ombre sulle pareti, con un debole lampo, ogni tanto.
Da dove ero seduto, la luce, venendo da destra, proiettava l’ombra della mia mano sul quaderno. Mia mamma si avvicinò, alle mie spalle, guardò e disse: se ti metti dall’altra parte del tavolo l’ombra va via. L’immagine si chiude, il mio film è finito. Perché m’interrogo ancora adesso sull’ombra della mia mano? Mentre rimanevo incantato dall’enigma dell’ombra della mano, sempre nella giornata di lunedì, mi sembrò di seguire, passo passo, attraverso la porta della tua scrittura, Bruno Schulz. Mi sembrò di accompagnarlo per tutte le sue righe scritte e in giro per Drohobycz. Poi arrivammo al momento fatale. Stavo aspettando. Ho aspettato per alcuni interminabili secondi – nessuno mi voleva sparare. Un’incredibile malinconia, una irrimediabile delusione s’impossessò di me.
Sono messo così, in questi giorni. Angelo
3.
«Come un insetto, uscito troppo presto dal suo stato di crisalide! Come un uomo, svegliato troppo presto dal sonno! Ho sempre, dentro gli occhi, come una nebbia, la traccia dei miei sogni… E intanto vorrei parlarti delle radici, solo delle radici degli alberi…. ».
Ancora Bruno… Grazie alla tua lettura il mio libro torna a parlarmi. Mentre la vita mi percorre io mi scrivo. Sono calmo, sul foglio, ma non voglio essere visto. Mi invento ogni giorno un’identità che non è totalmente mia: sono un sarto che rappezza il mondo strappato, un medico che ricuce ferite postume, un narratore che cerca lacune incolmabili. Un caos, Angelo. Però, alla fine, dentro tutti gli incroci, sono, assurdamente, dottore. Curo malati remoti, non più guaribili, che per un attimo, nell’eternità dello scritto, non si sottraggono alla cura. Rispondono, ancora. A me piace molto che rispondano. Solo in quel momento mi accorgo che la morte non esiste e non è mai esistita. «La pietà per i vivi è sempre legata al pensiero che i vivi, senza mostrare segni visibili, stanno preparandosi».
Il dolore dell’intelligenza è anche spiare il futuro.
«Come vorrei finire le mie cose! Sarà magnifico come iniziare?».
4.
Leggo: ”Sono calmo, sul foglio, ma non voglio essere visto.”
È così che ti vedo. Nessuna scomparsa è possibile. Soltanto gli scomparsi per sempre hanno questo diritto – soltanto loro possono fare questo torto ai rimasti, così che per sempre siano incompiuti. O perché avrei tentato, da bambino, innumerevoli volte, il gioco del guardaroba e dell’anta con lo specchio, girata e rigirata, come detto mille volte, nella camera dei genitori?
Lontana e l’infanzia, non estinta.
Ogni giorno una determinazione, ogni giorno una riduzione (escludere, escludere!): fatti si sono messi sul cammino, in piedi, a gambe larghe, come gendarmi. Soltanto in un punto si esiste, nella proprietà del vivente – il catasto dove gongolano i possidenti.
Le Anime strane cosa dicono? – sanno, nella loro notte, nella loro luce ossidrica – sarà questo l’odore del cosmo? – che il loro peccato è la fedeltà, inamovibile, troppo a lungo, quell’idea fissa che li crocifigge? sanno, esse, che l’idea fissa è il frammento di uno specchio rotto, un guardaroba andato in pezzi? Ridotti a frammento, a pulviscolo lanciano le loro accuse stralunate ai mediatori, agli agili viventi, un mondo di cangianti faine?
Questo mio farneticare, caro Marco, dipende dal fatto che ho respirato l’aria di Anime strane (2006), il vostro magnifico libro a quattro mani, tue e di Lucetta Frisa. Non ho mai visto da vicino le mani di Lucetta, ma le immagino, in queste prose che mai si dilungano, fini nel mettere i punti, leggere nello scavalcare silenzi, fermissime nel troncare le tentazioni di discorso, grande arte del gesto.
La perfezione della prosa mi parve, dapprima, un’ingerenza dell’estetico/organico nel marasma dell’aorgico (oh Hegel/Hölderlin, di nuovo!) – un modo di isolare la perfezione della gemma, dichiaratamente, strappandola dal groviglio dei nervi. Poi, quasi ridotto alle lacrime, ho sentito che tutto parlava anche di me, che tutto ciò era mio – nell’unico modo possibile, frammentariamente, una tentazione breve, cambiando presto discorso, come fanno i sani, salvati all’ultimo, come fossero guariti.
Il vostro libro è grande nella sua stessa mistificazione, nell’onestà dell’isolare le frasi, volutamente con poco contesto, puramente dolore – infine nel suo essere oscuro poema, con ciò portando la follia verso le nostre mani timide, incapaci di reggerla se non come veloce, terribile magnificenza.
Tu mi scrivi: “Però alla fine, dentro tutti gli incroci, sono, assurdamente, dottore.” Per questo la tua opera sembra debba essere chiusa dagli altri, non da te. È la tua condanna? – tu che non hai fine? che non puoi, simbolicamente, chiudere il verso, perché esso sta continuando in qualcun altro, nella mente di chiunque, nel linguaggio nascosto, tragico e burlone?
Magnifico! La poesia non come opera obbligata, ma come metodo? Magnifico ancora una volta!
Ah la salute della dispersione, la folle avanguardia, dove non sia necessario guarire!
Lì il dottore diventa fratello – come nell’ultimo brano di questo libro: Carezza –
un grandissimo verso!

Anime strane