LETTERA PER “VIAGGIO D’INVERNO”. Silvia Comoglio

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Marco carissimo,

il tuo Viaggio d’inverno* è un Sé che analizza e si analizza, che si struttura e destruttura continuamente radicandosi nella Storia e in sequenze psichiche che sono archetipo/motore della nostra personalità.

Comincio dalla Storia, quella che stiamo vivendo e da cui, osservando, ci lasciamo osservare e, chissà, forse siamo i suoi osservati speciali. Nel dubbio osserviamo, meglio, tu osservi e ci trascini con te. La guerra in Ucraina, brutali fatti di cronaca, la quotidianità degli emarginati… tutto incidi lasciando che il problema delle responsabilità morali sbocci all’improvviso e ci si ritrovi in un gorgo da cui non si esce se non lo si interiorizza, se non lo si assimila. Perché tu interiorizzi in esterno, ossia tu entri nell’evento nell’uomo nella Storia e poi fai dell’evento dell’uomo della Storia un frammento eticamente e problematicamente pensante per la pagina, per il lettore, mentre, al contrario, il lettore se vuole farsi quel frammento, diventare problematicamente e eticamente pensante, può solo interiorizzare, unica possibilità per compiersi in quel frammento e portare se stesso e il frammento nella sua completa dimensione storica sociale e, soprattutto, mentale.

Mentale. E qui sta il punto. Perché mentale è la parola/nodo. La parola che annoda evento e persona. Che contiene e dispiega tutti quegli inesauribili sintomi umani che sono ciò che ci vincola/non vincola all’esistenza. Vincolo/Non Vincolo. Ecco, a me sembra che tu in questo tuo viaggio abbia sostituito Essere/Non Essere con un più pressante, e forse moderno/contemporaneo, Vincolo/Non Vincolo. Sono vincolato o non vincolato, più esattamente, mi voglio vincolare o non vincolare agli schemi etici sociali creativi culturali? Perché da questo dipende la mia libertà, la libertà di dire sì o no alle imposizioni e alle regole della società in cui vivo e della Storia. E allora è qui che tu discendi nella mente di Ivan Petunin, di Celan Beethoven Mussorgskij Bacon, della madre di Jackie…

E poi, infine, prendi la Storia e quel mentale che hai strutturato/destrutturato come un grande domino con cui da un lato riempi gli spazi vuoti dell’esistere e dall’altro fai traboccare quelli pieni, ecco prendi queste due categorie/eventi/paradigmi/paradossi, chiamali come vuoi, e da qui fai nascere Borel. L’identità del contrasto e del divergente. L’enigma del visibile/invisibile. E la chance. Chance di essere catalizzatore di istinto e passionalità, di folle normalità e normale follia, di resistenza. E noi diventiamo Borel. Lo diventiamo in una luce che è quella che contraddistingue Viaggio d’inverno dalla prima all’ultima parola, la luce della nudità, perché non c’è parola sillaba o lettera in cui non si è nudi. Una nudità che ci rende astorici e di una individualità universale, quella capace di infrangere il limite dello specchio, di farci cadere nel profondo della nostra identità e poi l’uno nell’identità dell’altro, perché ciò di cui siamo composti è appunto un’universale identità fatta di tutti quei sintomi che sono, che ci piaccia o no, ciò che fa di noi un’umanità. E questo, Viaggio d’inverno, lo dice con lucida autenticità. Nessuno si salva perché non siamo parte di un tutto ma siamo il tutto o, se si vuole cambiare prospettiva, tutti siamo in condizione di salvarci perché in noi tutti i sintomi coesistono, si tratta di riconoscerli/anticiparli, di individuare un antidoto. Ma ne siamo capaci? E’ alla nostra portata? E qui, sia chiaro, la questione non è: siamo liberi o non liberi di, qui la questione è: ne siamo capaci? Chissà.

Intanto abbiamo Viaggio d’inverno, grande e libero affresco collettivo, su cui riflettere.

Un forte abbraccio, Silvia.

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Antologia da Viaggio d’inverno

Regni irreali

Vuoi che ti dica quello che penso veramente? Lui è un clochard speciale. Inizia il suo diario occultandosi al mondo e cominciando prima a scrivere, poi a disegnare. Dedica centinaia di pagine alla descrizione puntigliosa dei tormenti e delle uccisioni di bambini e bambine strangolati, impiccati, decapitati, smembrati, arsi vivi, crocefissi, sventrati. Lavapiatti in un ospedale, cattolico fervente e praticante (onora la messa alle sei di ogni mattina), vive recluso in una camera di magazzino poco lontana dalla foce maleodorante di un fiume. Quando di giorno lava i pavimenti imbrattati, lo chiamano «idiota» ma lui tace. Da sessantanni scrive e dipinge bambini e bambine nelle sue quindicimila pagine dedicate ai Regni Irreali. Ricorda, da bambino un tornado, che strappò le case dalle fondamenta e i corpi dalle case: vuole scongiurare che ritorni. Per questo nel suo libro traccia le cronache sia dei dei bambini massacrati sia delle loro improvvise resurrezioni in campi fioriti. Tutto si compie nelle grandi pagine del suo libro, a notte alta. Lì tutto muore e rinasce. Dio non esiste a caso. Lui lo prega tutti i giorni. Scruta la carta bianca con pietà, perché fra qualche ora sarà colma dei cadaveri che disegnerà, e delle minuziose parole di pietà con cui descriverà ogni dettaglio. C’è chi lo accusa di essere un assassino fallito, chi impreca pensando che senza quei volumi di carta il modo sarebbe pieno di molti bambini morti. Vorrebbero farlo fuori, accoltellarlo nei cessi dell’ospedale, ma lui è troppo mite e le quindicimila pagine dei Regni irreali li intimoriscono, anche se non le hanno mai viste. Dipinge con imperscrutabile gentilezza e ogni ragazza morta nella carta è destinata a risorgere. Macchia la carta con immagini fittissime. Si concentra sul soggetto della percezione rappresentandolo in tutta la sua interezza, reale e irreale, come sul punto di esplodere, un attimo prima della morte. Ma non sa trattenerlo sul margine del disastro. L’oggetto brulica inquieto, ricolmo di tutti i colori e di tutte le forme, gli sfugge. Allo stesso modo le composizioni furiose di Bacon affondano in una spettrale figuratività che appena richiama l’esistenza umana: nelle sue figure torturate e distorte c’è una materia liquescente e raccapricciante che appanna i lineamenti dei volti, una materia che l’occhio deve guardare perché il resto del quadro è chiuso a ogni fuga: è parete, letto, finestra, colore opaco di luoghi murati. Nel suo oscuro scantinato di custode-voyeur, dove lascerà inedite le quindicimila pagine del suo libro, scritto e dipinto, lui pensa alle oscure maree del fiume Hudson. L’acqua-fiume è un’immagine rifranta e minacciosa che sprigiona migliaia di apparenze confuse, senza cornici. Mentre lo specchio, confinato nelle stanze borghesi, è un cerchio tranquillo, l’acqua scompone i riflessi, increspa e agita, è flusso che trascina e disperde, portando l’immagine verso l’evanescenza. Fra l’armonia dell’immagine ferma e la dissonanza dell’immagine mobile il pittore ha scelto l’acqua mobile dove a volte rifugia le sue figure innocenti. Il solitario custode, che morrà ottantunenne, consuma il suo mondo in una pittura-parola frastagliata e ininterrotta, piena di fogli immensi. In certi giorni si immagina mentre da’ libero spazio ai suoi impulsi e uccide delle ragazze appena entrate in ospedale, inermi. Cosa sarebbe potuto accadere? L’intervento della polizia, la rimozione dei cadaveri, l’incarcerazione dell’assassino, la fine di ogni enigma, le pareti di una cella. A cosa sarebbe servito disseppellire quel brutale desiderio? A generare morti precoci e crudeli, a determinare l’ergastolo di un miserabile. Da pittore delle forme e delle parole può mostrare su fogli interminabili migliaia di ragazze uccise nelle sue fantasie pittoriche, in un combattimento mitico fra crudeli schiavisti e salvatori gentili. La fantasia delirante rende lui, recluso di una misera stanza, non l’assassino che avrebbe potuto essere ma il pittore-salvatore che sa mostrare, dentro i suoi “regni dell’irreale”, la realtà di una psiche che si redime con le sagome dei fantasmi e non con i cadaveri delle vittime. L’assassino si traduce/tradisce nel pittore. Ma non è questa una realtà comune a tanti artisti anche sani di mente, da Francis Bacon a Lucien Freud, che oltrepassano ogni rassicurante superficie visibile? Osserva Paul Klee: «Più di uno non riconoscerà la verità del mio specchio. Deve comunque rendersi conto che io non sono qui per riflettere la superficie (questo può farlo la lastra fotografica) ma che devo penetrare all’interno. Io rifletto fino all’interno del cuore. Io scrivo parole sulla fronte e attorno agli angoli della bocca. I miei volti umani sono più reali di quelli veri».

Henri Darger

Saman

Saman, io e tuo padre siamo morti nel momento esatto in cui Danish ti toglieva la vita e getttava il tuo corpo nel Po. Non doveva accadere ma, come sai, se leggi la storia del popolo pakistano, non poteva che andare così. Tu ora non esisti più ma noi continuiamo a respirare e respiriamo da morti, avendo ucciso lei. Non avresti dovuto baciare quel ragazzo, protendere il viso con tanto amore verso chi amavi. Tuo padre aveva deciso già il tuo destino e tu gli hai disobbedito clamorosamente. Non c’è scampo. Ci hai costretti a toglierti dal mondo. Non perdonarci come noi non perdoniamo te. Sì, eri bellissima, e io non vedrò mai i tuoi diciannove anni. Chi avrà pietà di te? E chi avrà pietà di noi?

Jackie

Il mio Jackie? Sì, hai ragione: lo chiamai così, in omaggio al piccolo Jackie Coogan ne il Monello di Chaplin. Il monello lanciava le pietre e rompeva i vetri, Charlot vetraio li aggiustava. Distruttore e ricostruttore: come mi raccontano ii suoi amici e ii suoi detrattori, le due anime di mio figlio, il grande filosofo Jacques Derrida. Per me, per sua madre, sempre e soltanto Jackie.

Rapper

Io te lo confesso: io, Ivan Petunin, mi uccido per non andare in guerra a uccidere. Mi tolgo la vita perché non sono sono pronto a togliere la vita a nessuno. Io ho prestato servizio nell’esercito russo, ma allora era diverso. Oggi, se guardate il mio video su Telegram, saprete che non sono più vivo. Non posso prendere su di me il peccato dell’omicidio della mia anima. Non voglio. Sono un rapper e non un assassino. Vado via.

Necessità

Al funerale della donna ottantasettenne un impresario delle pompe funebri, distratto, porge la mano al parente per esprimere le sue personali condoglianze e tutti lo guardano con disgusto e paura, obbligandolo a ritirare la mano protesa. Un altro uomo porta la figlia, tredicenne, a un controllo ospedaliero dopo la rimozione di un carcinoma. Un poliziotto gli infligge una multa da 400 euro. Per il funzionario di polizia quel controllo medico non era, con tutta evidenza, uno stato di necessità. Dove si sviluppa la necessità nel tempo del Covid? Nella scatola di fagioli acquistata al supermarket, nella crema cortisonica cercata in farmacia e non nel corpo di una bambina appena operata? Chi decide la reale necessità? Cosa è davvero reale? Per gli occhi di chi? I soprusi nascono dalla differenza degli sguardi, che come asce producono giudizi. Osservando in un bar aperto, accanto al mare, le catenelle che dividono il dentro dal fuori, non hai la percezione di proteggerti ma la tristezza di essere qui e ora, in uno stato di desolazione condivisa: ritrovi la necessità di viverti più gentile, con un gesto consentito, una carezza nell’aria, uno sguardo di empatia, che possano sostituire, qui e ora, la minima fisicità di un abbraccio desiderato. Tesi a mostrare il proprio respiro pur misurando gesti e distanze, guerrieri di una battaglia incerta, orfani di abbracci decisivi, senza più nulla da sorreggere: eccoci a vegliare il tempio. Tu, noi, tu, noi: invisibili, fragilissimi custodi sigillati da maschere.

Pensare è sconvolgersi

Bacon smise di gettare sul cavalletto i colori, stremato. Si addormentò e fece un sogno. Era in una grande chiesa, molto buia. Davanti ai suoi occhi la scultura in legno di un Cristo: ma i piedi non apparivano crocefissi al legno, erano prodigiosamente liberi, e tutto il Cristo sembrava proteso fuori dalla croce, nello slancio di una caduta violenta o nella volontà di un’ascensione estatica. Francis fissò stupito quei piedi: non aveva mai pensato che i talloni riuscissero a staccarsi dai chiodi della croce. Per un attimo pensò che la sofferenza fosse terminabile e non, come la pensava lui, disgustosamente continua. Si chiese se il crocefisso fosse di Giovanni Pisano. «Forse della sua bottega – pensò fra sé e sé. Quando uscì dalla chiesa, come svuotato, vide l’insegna di una città – Massa Marittima. Osservò il duomo: era spostato dal lato destro della piazza, quasi che un vento improvviso lo avesse messo così, di sbieco, e una benefica bonaccia avesse impedito che crollasse oltre il bordo delle colonne e dei muri. Gli vennero in mente certi paesaggi di Soutine, che aveva la tentazione di trattenere con le mani perché pini e case non scaturissero fuori, rapiti da un vortice. Al tavolo di un caffè vide un ragazzo: aveva un foglio sulle ginocchia. Stava copiando da un libro piccolo, illustrato in bianco e nero, quello che sembrava un disegno del Pontormo. I due occhi del disegno – che ricordavano quelli dell’originale – erano totalmente bianchi. Anche da quel foglietto mal copiato lo guardavano fissi, come ciechi, e sembravano suggerirgli, come già sapeva, che il mondo era un paesaggio insensato e stravolto. A Bacon tornarono in mente le parole di uno psichiatra che un giorno, nel suo studio, conversò con lui sulla follia: «Vedi, loro – e alludeva ai matti – o sono pietre o sono piume». Una ragazza, da un sipario mezzo strappato, gli chiese di avvicinarsi. Aveva un’aria misteriosa, i capelli scuri. Lo fece entrare in una stanza dove, ai muri, erano appesi fogli tutti fitti di linee geometriche. «Sono queste le fondamenta, – ripeteva – le fondamenta…». Francis si accorse di non resistere più. Irritato, turbato da una collera incontenibile. strappò i fogli dalle pareti, fuggì via. La ragazza scomparve. Fu allora che gli venne in mente un verso: «la materia oscura l’assilla…». Sapeva che non ci può essere geometria nel mondo. Anche Klee lo sapeva da sempre, nascondeva i suoi piccoli angeli armoniosi dietro scritte enigmatiche o disegnandoli discretamente su carta da pacchi. «È tutto disgustoso… – ripeté Bacon fumando per le strade. La città gli sembrava fatta di una materia strana: gli uomini ci camminavano ma non riuscivano ad avanzare bene; faticavano, i piedi incollati all’asfalto. Uno di loro oscillava, braccia e gambe fluttuavano da un lato e dall’altro. Una voce disse: «Ha un coltello nella schiena». L’uomo, che continuava a oscillare senza nessuna lama visibile, finì con lo stramazzare a terra. Francis non si avvicinò al drappello pietoso che stava soccorrendo il morto. Continuò a camminare sperando di potersi svegliare. Adesso era come dentro un’erba altissima e sentiva di non odiare più i paesaggi ma di appartenere al crescere stesso dell’erba. Se avesse dipinto tutto questo non avrebbe potuto fare che come Monet semicieco: tracciare il sentiero del suo giardino, con il ponte e le piante, come un intrico rosso e verde, una macchia inestricabile. D’un tratto si sentì, dentro l’erba, come se fosse chiuso dentro una gabbia. In che modo ne sarebbe uscito? Ricordò due quadri di Pollock esposti al Guggenheim di Venezia: uno si chiamava Foresta incantata, l’altro Alchimia. Li rivide, esatti e grigi come li ricordava, turbolenti ma regolati da un ordine misterioso, che rammentava tanto le leggi oscure della foresta quanto i rigorosi processi alchemici. Capì che non sarebbe mai uscito da quell’erba senza pensare a una figura. Di nuovo gli affiorò alla mente il verso – «La materia oscura l’assilla» – e capì che doveva cedere all’ordine. Ricordò il secondo quartetto di Shostakovic, lo riascoltò mentalmente in pochi secondi. Rammentò simultaneamente che, in qualche pagina di taccuino, Cioran aveva scritto: «Pensare è sconvolgersi». Bacon si svegliò alle cinque di mattina, osservando la scimmia fissa sul suo tavolo di legno. Sorrise e cominciò a lavorare alla sua Crocefissione.

Francis Bacon

Borel

Vivere è sempre sbagliato. Per strada ti aspettano orari, padroni, ordini, numeri. Ci chiamano sempre. E, quando chiamano, bisogna obbedire. Ma non sempre. Al contrario: in tutti i modi che ci sono concessi, è necessario disobbedire a quanto ci vuole inerti. Io, leggendo libri e divorando film, mi sono estraniato da una vita che non sentivo mia. Mi sono messo in stand by. Guardavo videocassette, facevo scorrere parole. Una continua metamorfosi. Noi siamo questa condizione di metamorfosi. Chi non lo crede possibile è un servo che si accontenta. Mi piacciono i servi, ma i servi che vogliono esserlo. Mi sono fatto chiudere qui proprio per soggiacere alle regole dell’istituto. Obbedisco, e vengo nutrito e alloggiato. Tutto bene. Conservo il mio spirito come se fosse sotto la neve: intatto, immune. Non devo impegnarmi a possedere, orchestrare, addestrare. Del mondo non ho niente da dire, dal mondo non ho niente da prendere. Per me tutto quello che esiste è un vago ricordo di artisti sconosciuti, di libri prodigiosi, di terrori mentali. Non ho altro in mente che questo. Vorrei correre, ma le gambe non me lo consentono, Tomas. È come se non fossi mai realmente e totalmente vissuto. Qui sto da tre anni e tutto va bene. Nessuna malinconia. Leggo, penso, scrivo. Certe volte sfoglio dei libri, a notte alta. Non distinguo le parole sulla carta, ma provo un piacere straordinario a voltare le pagine, a percepire storie che non leggo. Poi guardo lo specchio, non appena fa notte. Bellissimo non vedermi! Mangio con voracità, i gomiti puntati sui braccioli della sedia, tendo i muscoli delle spalle. Leggo di vite che ho ritrovato, che ho inventato. Vite finite, stroncate da morti ingiuste, inopportune, scandalose, gratuite, crudeli. Vite troppo veloci o troppo lente. Le ho salvate io dal silenzio. Il primo sopruso, ovviamente, è la morte. Ci renderà, prima o dopo, sue vittime. Ma io voglio combatterla. Migliaia di biografie di migliaia di uomini descrivono fatti stupidi e comuni. Io mi assento da tutto questo. Mi dichiaro: non presente. Ho voluto schivare la vita vera per assaporare la vera vita. Salvare chi si è arreso al silenzio. Mettere il suo nome, tracciare la sua storia, definire il suo tempo. Sostenere questo compito impossibile: cacciare il silenzio. Io lo sto facendo. Io racconto di esseri che sarebbero stati spazzati via, senza le mie parole. Li tengo vivi nelle parole. Io ero un tipo riservato e tranquillo, non prendevo mai la parola per primo. I lineamenti anonimi. Il corpo mediamente robusto. L’altezza normale. Gli occhi castani. I capelli né folti né radi. Avrei potuto confondermi con chiunque. Uno che passa inosservato in mezzo alla gente. Non ho mai lottato contro questa felice uniformità e mi sono reso quasi invisibile. Quando non hai una vita soddisfacente, un corpo giusto, dei pensieri originali, e ti ripugna toglierti la vita, accetti di vivere in segreto. Ma devi covare un altro mondo. Quello che, tutti i giorni, tessi e ritessi, come un ragno famelico. È una chance che nessun dio e nessun demone ti strapperà.

Tutti siamo esattamente così, chiusi in piccole, infime ossessioni. Ognuna è un recinto che limita, che stringe. Il nostro male e il nostro bene. Il peggiore degli abissi ma anche la nostra unica smorfia. Perdiamo tutto, ma importa a qualcuno? Il giorno dopo è daccapo. La vita non ha colonne fisse, strutture eterne. Ci sono nomadi che traversano il deserto senza nessun messaggio da portare. Nessuno è mai solo. Neppure io, adesso, lo sono. Ci sei tu. Come ti chiami? Tomas? Da tempo speravo che accadesse, Tomas. Qua ne passano tante, di persone, ma tu sei un tizio strano. Mi assomigli, credo (o mi immagino che sia così). Qual è il tuo kharma? Io fin da ragazzo sono stato ossessionato da un duende che mi dettava i pensieri migliori, da un folletto felice e maldestro. Ero stregato da Miles Davis e Tom Waits: loro sì che hanno il duende, dicevo. Crebbi con l’idea che le persone, prive di uno spirito che le possieda, fossero inutili automi. Cominciai, fin da bambino, a disegnare sui muri delle facce e dei corpi, ma su ogni faccia e ogni corpo volevo che aleggiasse una striscia di bianco, una traccia di vapore che li animasse con il vigore del duende. Le persone che ho amato a volte non erano neppure vive: erano scrittori di altri secoli. Nessuno mi parli mai di letteratura. La letteratura, quella vera, non esiste. Gli scrittori sono e saranno sempre esseri vivi, più vivi di te e di me perché hanno sperimentato la passione di non esistere attraverso parole che esistono. Io andavo sempre al cinema, quando ero giovane, guardavo film degli anni quaranta, mi sentivo finalmente e totalmente solo, non appena calava il buio nella sala; al cinema non vedi mai una persona umana nella luce vera del sole, sono tutti esseri come te e come me, scontrosi, voraci, infantili, atterriti, semiciechi, rintanati, sognanti: guardano immagini, osservano figure, non s mostrano nudi; con loro condivido storie dove immagini di corpi oggi morti si muovono alteri e appassionati. Non è straordinaria, quella vita sotterranea? Il vento porta turbini di polvere sui piatti e sulle mani, ululando senza suono. Un gangster si uccide in cima a una fabbrica, sparando contro dei barili di esplosivo. Una donna scende la scala facendo oscillare un anello alla caviglia. Un uomo non sente, nel buio, il suono dei suoi passi. Un giovane, seduto con la sua donna nel sedile anteriore della macchina, ingrana la retromarcia e si sfracellano insieme nel burrone.

Sì. h pensato spesso alla psichiatria ma non ho mai studiato l’argomento. Non sono diventato né psicologo né medico. Mi ripugnava esercitare una professione che avesse delle analogie con questo problema sacro. Ma ho spesso immaginato la condizione del folle. Ho immaginato che io e lui, per molti giorni, ci frequentassimo nella cella di un manicomio. Il pazzo è sempre lì, nel dolore di non esserci o di esserci troppo. Abita sempre lo stesso luogo, che solo lui conosce. Non serve nessuno, non serve a nessuno, non invecchia mai. Si ritira dal frastuono dei vivi, si fa consumare da un sogno. È un puro. È una pietra che nessuna goccia d’acqua può levigare. No, non guardarti intorno, Tomas! Sembra che ti stiano braccando ma non ci badare. Non verranno fin qui. Questo è un luogo di dementi. Non penseranno mai che tu sia qui. Férmati. Ricordi le pitture di Briga, a Notre Dame de la Fontaine? Il Giudizio Universale. Le ruote. I diavoli. I mostri. Il corpo impiccato di Giuda, gli occhi sbarrati, gli intestini che gli fuoriescono dal corpo come un serpente che si attorciglia su se stesso: il diavolo, con la testa e il culo da diavolo, tira fuori dall’impiccato, come nel travaglio del parto, un’anima nuova. Forse non te l’ho mai detto ma io, dentro di me, ho un’energia quasi incontrollabile, a cui non ho mai attinto completamente perché non mi è stato concesso, perché me lo hanno proibito. Non ho vissuto bene la mia normalità. Non sono mai stato normale ma sempre malinconico, come quelle figure dei santi del Lotto, disperate e assorte, recluse dal mondo sacro e dal mondo profano. Mi sono sempre difeso da qualche pericolo, visibile o invisibile. Sentivo che, se mi fossi abbandonato, avrei provato un malessere intollerabile. Mi sarei trovato nudo, i nervi allo scoperto, scorticato. Non potevo permetterlo. È incongruo e infantile, lo so. Ma ero sempre in stato di resistenza. Si resiste con una fatica micidiale, ma si resiste. E, alla fine della giornata, almeno non si è perso terreno. Non si è avanzato, non si è indietreggiato. Si è rimasti in bilico, come se da un momento all’altro qualcuno volesse spingerci nell’abisso ma non ci riuscisse: ecco la realtà. I muscoli sono tesi, pronti all’assalto. Ci opponiamo. Un altro mondo ci aspetta. I pittori, in questo senso, mi hanno sempre appassionato. Creano superfici nuove, dipingono nuovi mondi. Non si accontentano delle forme che esistono ma ne imbrattano altre. Non ho mai avuto problemi di padre o di madre: sono rimasto orfano dell’uno e dell’altra a cinque e sette anni. E tu? Se vieni in istituto a visitare tua madre, lei è stata accanto a te o lontano da te, per anni, visto che non sei più giovane. E allora tu sei una vittima. Lei avrà cercato, per amore, di toglierti l’aria che respiravi, di sostituirla con la sua. È accaduto sempre così, da quando esiste il mondo. E tu hai lottato contro la sua violenza. Magari sei diventato ingegnere, medico o scrittore. Cosa posso saperne? Ma in realtà ne so io più di te. Non avendo vissuto il problema, me lo sono covato dentro. Ci ho pensato fino all’ossessione. Avendo perso i genitori da bambino, mi sono trovato con uno spazio enorme e vuoto da occupare con il pensiero. E ho pensato, anno dopo anno, a cosa significhi essere figlio o padre, e ho fatto innumerevoli fantasie. Se mi capitasse, un giorno, di vedere una scala i cui gradini finiscono dentro un muro, proverei sempre la speranza che domani quei gradini possano andare verso una porta, portarmi dentro una casa. Non credo che la realtà sia quella che appare. Se ci credessi, sarei morto e non ti starei a parlare. Saremmo tutti già finiti. Io, te, gli altri. Hai mai letto un libro mentre scende la notte e i fogli cominciano a diventare invisibili e tu cerchi comunque di decifrare le righe? Io sì. Viviamo perché ogni giorno siamo dei paradossi: facciamo strappi, apriamo fessure, provochiamo ferite. Ho 67 anni, bloccato in questa carrozzella. Ieri ho trovato tra le mie carte un vecchio racconto: lo avevo intitolato Borel: dice di un prigioniero che assume tutte le facce dei suoi visitatori. Perché voglio fartelo leggere? È un racconto breve e non significativo, ma attraverso questo racconto ho capito di essere chi sono. Non ricordo come mi chiamassi prima ma da allora, ne sono certo, ho detto a tutti che mi chiamavo Borel e tutti, da allora, mi hanno chiamato Borel. Mi scartavano, diffidavano di me, ero solo uno scribacchino invisibile. Fai bene le tue pratiche, Borel. Non ti distrarre, Borel. Ordina i numeri, Borel. Compila le cartelle, Borel. Fai le fotocopie, Borel. Ed io eseguivo, senza usare la testa, come un morto vivo. Consòlami. Ho la testa che pesa, che vorrebbe staccarsi dal collo. Io non ci sto. Tu sei un uomo sano. A te sembra di essere una persona normalmente viva. Normalmente sana. E lo sei, come tanti. Ma fino a che punto sei consapevole di avere avuto soltanto un’immensa, fottuta fortuna? Sarebbe bastato un piccolo virus, una piccola infezione in alcune fibre del cervello, e saresti stato una persona spenta, un fantoccio inerte. Hai mai studiato certe malattie neurologiche? Dovresti farlo con scrupolosa attenzione e capiresti di essere, come tanti uomini, un privilegiato, un eletto. Io ho scritto tre racconti su tre incomprensibili infermità. Volevo che il mio lettore capisse fino a che punto l’orgogliosa e arrogante salute dell’uomo sia solo una botta di culo, un’assurda roulette russa e niente di più… Sai cosa significhi, Tomas, perdere i capelli, zoppicare, avere il sangue che scorre lento nelle mani, nelle gambe? Banali reazioni chimiche. Chi vuole avere la testa a posto, chi vuole opporsi alla demenza, può. basta che sia discorde al mondo o almeno che finga di piegarsi e poi si scavi una via d’uscita proprio dentro alla sua tana, dove resterà padrone solitario e onnipotente. Io sono troppo vecchio ma ho tutta la libertà che voglio per dare voce ai miei dèmoni, non devo soffocare verità, obbedire a convinzioni, conta quello che è vero: l’odore di una schiena abbronzata e adolescente, il profumo delle piante notturne, un cielo stellato, un sesso giovane e morbido,. Quella ragazza aveva sedici anni, il viso acuto, gli occhi neri, la magnifica schiena scura. Ho pensato con gioia: e se morisse ora? Quella giovane meraviglia non avrebbe dovuto invecchiare, volevo fotografarla in quella luce dorata. Devo lottare. Ogni impresa è impossibile e perciò va tentata. Io credo che potrò sconfiggere il tempo. Forse no, ma rallentarlo? Già se ti scrivo, se ti parlo, questa lentezza mi scivola dentro la mente. Non arresterò la natura delle cose ma le renderò straordinarie, per un tempo appena più lungo di quello che ci è concesso. È già qualcosa: una frivola, insignificante vittoria della memoria. La schiena della sedicenne, bellissima e abbronzata, resterà splendida per qualche settimana in più, o qualche giorno, qualche minuto, qualche secondo in più, senza che il tempo cominci già da ora a logorare la pelle delicata ed elastica, quella pelle che toglie il fiato per la sua bellezza e non chiede parole a nessuno. I vecchi e i matti sanno trovare ancora lo stupore che la vita cancella nella lobotomia dei giorni. Loro, i vecchi e i matti, alieni dall’ordine sociale, non hanno niente da perdere e niente da dare; come certi assassini, assomigliano in modo sorprendente agli artisti. Invece, noi: cadaveri con quest’aria assorta, irritante, da pupazzi. Che la vita ci porti solo a questo stato è buffo e impossibile, forse non riusciamo a ribellarci nel modo giusto, a respingere la morte con la necessaria fermezza, eppure si potrebbe, si può più di quanto si creda ma tutti sono pigri e sordi, si arrendono ai vecchi riti, credono che la vita di domani sia lo specchio della vita di ieri e non è così, scorrono solo storie, lo sai quante storie mi hanno assediato nella vita? più di quante tu possa immaginare, io non sono mai stato un uomo solo, non sono mai stato solo un uomo, qui non si tratta di parole, si tratta di storie, e hanno bisogno non solo della voce che le pronuncia, le storie, ma delle parole che le scrivono, proprio di certe parole che lasciano segni. Non ho voluto annotare nulla fino a sessant’anni, mi illudevo di ricordare, invece si dimentica tutto, Non ricordo un solo volto come nessuno ricorda il mio, sapresti descrivermi se chiudessi gli occhi? Sapresti realmente descrivermi? I racconti hanno un nome, un cognome, un corpo, dovrei raccontarti la filastrocca della mia nobile vita? Le vite si assomigliano tutte, banali, indaffarate, infelici, terribili, indegne di parole, ho lavorato, non mi sono sposato, non ho avuto figli. Viaggi? Pochissimi. Si parte per luoghi lontani ma si resta sempre dentro di sé, non bastano deserti dorati o cattedrali gotiche, chiostri barocchi o tramonti alla Belém, conventi affrescati o mari antartici, si resta immobili, con il piacere di essere immobili, metà degli uomini sul pianeta crede di essere viva e lo è meno di me, ho sempre percepito, fin dall’infanzia, un’idea eccellente della vita, una forma ben tracciata che gli altri inutilmente si sarebbero accaniti a frammentare, quella forma era precisa in tutto e per tutto, ma non ne voglio parlare ancora, in questo mondo di idioti nessuno capisce che la vita è un lampo, un lusso, un caso, si ostinano a trattenerla come un tesoro prezioso e fanno pena, i corpi non restano, sono destinati a disfarsi in cenere, ma si pensano immortali. E se io fossi solo un uomo di cinquant’anni truccato da vecchio? Se avessi simulato delle malattie terribili, tanto da rendere necessario il mio ricovero qui? Se ti avessi raccontato solo delle favole idiote? A volte chi prende la penna in mano non si accontenta della sua unica voce e rimane complesso, inafferrabile, irriducibile. Volevi leggere i miei racconti? Volevi sfogliare i miei disegni? Sono nella mia stanza, lassù. Chiusi nel comodino a sinistra, primo cassetto. Vai pure a prenderli. Sali, grazie. Sei già arrivato? Vòltati, allora.

Io sono qui, sulla soglia della stanza. Come sono salito, se sono un invalido? Ma ora non lo sono più. Ti confesso che non ho mai scritto una riga, non ho mai disegnato niente. Nella mia stanza troverai solo la cenere dei miei sigari. Prendili pure. I sigari sono tuoi, Tomas. Ti stupisci che io stia dritto sulle gambe? Ma io non ho mai avuto nessuna infermità. Tu, invece, adesso, hai forti dolori, non è vero? Alle cosce, alle caviglie, ai polpacci. Ti capisco. Devi sederti. La carrozzella è proprio vicina al letto, dalla parte sinistra, vicino al comodino. Perché sei tu Borel, ovviamente. Lo sei da quando te l’ho detto: «Ieri ho trovato tra le mie carte un vecchio racconto: lo avevo intitolato Borel. Racconta di un prigioniero che assume tutte le facce dei suoi visitatori». Io, da oggi in poi, sarò solo uno dei tanti figli imbecilli che vengono a trovare la mamma in cronicario: alle sei e dieci uscirò di qui, con la tua faccia e con il tuo nome, le gambe sane e scattanti, finalmente libero, perché ti ho parlato per il tempo necessario. Con le magie del racconto tutto si trasforma: la parola è il pianeta che rende possibile ogni cosa. Io, ora, sono libero come te. E tu resterai qui, essendo tu Borel. I tuoi documenti li prendo io, i miei li metto nel tuo portafoglio. (L’ultima pagina del mio racconto prevedeva che io lasciassi l’ultimo visitatore al mio posto, scambiando con lui il corpo, la faccia, la voce.)

Tranquillo… Il tuo dolore non durerà troppo a lungo. Borel è di salute cagionevole. Tra pochi mesi compirai sessantotto anni; poi, senza accorgertene, arriverai a sessantanove, settanta, settantuno. Un tempo ragionevole. Poi anche respirare ti sarà difficile. L’enfisema, il cuore gonfio, la pancreatite. I soliti dettagli. Ma il congedo sarà breve. Addio.

*Marco Ercolani, Viaggio d’inverno, prose inedite, 2023.

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