I testi sono tratti dal libro collettivo: AA. VV., I nomi della sincronicità, a cura di Stefano Baratta e Flavio Ermini, Moretti e Vitali, Bergamo 2007.

**
In uno dei suoi haiku Matsuo Basho scrive: «Erba estiva: / per molti guerrieri / la fine di un sogno». Da sempre i poeti mettono al centro della scena il tempo inesorabile e la caducità della vita con le sue imprese illusorie, il dolore per giovinezza e bellezza spariti, fugaci come ali di farfalla. L’ala di farfalla mi riporta all’idea di Psyché e quindi a Sigmund Freud, che nel suo Caducità, parla di questo dissolversi e del dolore che ogni essere umano non può non provare nel momento in cui ne acquisisce interamente coscienza. «Il poeta ammirava la bellezza della natura intorno a noi ma non ne traeva gioia. Lo turbava il pensiero che tutta quella bellezza era destinata a perire, che col sopraggiungere dell’inverno sarebbe scomparsa: come del resto ogni bellezza umana, come tutto ciò che di bello o nobile gli uomini hanno creato e potranno creare. Tutto [….] gli sembrava svilito dalla caducità a cui era destinato».
Ma, a segno di questa mancanza, di questo profondo sentimento dell’effimero, il poeta ci lascia in eredità le sue parole: poesie che, lette e rilette, diventeranno humus per poesie che verranno scritte da altri. Si delinea quindi una traccia, una scia di volo per chi voglia seguire la divagante e invisibile traccia della farfalla. Per sostare ancora in area giapponese, ricordo le parole del settecentesco Yosa Buson: «Un monaco solo / legge una pietra incisa / nel vento invernale». Una pietra incisa come quella di Gilgamesh giunta fino a noi dal fondo dei millenni, e non solo perché la pietra è materia legata alla permanenza più di un foglio di carta. Buson sembra rispondergli anche lui facendo parola del sentimento dell’eternità esprimendolo simultaneamente in tre immagini: il monaco solitario – speculare al lettore in tempo reale – , la pietra che fissa la parola e il vento che non la cancella.
Il poeta, leggendo altri poeti, ha la sensazione di abitare in una comunità dove ogni componente rappresenta la caducità nella propria individuale versione, con le parole che affida al sogno della sopravvivenza dopo la sua morte fisica, qualunque sia il supporto – petroso, cartaceo, digitale, ventoso. Siamo di fronte a un “atto di resistenza” come suggerisce Gilles Deleuze. La resistenza – l’atto in cui la vita si oppone al “destino della vita” – consiste proprio nel parlare della morte, nel corteggiarla fino a quando lei non avrà il sopravvento: è “atto poetico” attorno alla morte. Nelle epoche d‘oro della poesia spagnola inglese, francese, al pieno fulgore di una regalità terrena fa da contraltare il riflesso spoglio della sua caducità, così come nella pittura della natura morta gli oggetti sono colti nel punto di sparire dall’occhio dell’osservatore – occhio vivo, demiurgico, e asincronicamente occhio della morte che ne illumina la precarietà. Lo stesso messaggio – il permanere della dissoluzione del paesaggio nel tempo – viene espresso dal tema delle tavole apparecchiate e sparecchiate. Quando John Donne inneggia all’amore parlando della morte e inneggia alla morte alludendo all’amore, questo amore mai scisso dalla morte si eternizza nelle parole come pietre tombali, testimoni dei morti vivi fra di noi. È un doppio movimento di sincronia che ruota attorno a se stesso, non la coincidentia oppositorum verso qualche ipotetico centro. Il concetto di caducità – che si tinge di religiosità e di fede nell’ultraterreno come di umana laicità senza futuro – segue una traiettoria dal fuori al dentro e viceversa, in un apparente sincronismo, celebrando o il Tempo (che coglie passato, presente e futuro) o il tempo (dove vediamo il presente, il semplice sparire dell’uomo. Una sparizione fatta di segnali che continuano a parlarne, un morire composto di segni che restano le uniche consolazioni per chi li scrive, contro ogni trascendenza. Ai versi di Omar Khayyàm “In mano prendi una coppa e la treccia d’Amica gentile / che passa, passa e non resta questa tua vita d’un giorno” fanno eco quelli di Lorenzo il Magnifico “chi vuol essere lieto sia / del doman non ‘è certezza”.
Il poeta non ha un suo pensiero originale. Ha un destino, comune a tutti i poeti: circoscrivere la sua lotta e la sua illusione dentro un tessuto di parole, e applicarsi ostinatamente a questo lavoro. Il suo perenne scacco è speculare alla consapevolezza che nel vuoto delle parole non troverà che il vuoto delle parole. Ma la vita è divenire, supera e travolge l’impermanenza umana. Quello che qui muore altrove può vivere, forse sta già nascendo Pensando oltre di noi, come oltre le nostre parole, troviamo vita e morte compresenti in un divenire non legato alla cronologia umana. Allora, se è vero che ogni poeta cerca la sua voce per individuarsi dal nulla, è anche vero che la poesia è chiamata a compiere un passo ulteriore: procedere oltre il suo percorso individuativo e confluire, con la sua debole scia, nell’aria vasta di tutte le parole. Sono loro a possederlo, non il contrario. E lui è voce tra le voci, disseminata in intrecci, mescolanze, polifonie. Nel suo provvisorio hic et nunc il poeta si individua nelle variazioni di queste tracce, come un attore che ogni sera intona le stesse battute con vibrazione individuale e sempre diversa, perché l’arte è molteplicità e continuum della stessa intonazione.
Il poeta sa che il suo nome si perderà insieme a mille altri, creando una molteplicità di voci, un suono di fondo, una polifonia anonima. Non esiste nessun vello d’oro da raggiungere ma un viaggio verso l’ignoto dentro il quale usare le parole come frecce e come scudi contro la morte. Parole-maschere, tracce del suo passaggio terreno. Solo attraverso di esse può fingersi immortale e collegarsi all’idea del divenire. La sincronicità è questo contrasto insanabile, tra vita e morte, che solo le parole, con la loro pelle illusoria, nella tessitura dei richiami e delle corrispondenze, hanno il potere di alleviare. Se il non fare parola è consegnarsi all’irreversibilità e inappellabilità di una morte che esiste qui, nel nostro tempo ma non nel divenire del Tempo, scrivere è il tentativo di esprimere qualcosa di traboccante che ci ammutolisce mentre ci esorta, paradossalmente, a farne parola. Una finzione che non sarà più finzione ma specchio microcosmico di un’altra – seppure irraggiungibile – realtà.
Vicente Aleixandre, nei suoi Poemas de Consumatiòn, scrive: «Fare è vivere ancora,/ o essere vissuti, / o prossimi. Chi muore vive e dura».
**

Mosaico pavimentale del Museo del Bardo, Tunisi