Taccuini inediti di Caspar David Friedrich (datati 1836), ritrovati in un album di schizzi con sulla copertina, scritta, in inchiostro rosso, la parola “Reisengebirge”.
Il testo è tratto da: Marco Ercolani, Discorso contro la morte, I libri dell’Arca, Joker, 2008.
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Un cielo di Leonardo, e in quell’azzurro così calmo, in quel tono così giusto, la quiete che desidero. Imitarlo, ridipingerlo.
Martedì. Riesengebirge. L’ennesimo tramonto. Devo stare attento. Troppa bellezza costringe a un respiro breve, a un disegno esatto, a contorni precisi.
Stare a letto, dormire. Poi svegliarsi, passeggiare, respirare, sapendo che le tele sono tutte là, intoccate, nell’atelier. Creare è un attimo. Ciò che resta è l’arte del respiro. Non si può tumulare il mondo.
Tele senz’aria. Tre quarti della mia opera. Disprezzo.
Nei miei schizzi è diminuito quell’eccesso di cielo, di bianco assoluto, che aveva fatto dei miei covoni e dei miei alberi tracce lievi sulla carta, delle navi e dei porti uno scheletro di vele e di scogli. Comincio a colorare i cieli, a respirare in modo ampio. Sono cieli smorzati, soffici, dolci; aprono spazi, speranze. Non devo più essere esatto. Ho un corpo con tante lacune. Sbaglio.
L’arte consumata in solitudine. Infelicità vigilata.
Se osservi il quadro della nave naufragata nel ghiaccio non credere, come tutti, che io sia il devoto discepolo di un’allegoria della morte. Guarda bene le luci di quei pezzi di ghiaccio: sono foglie illuminate dall’alba, piante che stanno per fiorire.
Solo a mettere nelle tele quanto l’occhio vede. La natura è vuota se non la colma l’occhio. Ma l’occhio è infecondo se non si lascia invadere dalla luna, dal fumo, dai ghiacci, dagli orizzonti, da Rungen bianca e rocciosa…
Nelle mie tele si è depositata la sostanza di molte visioni e, se le guarderai tutte insieme alla mostra di Lipsia, vedrai un limpido anfiteatro di immagini – dalle rovine alla civette, dai fiumi alle nuvole. Ma che fatica, ora, parlarne. Sono così sazio di quest’aria sublime, rarefatta e chiara, dove ogni sentimento della vita è inscindibile dal sentimento dell’opera assoluta. Ogni arte vale in sé, come lavoro dell’anima e non come esibizione di forme. La sua necessità è la caducità, la mutevolezza.
Mi sento felice da quando penso che qualcuno potrebbe rubare o bruciare le mie tele. Ne sorrido. Vita, ambizioni, opere, immortalità – tutto legato a un filo. Solo per caso ci ricordiamo di Leonardo e di Michelangelo, e non di altri autori che hanno avuto lo stesso genio ma non le stesse occasioni. Io stesso sono Caspar David Friedrich al trenta per cento.
Quando dipingo l’aria divento per tutti intrattabile, perché so che sarà imperfetta. Ma quale aria è perfetta?

Concentro la mente in un quadro che non ho ancora cominciato. Ne conosco il tema, il nome, le minime gradazioni di colore, ma non riesco ad iniziare. Ho paura che, se lo comincio, un qualche fuoco eccessivo mi arderebbe vivo.
Vorrei abbracciare una donna senza l’ossessione di dipingerne la schiena…
Gli artisti sono più miseri degli uomini comuni: subdoli, bugiardi, ipocriti, pronti alla calunnia e all’omissione, alla malvagità e alla dimenticanza. Invidiano i fortunati, disprezzano gli ingenui. Curano il loro orto con scrupolo e malizia. Se possono, tradiscono. A volte, non hanno neppure la forza di tradire. Dimenticano. Sono stupidi, sordi.
Ricordo le parole di Kleist su di me: «È magnifico in una solitudine infinita contemplare un deserto d’acqua sconfinata sotto un cupo cielo in riva al mare. Il quadro è là, con i suoi rari oggetti misteriosi come l’Apocalisse, come se nuovamente meditasse sui pensieri notturni di Young, e giacché esso, nella sua immensità, non presenta nulla in primo piano fuorché la cornice, quando lo si osserva si ha come l’impressione che le palpebre vengano recise». Impressione? Realtà. Il mio occhio è perpetuamente spalancato. La mia ossessione non ha un attimo di quiete, neppure quello concesso da un battito di ciglia. Guardo fisso davanti a me. Basterebbe che qualcuno arrivasse alle mie spalle e mi posasse la mano sulla schiena per decidere del mio destino: fermarmi o proseguire. Ma finora sono sempre stato solo davanti ai paesaggi.
I burocrati della pittura usano paesaggi fissi, con scene mitologiche e tramonti di cartone. Ho rischiato anch’io questo codice, quando la mia anima era ridotta a un fossile. Adesso lavoro notte e giorno sulla naturalezza – un compito immane – e penso di essere un genio. A volte è necessaria l’illusione del genio: per i disperati è l’unica salvezza. Anche se – lo sappiamo – un artista diventa geniale quando si dimentica.
Ai visitatori dell’atelier rivelo il mio tono, distante e impassibile, come se fossi un principe morto che guida i suoi amateurs alla collezione delle sue opere, come se io fossi un principe morto che li guida, la candela accesa, all’interno del suo corpo sventrato da qualche cavallo imbizzarrito. Indico i miei quadri al solenne Goethe, che nella mia arte non trova nessuna certezza; al dolce Carus, che dalle mie albe ricava pensieri che non ha mai osato pensare; al timido Runge, che mi fraintende sempre; al pallido Kleist, che mi capisce in silenzio.
Vuoi sapere il nome del mio ultimo quadro? Aurora boreale. Il soggetto: un sole pallido sale all’orizzonte, nascosto dai rami di una betulla. Cielo straordinario: una fascia rosa scuro, con nuvole gonfie e precise, dagli orli neri; in alto, all’orizzonte, un azzurro nitido, sfavillante, che precede la notte. In cieli come questi, mostrati e velati da foglie, con il sole è sempre presente luna. Convivono con singolare saggezza. Gli antichi aruspici, quando scrutavano cieli che non appartenevano né al giorno né alla notte ma ad entrambi, pronunciavano profezie apocalittiche.

Alla croce, all’arcobaleno, alla luna, non corrispondono più i simboli consueti. L’equivalenza si è spezzata.
Aurora boreale. Tronco, arbusti, picchi aguzzi, e poi il sentiero sassoso, in una luce fredda, con le nubi esatte, gli orli rossi, il cielo azzurro chiaro. Aurora boreale. Una luce come non ne esiste più. Irripetibile. Isola di Rungen. Rocce bianche, di un bianco vicino all’oro. Schizzi della costa, ancore, vele. Alberi, cavalli, case. Studi di nuvole. Sotto le nuvole il Reisengenbirge. Tramonto. Una nave in secca, il chiarore lunare, il fuoco sugli scogli. Uomini, al bivio. Invisibili, a volte visibili. Viandanti, di schiena, davanti a un burrone di nebbia. Carri, piante, profili. Rocce, trave, vela. Mare, sempre. Una pianta sospesa nel grigio. Foglie allargate nel vuoto. Rovine su rovine. Querceti.
Cerco enigmi senza solitudine. Chissà se esistono.
Kleist, mio povero e folle amico! Uccidersi come lui? No. Heinrich amò chi amava la morte come lui. Amore come desiderio condiviso della morte. Solo con quest’amore convinse Henriette Vogel ad annegare con lui nell’acqua del Wansee. Io potrei morire come lui solo se ritrovassi Johann, solo se avessi un’altra occasione: sprofondare nel ghiaccio al suo posto. Talvolta lo desidero. Quando vedo le rocce bianche e il mare di Rungen, smetto di pensare. Torno a casa e dipingo i segni della fine imminente: tumuli, urne, cipressi, civette. Talvolta la morte assomiglia proprio a un’assenza di suono.
Una volta Jean Paul paragonò il mio atelier al cadavere sventrato di un principe morto. Credo avesse ragione. Vide esattamente la verità. Solo i corpi svuotati ritornano alla loro essenza. Solo i corpi dei prìncipi possono averne la fierezza. Il pittore non deve dipingere solo ciò che vede davanti a sé, ma anche ciò che vede dentro di sé. Se però dentro di sé non vede nulla, che cessi di dipingere ciò che vede davanti a sé.

Un sole a picco, perpendicolare alla terra; una luce assoluta, che appartiene al regno della notte; gli abitanti, o invisibili o morti; il pianeta sprofondato nel silenzio; le città addormentate: porte sbarrate, finestre chiuse, viali deserti, fiume prosciugato. Per anni ho disegnato l’albero scheletrico fra le rovine, la civetta sulla tomba, il cancello del cimitero, il salice isolato nella pianura lunare. Poi, cominciando a conoscermi, ho capito che non potevo glorificare soltanto le rovine, come un guardiano fedele. Sdraiato su un prato, mi accorsi di annoiarmi di me. Inebriato dalla visione delle nuvole, dal colore degli orli, dal movimento di masse bianche e d’oro, mi sentii la testa leggera. Avevo i piedi nell’acqua, il vuoto nella mente. Mi assopii pensando di cambiare pelle.
Talvolta, alla porta, sento dei suoni – fruscii insistenti, come di giunchi strisciati sul legno; scricchiolii ripetuti, come di armature di cavalieri fantasma; tonfi sordi, come di sacchi sbattuti sulla sabbia. Una notte ho dipinto una pianura completamente buia con il pensiero assorto in quei suoni.
Questo maledetto visibile di cui sono costretto a servirmi perché il mondo capisca! Desolante schiavitù. Vorrei smettere di usarlo. Vorrei essere solo musica e suono. Quando dipingo e penso al regno dei miei occhi, mi trovo a collocare templi e rovine in un silenzio assoluto.
Sedere su uno scoglio e gettare pietre contro la mia ombra, dietro di me. Davanti, guardare l’acqua del mare.
Ho sempre pensato di essere costretto all’esattezza perché, nel momento in cui mi fossi sbagliato, sarebbe accaduto qualcosa di orribile. Come quel giorno in cui dipinsi la porta murata di una vecchia abbazia e durante la notte sentii venire, dalla tela, dei rumori misteriosi, come se qualcuno battesse, dall’altra parte, con colpi di vanga o nocche di mani.
Ho sognato che volevo costruire una casa per me. Ma, nello spazio che avevo deciso per la costruzione dell’edificio, o svenivano dei bambini o scoppiava un temporale o si commetteva un delitto. Alla fine, invece di una casa, avrei costruito una tomba.
Anni fa, con l’esattezza dell’orafo, disegnavo delle foglie. Se avessi raccolto tutte le foglie della foresta, dopo l’uragano, e le avessi riattaccate al ramo da cui erano cadute, avrei completato il progetto di un’arte precisa, inattuabile, inutile. Smisi di pensarlo, considerandolo un’idiozia. Non voglio che la mia pittura sia inerte come il corpo immobile del re che regna. Voglio che sia disordinata, proprio come il corpo sventrato di quel principe.
Sento un vuoto sotto le costole, sopra lo stomaco, all’altezza del cuore. È una sensazione penosa, ma garantisce la bellezza e la forza della tela.
Ho sognato un uomo. Avanzava altero e sicuro, poi mi venne di fronte e disse: «Tutte le notti, alle undici, guarda il fiume». Io restai sbalordito. Mi sembrò che passassero molti anni e ogni sera di ogni giorno di ogni anno ero lì, davanti al fiume alle undici, guardare fisso un punto nell’acqua. Dopo un tempo indefinito vidi, una sera, un uomo, alle undici, in quel punto del fiume. Stava annegando. Mi gettai, lo salvai. Quell’uomo aveva la stessa faccia dell’uomo che mi aveva ordinato di guardare, ogni notte, il fiume.
Non c’è più scampo, per me. Lo sapevo da tempo. Da quando, bambino, ho saputo che Johann moriva, niente è più apparso come prima. C’è stato solo quel buio, quella vita che avevo sottratto al mondo e che laggiù, nella notte, esigeva la sua esistenza, negata dalla morte prematura. Una morte che lo aveva raggiunto a causa mia. Perché Johann volle salvarmi dal ghiaccio dove stava annegando e morì al mio posto. Una vita rimasta là, fra le non-vite, che si vendicherà della mia. La sento nascere, formarsi, plasmarsi. È solo lamento, solo voce, ma presto diventerà corpo, il suo corpo. Il mio volto, mentre la sua vita comincia a parlarmi, sta cambiando; comincio, continuo a cambiare; fra poco, al mio posto, col mio stesso volto, ci sarà Iohann, lui, Johann, il fratello che ho ucciso e che vivrà coi miei gesti e la mia voce, mentre io, annientato, espierò, sepolto nel ghiaccio, senza riuscire a morire…

Claudio Parmeggiani, Caspar David Freiedrich
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Dipingere non il frassino ma il suono del frassino, lo schianto della folgore sul ramo. O, delle betulle, certi rami, bianchi come avorio, alti e flessuosi, dove la corteccia si distacca lentamente, con strisce sottili, come di carta – carta per piroghe, sandali, tetti, ponti, libri…
Come era facile montare i consueti materiali – luna, rocce, vele – e comporre miracoli cromatici, meraviglie meccaniche, ingegnosi e sublimi paesaggi! Ma la realtà è diversa. Esiste, nelle cose e nell’arte, una misteriosa rivoluzione che non posso più controllare con i miei freddi calcoli di pittore, con le mie alchemiche strategie di luce…
Guardo, nel muro sopra il mio letto, il disegno a sbarre creato dal chiarore lunare.
Fu quando parlai con Goethe. Scegliemmo un angolo buio, io dissi ciò che dovevo dire. La sua faccia si riempì di lacrime. Era con noi anche Jean Paul. Mi disse che non aveva mai visto Goethe piangere. Cosa gli hai detto? – mi chiese. Non ricordo più – risposi.
L’arte è la forma di ciò che la esclude: la passione diretta, il grido che ammutolisce, la mortalità.
Non posso che dipingere schiene. Non ci sono modelli che mi guardino negli occhi. Nessuno deve guardarmi negli occhi. Tutti hanno da fissare il paesaggio, abbaglia, ammutolisce, toglie il fiato. Non posso che mettermi dietro di loro, da complice e da spia.
Non conosco il sud del mondo. Non ho mai sognato il sud. Il mio unico sogno è una distesa piatta, un orizzonte metallico, una linea grigia sotto il cielo. Potrebbe essere la linea che delimita l’oceano come il deserto. Nei miei sogni non accade nulla. Io non ci sono. Anche le mie visioni non hanno bisogno di me.

«Perché quest’uomo raffigura solo la schiena?».
«Perché è il luogo dove tu non potrai mai guardarti».

Non ci sono specchi nei miei quadri: io non duplico nulla.
L’albero, al centro del tronco, ha un buco nero.
Quando emerge l’immagine di ciò che desidero veramente dipingere, incomincio a muovere il pennello, inseguendola come il falco la lepre sbucata dal cespuglio.
Non posso lavorare senza il pensiero di un cielo – un cielo interno, che scaturisca dalla pelle e balzi fuori dal viso, colmo di nuvole, percorso dal vento, affannoso; che tenda a diventare sereno senza diventarlo mai. Senza il pensiero di questo cielo è possibile dipingere?
I cieli che dipingo sono vuoti, sconfinati. Ma è bene, col pennello, fare un primo segno. L’abbozzo di un tetto, di un monte. Una curva nera.
A che servono i rossi, i gialli, i blu? A parlare dell’io. Non lo voglio. E’ già molto quel graffio, quel nero nel bianco totale che potrebbe assorbire la mano.
Non il nero dei pozzi, delle macchie, ma il nero sottile con cui la punta del pennello dà inizio a una forma. Vorrei che sul ghiaccio apparissero ombre di nuvole, di uccelli, di uomini.
Faticosissimo tracciare l’ovale di un viso. Non ne ho la spudoratezza. Il volto è carico di emblemi, valori, simboli, virtù, armonie. Lo detesto. Meglio vedere gli uomini da lontano e dall’alto, come Piranesi: piccolissimi, deboli, fragili, sproporzionati alla nera materia che ci assorbe e ci inchioda, da cui non possiamo uscire.
All’inizio volevo dipingere paesaggi o schiene. Avevo sempre raffigurato gli altri sbozzandone le spalle e la nuca, salvaguardando il segreto del volto. Vedere una faccia – così pensavo – era uccidere chi la possiede. Poi tutto cambiò. Capii, col passare dei giorni, che le schiene erano troppo opache, troppo cupe. Non le volevo più. Cominciai a provare un desiderio, sempre più irresistibile: essere guardato dagli esseri che dipingevo. Così nacquero le facce. Nacquero gli storpi, i matti, gli ubriachi. Volevo sentirmi fissato da figure che non avevano la fissità solenne dell’opera finita ma la mobilità sfuggente e stolida degli esseri vivi. Poi bruciai tutti quei quadri, uno per uno.
Il mio destino mi è diventato indifferente, come l’incomprensione dei miei contemporanei. In fondo sono fortunato: posso mostrare le mie opere. Vengono appese nelle gallerie, ammirate o derise. Altri non hanno questa fortuna. Nessuna galleria li accetta. Vivono la morte civile: le tele ammassate nell’atelier. Diventano pazzi sotto il peso delle proprie opere, che non saranno mai viste.
Come vorrei non essere più artista di opere ma essere vivo che emette la sua voce, quel particolare timbro di voce, quel modo di essere – la sua opera effimera, felice, disperata, libera da editori, galleristi, compromessi, errori.
In fondo a tutte le cose, dove immaginiamo verità solide e consolatrici, c’è sempre un soffio casuale. Lo sanno gli esseri che metto a sentinelle delle mie tele. Spettatori, angeli, ombre, viandanti, guardiani. Vegliano il transito verso e dal vuoto. Talvolta vorrei srotolare il mondo come un libro e piegarlo a cuneo verso il centro: diventerebbe pagina da traversare, foglio da percorrere, e non paesaggio immoto da guardare.
Ogni paesaggio è una scala rovesciata, dove scendere è speculare a salire. La scala di Giacobbe non è che una variante sublime della discesa all’Ade.

Il mondo non è una superficie da possedere ma un labirinto dove orientarsi, smarrirsi, o restare sulla soglia a testimoniare.
Poiché i morti non giacciono silenziosi nella tomba, può darsi che io parli ancora nella voce di qualcuno che non vuole lasciarmi all’olio delle tele e ai vermi della terra, e mi invita a rispondere, con altri linguaggi, della mia vocazione ossessiva e ascetica all’arte. Scrivo e dipingo anche per questo mio compagno futuro.
La notte provoca nella materia torsioni che solo il fuoco potrebbe produrre plasmando il metallo. Ma poi arriva il giorno, e tutto torna come prima.
Vorrei parlare non del fuoco che sgretola e incenerisce, ma della fiamma che brilla fra libro e bottiglia, tra mela e teschio, diritta e calma, austera e silenziosa sul tavolo di legno, riflessa nell’ovale dello specchio. De la Tour conosceva tutti i segreti di questa luce, con cui faceva brillare i volti dei vivi come se fossero icone sacre o fantasmi di morti: ricordo i suoi volti di fanciulle che reggono torce nel buio, di donne che schermano candele nella tenebra fitta. Per me è impossibile affrontare la luce con la stessa sacralità. Io devo inventare un chiarore freddo e lontano, di cui non sia visibile la sorgente.
Un grande alone, rosso e dorato, roseo e grigio, dietro l’albero, nel fondo della tela. L’occhio umano non deve capire che l’albero brucia ma osservarne gli effetti con pudore, da dietro uno specchio o un sepolcro, senza esserne folgorato. Così la mente vedrà, come in sogno, la fonte di cui le pupille osservano il riflesso.
.Dipingere paesaggi non all’altezza della terra

Se fossi un uccello che volai miglia e miglia sopra il livello del mare, dove l’aria è tanto rarefatta da essere irrespirabile, dove neppure gli uccelli osano spingersi.
Le nuvole non sono solo i vapori che vediamo dal basso. Sono veri e propri pianeti, dove il piede umano non potrà mai posarsi. Forme di isole e boschi, immagini di altopiani e caverne, si alternano senza un ordine stabilito, edificando regni senza nome, vivi solo per l’assenza di vento. Si vedono montagne dalle pareti azzurre o dorate, che non posano su nessun blocco di pietra, compatte, granitiche, innevate. Cascate bianchissime, immobilizzate nel disegno della cascata. Crepacci dove l’alto non si distingue dal basso. Altopiani dove non vola nulla. Sterminate pianure che assomigliano a isole, lastroni ghiacciati, picchi nevosi. Laghi, fatti della sostanza dell’aria. Crateri, strapiombi, pianori disseccati, distese di sabbia, lastre di vetro, pozze di rame. A volte sono una massa grigia, un antro nero, un pozzo sinistro, eruzioni rocciose simili a mostruose stalattiti. E, molto spesso, quasi ogni giorno, il banale cielo azzurro fa giustizia delle loro forme, le dilegua, compie un triste sterminio.
L’aria non è semplice come pensiamo. È qualcosa di complesso, che si divide in strati. Sopra, ad esempio, un bianco senza tempo; sotto un azzurro acceso, una banda blu che simula l’orizzonte del mare; sotto, ancora del bianco, fatto di cirri, cumuli, nembi che modellano isole deserte o altopiani polari; sotto ancora, nubi più leggere, come di cotone; e sotto ancora il mare, forse la terra. Ma terra e mare, visti dall’aria, sotto le nuvole, appaiono come paesaggi sottomarini, regni fantastici colti attraverso nebbie, specchi, vapori. Legati alla terra siano povere figure, mai all’altezza della realtà.

Guarda al centro del sole. Se osservi con attenzione, vedrai un punto più scuro, una macchia buia. Osserva a lungo. Proverai freddo e silenzio. Gli alberi diventano ombre, il cielo scolora, il bosco si rabbuia. Ma fissa bene quel punto nero. E allora troverai di nuovo l’origine, la prima luce, l’attimo in cui il raggio solare nasce – ma meno caldo, più intenso. Guarda al centro del raggio. E, se sarai attento, ritornerai a sentire la notte – ma meno fredda, più serena. E sempre e ancora così, finché la saggezza ti consentirà di sentire la luce e le tenebre come una sola cosa.
Ho infilato l’inferno nell’astratta prospettiva della solitudine e non nella materia della carne, come Tiziano, come Velàzquez. Se si vedono i miei miseri autoritratti, la prova è lampante. Qual è quello autentico? Quello in cui sembro un idiota, con la matita in mano? o l’altro in cui si mostra, di profilo e di fronte, con una barba riccioluta, palesemente falsa? o l’altro ancora, in cui faccio la parodia del poeta pensoso, immerso nelle sue rêveries? Il più reale mi raffigura con un cappello calato sull’occhio destro. Sembro malato alla vista, punito per la sua passione dell’esattezza, per la mia eccessiva imitazione della natura visibile. Non mi dispiacerebbe ritrarre ancora me stesso. Due autoritratti dell’adolescenza, uno immerso nella luce piena dell’estate, l’altro sprofondato nella fissità attonita dell’inverno. Entrambi mi ritraggono allucinato e silenzioso, come se non potessi più svegliarsi dal sonno che mi ha colto.
Il cielo: una fascia rosa-scuro, con nuvole gonfie e precise, dagli orli neri; in alto, all’orizzonte, un azzurro sfavillante, preludio alla notte futura. In cieli come questi, mostrati e velati da foglie agitate dal vento, sole e luna risplendono insieme; il primo cupo, la seconda pallida. C’è una singolare e diabolica saggezza nella presenza simultanea dei due astri. Gli antichi aruspici traevano le loro profezie dalla visione di questi cieli, che non appartengono né al giorno né alla notte, ma ad entrambi, felicemente illogici. Come vorrei dipingere non il frassino ma il suono del frassino, non il lampo ma il fragore della folgore sul ramo. O certi rami di betulle, bianchi come avorio, flessuosi, dove la corteccia si distacca lentamente, con strisce sottili, come di carta – e la carta inventa piroghe, sandali, tetti, ponti, libri. Trovare il sentiero giusto, all’ora giusta, il sole dorato fra i rami, e percorrerlo bene, sopra la valle parallela al mare, prima che scenda il buio e la valle sia tutta grigia e la notte cominci, pesante, a salire. In quel sentiero, dove la luce è prossima a sparire, i vermi guizzano veloci nel sottobosco e le capre mandano lamenti sibillini, a cui è necessario obbedire.
Vedere la terra dalla prospettiva del cielo. Del capogiro. Non fossi un pittore e fossi un uccello! Poter volare miglia e miglia sopra il livello del mare, dove l’aria è tanto rarefatta da essere irrespirabile per l’uomo, dove il silenzio che immaginiamo è già un rumore violento! Le nuvole non sono solo i vapori che vediamo dal basso. Sono veri e propri pianeti, dove il piede umano non potrà mai posarsi. Forme di isole e boschi, immagini di altopiani e caverne, si alternano senza un ordine stabilito, edificando regni senza nome, vivi solo per l’assenza di vento. Montagne dalle pareti azzurre o dorate, che non posano su nessun blocco di pietra, sembrano compatte, granitiche, coperte di neve. Cascate bianchissime, immobilizzate nel disegno della cascata. Crepacci dove l’alto non si distingue dal basso. Altopiani dove sono rari anche gli uccelli. Isole che sono sterminate pianure, lastroni ghiacciati, superfici bianchissime, colline ondulate, picchi nevosi. E laghi, fatti della sostanza dell’aria. E crateri, cascate, strapiombi. O pianori disseccati, distese di sabbia, lastre di vetro. A volte sono una massa grigia, una tromba nera, un inferno. Ma, molto più spesso, il banale cielo azzurro fa giustizia delle loro forme, le dilegua, compie un triste sterminio. L’aria non è semplice come si pensa. E’ qualcosa di complesso, che si divide in strati. Sopra, ad esempio, un bianco senza tempo; sotto, un azzurro acceso, una banda blu, che simula l’orizzonte del mare; sotto, ancora del bianco, fatto di cirri, cumuli, nembi, che modellano isole deserte o altipiani polari; sotto ancora, nubi più leggere, come di cotone; e sotto ancora il mare, forse la terra. Ma mare e terra, visti dall’aria, sotto le nuvole, appaiono come paesaggi sottomarini, regni fantastici intravisti attraverso nebbie, specchi, membrane.

Mi chiamo Caspar. Caspar David Friedrich. In uno dei miei autoritratti ho l’occhio bendato. Ma, con un solo occhio, io posso, devo, so vedere più a fondo.
