POI LE OSSA. Alfonso Guida

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I

Dipingi San Mauro a grosse gocce di latte

ingrazi ogni sera la Mezza Signora che si affaccia

dalla feritoia centrale della torre normanna.

Scendi, tra caditoie cadenzate e maldestre chiaviche,

chiacchiere fatate, calce, tubercoli cotti,

ti distrai, ti distendi, trovi un vicolo cieco, balbetti

cretto, strettoia, angiporto, passi in rassegna il variabile

dell’iride, il lirismo di una specie minore

di bestiario e di novelliere coi quadri verniciati

di nero-Goya o nero-Dorè. Scendi, rispolveri

gli inizi, ingaggi la masnada dei fallimenti,

ripeti la tenebra e lo stellato, ripeti

che qualcosa hai visto e perduto, una linea che divideva

dall’ interno la dismisura a imbuto. Poi sei affondato.

II

Qualche saggio mastica e sputa, una piazza muta.

L’ uva ringrazia, colma.

Le spine strisciano per terra o addensano il tronco di un albero.

Nutrice e perpetua, Isabella Morra.

Le vie annebbiate, le Orse prese a sassate dai ragazzi,

dopo l’ incestuoso delitto edipico, un villaggio vinto,

Tebe, Delfi, Eleusi, cerimoniali di mezz’aria,

la quiete infinita che annuncia fine,

che c’inoltra, ci riconduce, ci fissa in un luogo

sterminato di fine.

E si attediano saggine e pallottole, ferite essenze,

le spoglie distillate nelle gole selvagge,

nei baratri che schiudono l’ inverno

col suo fratello eterno e sua madre Averno, un tempo

di vento inconcludente, corrosione

del principio discusso e distaccato

dal punto iniziale, sbocco di siepe

dove, avventura adolescenza, un uomo

di ardesia inaugura la lingua chiara

della sorgente. Un modo di cercare.

III

Nessun pastore viene più a trovarmi.

Detriti, ghiaia,

cosciente sedimento.

Sedata crisi

di abbandono, se vai via, se non torni,

notturna canzonetta come questa

costruita inanellata, infilata,

conteria su conteria, distribuendo

l’idioma sul principio di analogia.

Nessun pastore, il sudore potente,

lo stordimento veloce a stupire

per la piena vigoria delle cosce,

per la luce ingraticciata alle tempie.

IV

Per tutto ciò che resta e si allontana,

per l’unione e l’ustione, per le case

coloniche che hanno impresso nell’ idea

questa casa e l’aria di borgo e pietra,

per il bene intravisto che ho toccato.

Terre, terre, terre morte e a riposo.

Qui siamo giunti, qui ognuno è arrivato.

C’è un bastone all’ orlo del precipizio

che afferma sarai debole avanzando,

nessun nero, non cadrai in nessun nero,

perché invecchiare è un grigio quasi bianco,

quasi Cartagine Roma, poi le ossa.

V

Ghiaccia dell’inverno di tutti gli anni

questo istante e non accendo la lampada,

scrivo al buio, il ticchettio

del computer, le ondate di riflessi

sul vetro, come se qualcuno fosse appena partito.

Ho questo coltello è rimasta l’ arma

con cui mi hanno colpito non capiscono

proletari e borghesi non capiscono

la parte è uguale al tutto da cui viene

Che l’aria è grigia, sono solo e ho sonno.

Vedo i miei occhi chiusi ma lo specchio

prepara il buio come sfondo e sfodera

barlumi di contrasto, è fumo e finto

sferragliare di officine. Più a oriente

l’autocarro del mattatoio fugge.

**

Infinite altre occasioni, Giovanni Castiglia

San Mauro Forte

Gustave Doré

San Mauro Forte

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