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I
Dipingi San Mauro a grosse gocce di latte
ingrazi ogni sera la Mezza Signora che si affaccia
dalla feritoia centrale della torre normanna.
Scendi, tra caditoie cadenzate e maldestre chiaviche,
chiacchiere fatate, calce, tubercoli cotti,
ti distrai, ti distendi, trovi un vicolo cieco, balbetti
cretto, strettoia, angiporto, passi in rassegna il variabile
dell’iride, il lirismo di una specie minore
di bestiario e di novelliere coi quadri verniciati
di nero-Goya o nero-Dorè. Scendi, rispolveri
gli inizi, ingaggi la masnada dei fallimenti,
ripeti la tenebra e lo stellato, ripeti
che qualcosa hai visto e perduto, una linea che divideva
dall’ interno la dismisura a imbuto. Poi sei affondato.
II
Qualche saggio mastica e sputa, una piazza muta.
L’ uva ringrazia, colma.
Le spine strisciano per terra o addensano il tronco di un albero.
Nutrice e perpetua, Isabella Morra.
Le vie annebbiate, le Orse prese a sassate dai ragazzi,
dopo l’ incestuoso delitto edipico, un villaggio vinto,
Tebe, Delfi, Eleusi, cerimoniali di mezz’aria,
la quiete infinita che annuncia fine,
che c’inoltra, ci riconduce, ci fissa in un luogo
sterminato di fine.
E si attediano saggine e pallottole, ferite essenze,
le spoglie distillate nelle gole selvagge,
nei baratri che schiudono l’ inverno
col suo fratello eterno e sua madre Averno, un tempo
di vento inconcludente, corrosione
del principio discusso e distaccato
dal punto iniziale, sbocco di siepe
dove, avventura adolescenza, un uomo
di ardesia inaugura la lingua chiara
della sorgente. Un modo di cercare.
III
Nessun pastore viene più a trovarmi.
Detriti, ghiaia,
cosciente sedimento.
Sedata crisi
di abbandono, se vai via, se non torni,
notturna canzonetta come questa
costruita inanellata, infilata,
conteria su conteria, distribuendo
l’idioma sul principio di analogia.
Nessun pastore, il sudore potente,
lo stordimento veloce a stupire
per la piena vigoria delle cosce,
per la luce ingraticciata alle tempie.
IV
Per tutto ciò che resta e si allontana,
per l’unione e l’ustione, per le case
coloniche che hanno impresso nell’ idea
questa casa e l’aria di borgo e pietra,
per il bene intravisto che ho toccato.
Terre, terre, terre morte e a riposo.
Qui siamo giunti, qui ognuno è arrivato.
C’è un bastone all’ orlo del precipizio
che afferma sarai debole avanzando,
nessun nero, non cadrai in nessun nero,
perché invecchiare è un grigio quasi bianco,
quasi Cartagine Roma, poi le ossa.
V
Ghiaccia dell’inverno di tutti gli anni
questo istante e non accendo la lampada,
scrivo al buio, il ticchettio
del computer, le ondate di riflessi
sul vetro, come se qualcuno fosse appena partito.
Ho questo coltello è rimasta l’ arma
con cui mi hanno colpito non capiscono
proletari e borghesi non capiscono
la parte è uguale al tutto da cui viene
Che l’aria è grigia, sono solo e ho sonno.
Vedo i miei occhi chiusi ma lo specchio
prepara il buio come sfondo e sfodera
barlumi di contrasto, è fumo e finto
sferragliare di officine. Più a oriente
l’autocarro del mattatoio fugge.
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Infinite altre occasioni, Giovanni Castiglia

San Mauro Forte

Gustave Doré

San Mauro Forte