
Qui si tenta una prima lettura di questo libro vertiginoso e lieve di Giorgiomaria Cornelio, sul quale sarà necessario ritornare.
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I testi di La specie storta sono stati scritti tra Dublino, Valle Cascia e Venezia, e pubblicati dalle edizioni Tlon, che così si presentano: “Le edizioni Tlon nascono dall’esigenza di mettere al mondo libri come gradini su cui salire, maniglie da afferrare, vele da spiegare e briciole da spargere”. In La specie storta, che esce nella collana “Controcielo” ed è rischiarato dalle partiture visive di Giuditta Chiaraluce, si parla della memoria dei “nati di contro”, di “specie storta”, di “fossili di rivolta”: qualcosa, nel lessico di queste prose/poesie, evoca il genio bizzarro di Henri Michaux. Ma Michaux era un angelo alternativo di questo pianeta, ironico e surreale. Nel libro di Cornelio c’è un vento da oltrepianeta, un’aria rituale che percorre favole colte nel “troppo sbandare”, apologhi ineluttabili, vertigini in stato di grazia. Non è, naturalmente, un libro solo di favole, e neppure un volumetto che raduna versi e prose: è l’arcaica mappa di un viaggio mistico/materico che sfuma nella nube della non-conoscenza, dove un noi plurale descrive l’immersione in un mondo sonnambulo, organico, vegetale, che è mysterium gaudioso, grazie anche alla lingua poetica che viene usata – inservibile, ustionata, contorta, splendente. “Solo la ferita conosce il nucleo insonne della ferita”. Questa cronaca di spiriti che “smuovono la finitudine” dissolve ogni regola nota, è nuova e personale navigazione dove si può dire: “Prega ogni giorno che basti una lucciola per dar fuoco al mondo”. Leggere questo libro ci consegna al ritmo di un creare diverso che freme come un nuovo “cominciamento”, nell’oltre della grazia. “Allora / le doglie scavalcheranno / il concepimento. / Allora resteremo abbandonati. // E per questo / salvi». Si profila, come paesaggio, una fornace, una miniera sotterranea. un luogo arcaico – sigillo di utopia. Si parla da superstiti che vogliono ritrovare una archeologia del possibile, dove “i corpi estinti e i corpi negati andranno restituiti al mondo che viene”. Se “sta scritto: ciò che è storto non può essere raddrizzato”, tutto il libro è l’andirivieni di un movimento immaginativo che “propone non una ginnastica di raddrizzamento ma un’ulteriore postura della valanga”. Ciò che versi e prose attestano come “fossili di rivolta” è l’evidenza di un dono, di uno stato di trance rigorosa e febbrile. “Tempo di ripartire. Coloro che dovevano hanno parlato. Qui non possiamo più restare. Torniamo nel dirocco, tra terraglie malconce, tra pozzi turati”. Scrive Elena Frontaloni: “Nelle favole di Cornelio e Chiaraluce si propone all’invero un’impossibilità di totale estinzione, si enfatizza il valore gaudioso di ogni corpo e di ogni parte di ogni corpo, si attribuisce una funzione costruttiva ai resti del mondo e delle parole e alla loro metamorfosi, si rigetta la distinzione tra cielo e terra, tra alto e basso, per ridisegnare una topografia immaginale dei luoghi, abitati da esseri profondamente nuovi per ii quali la città diventa fornace alchemica e l’inverno stagione di crescite e promesse, in una primavera sotterranea che non è metafora ma biologica realtà”.
Cornelio propone una scrittura semplice, complessa, eversiva, articolata in variazioni, che lascia il lettore nel guado di un fiume ipnotico di cui non intravede più le rive, come accade nel viaggio finale di Aguirre. “Badate: è semplice lo sprofondo”. Ogni volta che il poeta riprende a parlare si delinea un altro tratto di paesaggio, un nuovo frammento di visione. Così conclude l’autore: “Vorremmo giunti qui – all’approdo del nostro dire -, immaginare questo sforzo di attenzione come il prodursi di un tremolio in ciò che è dannato; un trasalire che non distrugge la dannazione, ma genera un piccolo intervallo tra la cosa e se stessa (fra l’inferno e se stesso). Poesia è dare un nome di riconoscenza a questo tremore. E farlo durare, fargli spazio”. “Il pensiero del tremore”, scrive Edouard Glissant. E la scrittura, per Cornelio, è un avvicinamento inflessibile, insolente, meravigliato, a questo tremore. Per iniziare un’indagine della sua poetica, occorre essere in un punto estremo della parola e del narrare dove quanto accade non ha bisogno di teorie, spiegazioni, codici, ma naturalmente accade: è il desiderio di liberarsi, anche come “specie storta”, nell’utopia di una generazione superstite che distacca da sé l’inferno, e propone un viaggio senza custodi, a colpi di sonda, con ferite d’ascia o tagli di lama. Chi parla, ha da dire soltanto le sue/altrui risonanze, corrugando o lievitando la sintassi, creando grappoli di versi come covoni di Monet, nel suo oro visionario. Ma dobbiamo approfondire il tema dell’aberrazione e dell’apocatastasi. Scrive Cornelio: «Come definirei un’aberrazione? Forse come una specie di tenacia implacabile, di fede furibonda nella polvere degli eventi o nella verità di un inciampo; come una deformazione capace – nel tempo – di fare del rigore l’esercizio del suo attorcigliamento». E, più oltre: «allontanata l’esattezza del dato, ciò che si salva è la vertigine di un metodo». Di questa vertigine il libro è portatore sano, come di un delirio che feconda e non distrugge. E, rispetto all’Apocatastasi, Cornelio annota: «…Condannata come eresia durante il secondo Concilio dii Costantinopoli, la dottrina dell’Apocatastasi conosce numerosi periodi di risorgenza, arrivando ad affascinare anche Walter Benjamin, che ne parla nelle sue considerazioni sull’opera dello scrittore russo Nikolaj Leskov: “Egli era molto influenzato da Origene (…). In armonia con la fede russa interpretava la resurrezione come una trasfigurazione, come la liberazione da un incantesimo, in senso affine a quello della favola” (il narratore). In un tempo di rifiuti perentori, questa interpretazione può esserci utile per non esprimere tutto quanto è dannato, comprese le aberrazioni, le “fondamenta” e gli attrezzi che hanno fatto parte della causa dell’oppressione e che ora siamo chiamati a rovesciare. Ma se la dannazione è propriamente ciò che si mantiene senza rimedio, come fare salvo il “dannato” oltre il compito della salvezza?».
Qui si chiarisce un tema caro a Cornelio: la performance della redenzione, vista come liberazione da un incantesimo senza più sensi e significato, liberazione che è minima attenzione, spirituale e sensuale, all’intervallo fra le cose, al loro intimo tremore. Una foglia mossa dal vento, libera da ogni mandato se non da quello dell’aria che la fa oscillare, è la verità esemplare che si nasconde nella complessità. Un fruscìo reale, ai confini delle cose, oltre ogni dovere di redenzione e di salvezza. Nel suo saggio Rabbrividire (pubblicato in “Antinomie”), Cornelio motiva in modo scientifico la sua attenzione verso i bordi delle cose: «Che ai bordi le cose reclamino un proprio riconoscimento lo spiega il neuroscienziato Giorgio Vallortigara attraverso il fenomeno dell’Inibizione laterale: si tratta “di una trovata ingegnosa promossa dalla selezione naturale più di cinquecento milioni di anni fa, che possiamo vedere all’opera anche oggi, non solo negli invertebrati con gli occhi composti, ma anche nell’occhio a camera di animali come gli esseri umani. La sua funzione sembra quella di filtrare l’enorme massa di dati potenzialmente disponibili nelle immagini, scartando quelli ridondanti e lasciando passare invece quelli informativi. Le superfici omogenee non convogliano informazioni lungo la loro intera estensione, è soltanto nei bordi, là dove le cose cambiano – in colore, chiarezza o tessitura – che dimora con agio l’informazione. Questo spiega perché semplici disegni a tratto siano così efficaci nel rappresentare le scene naturali: i sistemi visivi si sono evoluti per rivelare i margini, così da segregare figura e sfondo. I disegni a tratto, che rivelano solo la transizione figura-sfondo, sono rintracciabili dagli albori della rappresentazione pittorica nella storia umana, fin nell’arte rupestre (Pensieri della mosca con la testa storta)”. Vi sono due modi di guardare ai bordi: come luoghi di fissazione, di stringente e avara familiarità, oppure come luogo di transito, di una conoscenza di confine che, nel momento in cui conferma la propria momentanea confidenza con la figura, già si prepara a doverla riattraversare. I bordi, lo ripetiamo, tremano, necessitano di una continua rinegoziazione, vivono di tensioni, di differenze irrisolvibili. Proprio l’arte rupestre lo afferma con più forza, mostrando che la ripetizione multipla degli stessi contorni non ha come scopo il congelamento delle figure, ma il loro movimento: i contorni determinano l’inafferrabilità, e basta una torcia per mettere in moto gli animali, per romperne l’inerzia, per vederne cambiare di secondo in secondo il margine». Se i contorni determinano l’inafferrabilità, la poesia esiste negli inafferrabili contorni del pensiero e delle cose. Il poeta, oggi, dovrebbe indicare i modi in cui la materia delle proprie parole – i toni, i ritmi, le phonai del linguaggio – convive con la materia del proprio “sentire” – emozioni, pensieri, significati. La parola poetica, attraverso la discontinua e tormentosa necessità della sua fisiologia linguistica, vive la necessità, altrettanto discontinua e tormentosa, delle passioni che la modellano. Il poeta è chiamato a un gesto, a una visione in cui, fuori dalla parola ma vincolato alle sue leggi, riviva il cortocircuito fra suono e senso come atto di ri-trasformazione e ri-nominazione del mondo – trionfo della specie storta, dei nati contro, delle galassie parallele. Alla fine, la sola lotta è quella contro il dolore. Non a caso Cornelio cita il Lenz di Buchner: «Ma io, se fossi onnipotente, vede, se io fossi così, non potrei sopportare il dolore; dovrei salvare, salvare». (M.E.)
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Breve antologia
L’isola del torcibudello
Non era qui che dovevamo finire: cerchiati da un giacimento di frane; sparuti per il troppo sbandare. Ma a noi hanno insegnato soltanto la manovra dello sbando. Su quest’isola non c’è una buccia da succhiare, o un poco di cicoria per la povera minestra. Solo Lui che qui regna, Parla forte. Scolora nel pentimento. E se guarda, sradica la luce dagli occhi. Lo chiamano Torcibudello. Fu altre cose: l’inizio del polverume. L’Iguana che inghiottì il sole al tempo della prima estinzione. Poi l’Attosicato, l’Albero Patriarca. Ora ha gli Arresi come servi. Regola le calure del globo, e sceglie le dodici eclissi rivoltando il calendario.
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L’isola dei fondamenti immobili
Non tutti sono tornati in mare. È facile incollarsi all’inciampo, dire basta e presto dimenticare la rotta. Così fu per il regno e la perla. Così anche per noi.
Abbiamo remato. Sbandato una volta ancora. E adesso avanziamo su un’isola che pare il Diluvio impietrito a forza.
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La nave dei bastonati
È tra le acque che li abbiamo avvistati, La loro nave c’è venuta incontro come un’ingiuria. Stirpe senza rimedio. Sterminatori con bastoni dalla testa di iena. Hanno l’odore dello scannatoio. Hanno una rabbia che insogna paesi senze più alture, e una giustizia lavata dalla giustizia.…
Voi siete deboli. Avete solo la preghiera. Ma nell’altrui indolenza, la preghiera è sottovento.
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Non c’è pace nelle mie ossa. Sono
mischiato con ciò che indietra.
Frugo nel cesto dei morbi le mie
malora.
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Non c’è correttura che
rivolti all’indietro, siero e leva
per il nato di contro.
Oh vita giù accanto alla paglia,
antartide a confetti, provincia
della malinconia. Mi avete di–
giunato.
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Allora
prima che sia ancora guerra,
bucherò la placenta di questo
sonno, farò l’occhio aguzzo,
l’occhio desto, per fissare, den-
tro la strabica radura della
specie, la specie non corrotta,
la forma di ciotola vuota.
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Di tutti i nomi, solo
uno non sarà vinto:
quello che ancora
manca.
Chi ha polvere nella bocca.
Chi è nato sotto il tamburo.
Chi non serra il cerchio.
Benandanti, sconclusi, dis-
sepolti, male fatti. Siamo
sempre stati qui: nel punto
in cui le parole
si ritirano.
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Giorgiomaria Cornelio (1997) ha fondato insieme a Lucamatteo Rossi l’atlante Navegasión, inaugurato con il film “Ogni roveto un dio che arde” durante la 52esima edizione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. La loro “Trilogia dei viandanti” (2016-2020) è stata presentata in festival e spazi espositivi internazionali. Cornelio è curatore del progetto di ricerca cinematografica «La Camera Ardente», e redattore di «Nazione Indiana». Suoi interventi sono apparsi su «Le parole e le cose», «Doppiozero», «Il tascabile», «Antinomie», «Il Manifesto». Ha vinto il Premio Opera Prima con la raccolta La Promessa Focaia (Anterem, 2019). È uscito per Luca Sossella Editore il suo secondo libro di poesia, La consegna delle braci (2021). Nel 2023, per le edizioni Tlon, pubblica il libro di prosa e poesia, La specie storta. Insieme a Giuditta Chiaraluce ha ideato il progetto di esoeditoria Edizioni Volatili.
