PER “MACULA”. Letizia Polini

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La poesia di Letizia Polini “procede per allusioni e bagliori dentro un buio che non è facile scalfire”, come scrive Umberto Piersanti nella prefazione. Questo il fulmineo inizio della poesia eponima: “Posso enucleare l’occhio / per vedere meglio il mezzo, / osservare / ciò che non dovrei / ciò che non potrei / vedere meglio / vedere meglio / assomiglia / a una disfatta. / Le parole: / come gli ossi, / reggono la struttura / principale”. Possiamo già intuire, dalla prima poesia, il tratto di un disegno geometrico le cui pulsazioni interne sono contenute nel rigore dell’espressione. Il libro si articola in quattro parti (di cui la prima, Macula, è il breve preludio): Macula, Visione centrale, Visione periferica, Piccoli atti di visione. Senza entrare nei dettagli dell’indagine critica, ricordiamo che la macula dell’occhio è la parte della retina dove si trova la visione centrale, quella che ci permette di distinguere, nel dettaglio, i movimenti, i colori, i volti. Questa poesia ha la sua prima fascinazione nella appuntita leggerezza delle descrizione, sia si tratti di paesaggi esterni come di emozioni interne: “Tracciarti il contorno / per ricordare la forma // e rifarla. / Nel sonno fare densa l’orma / della sparizione, ricordare / che ti è intrinseco tentare / con prudenza l‘equilibrio / sulle linee quando corrono / verso il punto della fuga”. Immagini tragiche e surreali riducono l’emozione a disegno essenziale, quasi a tentarne l’esorcismo: “ È sempre lo stesso: / affondare al centro del petto / le dita fanno l’ultimo intreccio. / Prima un piede,/ poi l’altro. / Serrata l’apertura / diventi capello sul foglio / o ciglia. / Non lo sa ciò che resta, / l’occhio / o la testa, / chi precipita / l’ultima scala / o la porta / possono dire”. La ricerca di Letizia Polini è guidata da un’ellissi espressiva, che è volontà di sparizione/ liberazione dai vincoli de corpo e della mente, ma sempre delineati in punta di penna, quasi direi “scolpiti”, con malinconica ironia. Il verso breve ne è testimone: “Levare, / scomparirsi pezzo pezzo / straripare dal sistema di svuotamento / dove porre il corpo andato perso. / Mettere ogni cosa a posto / ripiegare impilare / spostare poi aprire / arieggiare”. La fermezza della voce innerva una poetica tragica, scandita da segni densi e rigorosi, che evoca la fermezza di Paul Wuhr: “Non posso dire tutte le parole / natatorie, in quest’aria mutilata / basta stare per attraversarsi / e senza pronunciare, / il filo sfinisce / ai due capi / c’era l’uno / c’era l’altro”. Letizia Polini, all’ìnterno di una visione asciutta e laconica, ci sprofonda nel dolore dell’io gettato nel mondo, dolore che raggiunge la più intensa cifra espressiva per contrasto, attenuando la potenza espressionista della parola: “Svincolarmi con la forza delle mani / che mi avrebbero sperduto in calamità naturali. / Dentro l’ennesima separazione / che non salva, si precipita / viene la febbre alta quando la casa è vuota, / quando la lama opera e non ricuce, / almeno il corpo prende aria” (M.E.)

Antologia

Con la schiena bruciata

apri e spunti

oggetti appuntiti,

a nervi infiammati

ammansisci l’asfalto,

sai disfarlo nel verde,

“si procede lo stesso”

farsi portare da questo,

rendere il petto capiente,

metterci i resti.

*

Dici tutto

ora che sei senza

parola, implori

la riconciliazione.

Dicono che hai fame e,

sfamandoti,

ti fanno allungare le ossa

e indurire la pelle.

Non credere

al ritorno del nodo

ricorda l’urlo, quando

avrai la parola.

*

C’è potenza in questo tuo scavo

del volto, trapela da luccichii

perenni, risalgono dagli occhi.

Parli come se sbriciolassi

il pane, senza perdere la strada

cammini senza risparmiare

porzioni di terre emerse,

incendi.

Graffi quando passi, annodi

e lasci cumuli di resti.

*

Ti vedo affogare sulla riva

e fissarmi senza vedermi.

L’orizzonte ti pesa e tu

gli porgi le spalle, ti ripari

dal sole piegando la testa

eppure mi bruci davanti.

*

Abbiamo scrostato l’ombra per rendere chiaro

il tempo che ha la lucertola a staccarsi la coda.

Abbiamo contato gli spasmi dell’amputazione

rinunciando anche noi a una parte di corpo.

Quando sono mancate le parole che tiravano

l’inizio del giorno

e la fine

la coda apriva fra i sassi tagli perenni.

*

Dai capelli si capisce che è la figlia,

è la figlia che circonda

il padre con il braccio,

si porta all’orecchio

gli dice qualcosa,

lui fa no con la testa.

La domanda alla bimba

le si spande fra i capelli,

poserà una pietra

cambierà intonatura,

le parole.

La domanda non si estingue

scorrerà nelle vene.

*

A dividersi gli organi si svuotano

e le braccia improvvisano

una collana di resti

stare così con ciò che rimane

e finire

la serie di separazioni a noi destinata

o essere come certi liquidi,

per natura a sé fedeli,

l’olio nell’acqua si fa calotta e non s’apre

neanche sprofonda,

la pioggia penetra la terra

gonfia brilla, poi evapora

ritorna.

*

Domandarsi se queste architetture del corpo

non siano mappe che disvelano nature.

Se tutto non sia già scritto nelle ossa.

Io per natura aspetto, non riordino

come farei con un cassetto.

Restare dentro al corpo

come sulla soglia di casa

ad osservare cosa accade

quando nessuno

guarda.

*

Permane una struttura che forza,

allenarsi ad uccidere per vedere

cosa accade a sparire.

Consistere in una ferita

scrostarla

per non farla più guarire.

C’è liberazione in questi

esercizi di dolore

in questi abbandoni.

Letizia Polini

Giovanni Castiglia

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