*I testi sono tratti da: Nanni Cagnone, Come colui che teme e chiama, Giometti & Antonello, Macerata, 2023.

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Chi è insensibile ai valori percettivi del testo – ritmo, dispositio, torsioni sintattiche, imprese ellittiche, slogature della lingua, transizioni pronominali (quell’oscillare che forza dialogicamente l’inevitabile monologo) -, stenterà a riconoscere il pensiero che da’ fondamento alle figure; le oscurità in cui si sente avvolto sono altrettante complessità, favorite dal ricever cosa estranea entro gli atti dello scrivere, invece di metter in versi pensieri precedenti, attività parafrastica e divulgativa: il genere poetico in luogo della poesia ch’è insuperata scomodità della logica, e congenitamente ostile.
Dalla premessa al libro, Chiarimento.
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La novantacinque poesie di questa raccolta (che inizia con La prima, seguita da Dopo la prima fino a Dopo la novantaquattresima per terminare con L’ultima), testimoniano la scomodità di una poesia ostile alla complicità con il linguaggio e risoluta ad essere “lingua eventuale, sottratta all’uso”, lingua di percezioni arcaiche (“Parlerò con te / quando, / non superfluo, / sarai solo”), lingua sospinta da sogni e temporali, sempre imminente, esitante a definirsi nei confini della singola poesia (“Altamente, in volo, / stride la loro lingua, / i lunghi studi / sembrano lontani”), lingua, infine, che ci richiama al sacro, elementare disordine e ci trova inermi, felici, accoglienti, sommersi (“E io / sfoglio il libro / dei morti / come colui che / teme e chiama”), lingua che ancora vorrà essere perché niente può fermare il flusso del dire generoso, ininterrotto, radiante, che espone la poesia ad essere terreno i cui semi fecondi ci impongono complicità con una creazione ellittica che avviene senza io e senza autore, in una nebbia dove le parole sono libere di agire fuori e dentro i limiti del pensiero (“Errabondi siamo stanchi”) (“Ora sono fra i miei, / degno d’esilio”). (M.E.)
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Dopo la nona
Non hanno senso
gli inni, i malvagi
imperversano
gli altri si curvano,
nessuno da lodare.
Primitive, ingloriose
servitù, polvere
di esclamazioni di luce,
e noi senza dolcezza —
noi agonia.
Ed io
sfoglio il libro
dei morti
come colui che
teme e chiama.
*
Dopo la cinquantesima
Qualcos’altro,
ho saputo, ci manca:
la discrezione.
Ma sarebbe opacità
scansata esperienza
nascosto pugnale.
Quel che si tace
è canna in acqua,
distorto si guasta.
Non puoi sottrarti
qualcosa ti chiama,
né cautamente
avviarti a morire —
a precipizio invece,
e tesa oltremodo
la fune. Di tue
migliori parole,
chiedi osservanza.
*
Dopo la sessantacinquesima
Amorosi dell’aspetto,
non si lasciò il mondo
a sue rovine.
L’avvenenza
non incantò
Sokràtes,
anche noi
a seguirne l’augurio
fummo pronti.
Ma non erano che
sguardi indiscutibili,
perentorie anatomie.
Chiamavano, con
l’autorità di lor fattezze,
oltre le quali
qualcosa di statico.
Si voleva avvenire
ma — vinti dal vedere —
senza moto,
avendo da principio
separato il viso
da quell’aria di viso
che a una donna
può inneggiare.

Da “Chiarimento”, ulteriore: <>
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Che la lingua letteraria debba esser sincronica – quindi ostaggio del presente -, è penosa congettura. No: è una lingua ‘eventuale’, sottratta all’uso.
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