Riflessioni apocrife di Maurice Blanchot sulla genesi de “L’ultimo a parlare”, dedicato alla poesia di Paul Celan.

A volte gli scrittori, quando parlano di poeti che non esistono più, sembrano o vogliono cercare un compagno che si è perduto in anticipo e sono felici di perdere il loro tempo con lui, si mettono a contatto diretto con la sua invisibilità, soprattutto sono consapevoli che la sua opera non potrà più essere distratta dalle esigenze quotidiane ed è lì, consegnata per sempre alla sua eternità di parole, e il linguaggio non potrà che entrare e uscire, da quelle parole, solo da quelle.
È il caso del mio rapporto con Celan, con l’ultimo Celan in particolare. Intendo scrivere un libriccino su di lui. Ma scrivere è già una parola grave, inutile. Diciamo: vorrei che certi frammenti di riflessioni echeggiassero a partire dai suoi versi, come le risonanze di un vaso percosso nel modo che il mio udito sente. La sua poesia, oggi, simile per intensità solo a quella di Hölderlin e apparentata a quella dalle segrete violenze della follia, è un vaso percosso, crepato da sensi, da suoni. Se ne può parlare solo così, quasi tacendo, per timore di oltraggiarla, e sapendo che ormai l’autore è morto e l’ha consegnata per sempre a noi come a un amico non remoto. Lì, “nel moto ondoso delle parole sempre in cammino”, ogni cammino è stato deciso, e i graticci, i reticoli, gli spasimi, i cristalli di linguaggio, non potranno più né diminuire né crescere di uno. È la sola certezza, infatti, che resta al poeta, l’ultima. L’autore arriva dai suoi libri con una voce irrevocabile, che i disastri della sua vita non potranno più modificare. Avesse saputo, Kafka, che sarebbe morto muto, non faccio fatica a immaginare che sarebbe stato ancora più ironico e spietato nell’articolare le sue parabole.
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Friedrich Hölderlin , Paul Celan
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Ecco, nel campo di Celan, già dissodato dalle sue parole, io posso davvero esistere, posso guardarlo veramente ed essere amico della sua definitiva imperfezione: non c’è migliore amicizia di quando l’indicibile inventa il dicibile e vive in sua compagnia. Allora il mistero è perfetto, e la letteratura smette di essere artificio, enigma, ma è visione del libro. Così Celan, tanto accusato di oscurità da critici deboli e ciechi, potrà rivelarsi, proprio come l’ultimo Hölderlin, un occhio nuovo, uno specchio aperto, anche se ormai privo di mondo, uno specchio dove tutti i frammenti hanno il pericoloso potere di esistere attraversando la molteplicità dell’immaginazione, dove ogni oscura sillaba è luminosamente comprensibile a chi sa vedere, è un pezzo vivo di dialogo, aperto all’occhio dell’altro attraverso il reticolo della lingua. Forse il poeta della Todesfuge deve finalmente essere letto, non capito o peggio interpretato, ma letto come si legge la luce di un tramonto inscritto nel cielo.

Talvolta penso all’Odissea, grande metafora non solo della conoscenza ma anche della follia. Navigare trascinato via dalla mèta da dèi ostili, vivere come in delirio in terre lontane, passare fra ciclopi e cariddi, e poi tornare al proprio io, liberarlo dai parassiti che lo assediano, fare piazza pulita degli avidi proci, riconquistare dopo un tempo quasi eterno la propria armonia interrotta. Itaca è il nostro viaggio, dopo che l’impresa riuscita, l’assedio fortunato, si sono risolti nell’agghiacciante cancellazione distruzione di Troia, con fumo, vittime e morti. Celan ha subìto quella distruzione, attraverso la morte della sua famiglia nei lager, e come Odisseo ha intrapreso un viaggio, nei mostri della lingua, negli incubi della follia. Non è tornato a Itaca. Ha cercato di accoltellare la sua Penelope. È stato triste e solo, spesso ricoverato, e poi ha conosciuto il regno muto dei pesci, nella fonda Senna. Non ci resta che tornare nell’arida Itaca per lui, testimoni del testimone. Vivere le grate, le crepe, le incrinature, i varchi stretti, non scivolare come lui, alla fine, nell’immenso, insondabile vuoto, ma, come lui, traversare i pericoli della lingua, la terra dei lestrigoni e delle circi, sempre sperando che un’armoniosa nausicaa ci ascolti.
Se neve, notte, cenere, sono le parole che dominano la sua poesia, come per illuderci che la realtà sia ancora leggera o impalpabile, ricordiamo che quella neve buia, quella cenere notturna, si sono depositate su una pietra bianca, che si trova nel fondo dell’essere della parola: è quella che noi dobbiamo leggere, oltre le pagine, o saremo lettori privi di occhi, pronti solo a interpretare decifrando chissà quali inutili verità, o scrittori ricchi di libri da cui è stato escluso il mondo. (M.E.)

Anselm Kiefer
* Il testo è apparso in: RIGA 37. MAURICE BLANCHOT, a cura di Giuseppe Zuccarino, Marcos y Marcos, 2017.