
John Constable
*Il testo è pubblicato in: Lucetta Frisa, Marco Ercolani, Furto d’anima. 40 lettere reali e immaginarie fra uomini e donne nella storia dell’arte, Greco & Greco, Le Melusine, Milano 2018.

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La seconda vista
Hulshoff, 8 gennaio 1819
O mio Sprickmann! non so come cominciare per non apparirle ridicola; perché è ridicolo davvero quanto ho da dirle. Non posso illudermi; debbo accusarmi di fronte a Lei di una stupida, strana debolezza, che mi amareggia da molte ore; ma non rida, La prego; no, Sprickmann, non c’è proprio niente da divertirsi. Lei sa che io non sono folle; questa mia bizzarra, pazza infelicità non nasce da libri o romanzi, come potrebbe credere il primo venuto. Ma questo nessuno lo sa, Lei solo ne è in parte al corrente, e questo male non mi è stato causato da circostanze esteriori, l’ho sempre portato dentro di me.
Quando ero ancora piccolissima (non più di quattro o cinque anni, perché avevo fatto un sogno in cui credevo di averne sette e mi sembrava di essere grande), mi parve di andare a passeggio con genitori, fratelli, sorelle e due amici, in un giardino; non era bello, anzi era un semplice orto, attraversato da un viale diritto, che non finivamo mai di percorrere in salita. Poi diventò simile a un bosco, ma il viale in mezzo rimase e noi proseguivamo sempre. Questo e non altro fu il sogno, eppure restai triste per l’intera giornata e piansi, perché non ero nel viale e non avrei mai potuto andarci. Ricordo anche che un giorno, avendoci mia madre parlato a lungo del suo luogo natio e delle montagne e dei nonni che ancora non conoscevamo, provai un tale desiderio di vederli che quando, alcuni giorni dopo, a tavola, lei per caso nominò i suoi genitori, io scoppiai in violenti singhiozzi, tanto che dovettero portarmi via; ciò accadde prima che avessi sette anni, perché a sette anni conobbi i miei nonni.
Le scrivo questi episodi insignificanti solo per convincerla che questa felice inclinazione per tutti i luoghi in cui non sono e per tutte le cose che non posseggo è innata in me e non é stata indotta da circostanze esteriori: così non Le sembrerò tanto ridicola, mio caro, indulgentissimo amico. Una follia che ci è venuta dal buon Dio è sempre meno riprovevole, io penso, di una che ci siamo procurata noi stessi. Ma da qualche anno questo mio stato si è acuito in modo che posso davvero considerarlo un grave tormento. Una sola parola basta per guastarmi tutta la giornata, e purtroppo la mia fantasia ha tante passioni su cui sbrigliarsi che non passa giorno senza che qualcuna sia eccitata con dolorosa dolcezza.
Ah mio caro padre, provo un tale sollievo scrivendole e pensando a Lei! Abbia pazienza e lasci che Le scopra del tutto questo mio pazzo cuore, se no non posso riprendermi. Paesi lontani, grandi uomini interessanti, di cui ho sentito parlare, lontane opere d’arte e altro ancora, hanno tutti questo bizzarro potere su di me. Con i miei pensieri io non sono a casa, dove peraltro sto così bene, nemmeno per un istante, e anche quando per intere giornate il discorso non cade su nessuno di questi oggetti, io me li vedo passare davanti agli occhi in ogni momento in cui non sia costretta a impegnare fortemente altrove la mia attenzione; e li vedo con forme e colori così vivaci e così verosimili che mi spavento per il mio povero cervello.
Un articolo di giornale, un libro, per quanto mal scritto, che tratti questi argomenti, può farmi venire le lacrime agli occhi; e se qualcuno sa narrare esperienze vissute, se ha viaggiato per quei paesi, se ha visto opere d’arte, se ha conosciuto quegli uomini e sa parlarne piacevolmente e con entusiasmo, oh, amico mio!, allora la mia pace e il mio equilibrio ne sono a lungo turbati, e per più settimane non riesco a pensare ad altro, e se sono sola (specie di notte, quando sto sempre sveglia per qualche ora), posso piangere come una bambina e insieme ardere e delirare, in modo neppure ammissibile per un innamorato infelice.
Le mie terre predilette sono la Spagna, l’Italia, la Cina, l’America, l’Africa, mentre paradisi come la Svizzera e Tahiti mi fanno poca impressione. Perché? Non lo so; eppure ne ho letto e sentito parlare molto ma non sono altrettanto vivi in me. Se Le dico che spesso rimpiango spettacoli che ho visto rappresentare e spesso proprio quelli a cui mi sono annoiata di più, o libri che ho letto a un tempo e che non mi sono affatto piaciuti… per esempio, a quattordici anni, ho letto un brutto romanzo, di cui non ricordo più il titolo: comunque, vi si trattava di una torre su cui precipita un torrente, e sul frontespizio un’incisione rappresentava questa torre avventurosa; da un pezzo avevo dimenticato il libro, ma da qualche tempo riaffiora alla mia memoria,non la storia, e neppure il tempo in cui la lessi, e quella miserabile incisione mal disegnata, dove non si vedeva che la torre, diventa per me uno strano miraggio, e spesso desidero ardentemente rivederla: se questa non è follia, la follia non esiste, tanto più che io non sopporto il viaggiare; quando sto lontana da casa una settimana desidero con altrettanto ardore tornarvi, e a casa ogni mio desiderio è prevenuto e esaudito.
Mi dica: cosa devo pensare di me stessa? e che devo fare per liberarmi di queste assurdità? Sprickmann mio, temevo di inteneririmi quando ho cominciato a descrivere la mia debolezza; invece scrivendo mi sono fatta animo; mi sembra che oggi resisterei al nemico, se ardisse un assalto. Lei non può immaginare come, quanto al resto, sia felice la mia condizione esteriore; posseggo l’amore dei miei genitori e dei miei parenti. […] C’é qui adesso da noi una sorella di mia madre, Ludowine, una ragazza buona, calma, intelligente; la sua compagnia mi è assai preziosa, specie per la chiarezza e l’esattezza con cui giudica le cose, riportando spesso alla ragione, senza neppure sospettarlo, la mia povera testa confusa. […]
Addio! E non dimentichi con quanto desiderio attendo una risposta!
la sua Nette

J.W. Turner
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Münster, 15 gennaio 1819
Mia cara Annette,
non posso nascondere che la tua lettera mi ha gettato in un grave imbarazzo. Mi verrebbe da mettere l’indice alla bocca e bisbigliare «Silenzio, Nette, non parlare più, Nette, non immaginare più, ritorna in te; tu non sai quello che dici». (Hai parlato delle tue fantasie a qualcun altro o hai avuto l’accortezza di tenerle ben strette al tuo cuore?) Forse non dovrei neppure risponderti e meglio sarebbe per tutti passare sotto silenzio il tuo smarrimento e ricordare quanto dice San Paolo nella Epistola ai Corinzi – che dopo la morte non vedremo più attraverso uno specchio ma guarderemo direttamente in faccia il Mistero.
Di quale natura sia questo mistero è difficile dire. E tu mi provochi a spiegare troppo chiaramente quanto dovrebbe essere detto solo per cifra, per allusione o per mute indicazioni: i segreti, una volta svelati, si mostrano ben povera cosa. Il tuo appassionato desiderio di una risposta risolutiva resterà dunque insoddisfatto. Però ascolta quanto ti dico e ricòrdalo: le parole con cui mi descrivi la tua bizzarra e pazza infelicità non sono lo sfogo di una giovane adolescente inebriata dagli entusiasmi di un’età non ancora adulta; non sono il segno di quella capricciosa sventatezza che in capo a pochi anni svanirà per mostrare la strada diritta delle tradizioni e dei doveri familiari. Al contrario, queste parole indicano che tu hai delle emozioni non controllabili.
Io, più che rispetto, ho una passione oscura per questo tipo di emozioni, come se a parlarmi non fosse Annette Druste-Hulshoff ma un qualche demone che agita come vento infuriato i cespugli delle brughiere: sento, nella tua confessione inattesa, non già una ridicola debolezza ma la fiaccola di un destino poetico consegnato per sempre alla potenza della visione. I tuoi timori di essere sventata o assurda non appartengono alla tua anima ma alle convinzioni inculcate dalla famiglia, alle misere vergogne che quelle norme borghesi – oso appena dirlo – ti faranno sempre provare se tu, come prevedo, le sconvolgerai e diventerai poeta e per la poesia sosterrai lunghe e faticose battaglie, peggio di un guerriero, contro la rigidità delle tradizioni borghesi. L’artista altro non è che un orecchio molto attento alle proprie emozioni: vergognarsene è la vera vergogna, che ti invito a non provare mai, pena il disprezzo per te stessa e per il lungo lavoro che abbiamo condotto insieme.
La superiorità dell’immaginazione sulla ragione e della donna sull’uomo – come ti narravo nelle mie lezioni più segrete e di cui non dovrai mai parlare a nessuno, quelle lezioni che nessuno sospettava io potessi impartirti – è così indiscutibile e scandalosa da essere commovente ed esemplare.
Sii orgogliosa del potere delle tue fantasie, Nette. Io lo sento, questo potere, come se vedessi un fiume che sta per traboccare dagli argini. La guardo, quella corrente furiosa, e so che non ho il dovere di mettere in salvo nessuno. Ma posso dare un senso al fiume, convincerlo che esiste, difenderlo contro le eventuali siccità. Chi di noi non ricorda l’incisione di un vecchio castello dirupato o di un ruscello vorticoso che precipita fra le rocce? Ma poi l’abito talare, l’uniforme da ufficiale, la marsina da gentiluomo, le scartoffie da avvocato, fanno giudicare vana fantasticheria anche il più essenziale dei sogni.
Tu sei fortunata, Annette: per te la fantasia non termina con l’età della ragione, come per noi, ma si prolunga naturalmente nella vita adulta. Se vuoi, posso chiamarla, con te, follia: ma sappi che la chiamano così solo le persone che la temono, solo i rétori della logica e del privilegio. Follem in latino significa sacco vuoto ed è questo vuoto il tema dei tuoi sogni: c’è chi lo recinta con divieti, norme, ortodossie; c’è chi lo vede e resta con la lingua confusa, le tempie ronzanti, in stato di vertigine; c’è chi lo sente come minacciosa diversità e allora diventa assassino, criminale, o giudice; c’è, infine, chi come te lo sente nell’anima e allora produce visioni, ascolta sogni, scrive poesie.
Ti diranno che le tue emozioni sono sciocchezze, che è colpa del clima tedesco, della solitudine o di qualche umore assurdo; ti inviteranno a essere ragionevole, ordinata e metodica, a confinare la tua oscura e potentissima immaginazione nel piccolo sogno da salotto, nel pianoforte strimpellato all’ora del tè con innocue romanze, nelle chiacchiere convenzionali degli aristocratici Hulshoff: te la degraderanno in modo brutale, con minuziosi e domestici massacri, e le tue belle vertigini, i tuoi meravigliosi smarrimenti, diventeranno emicranie da donnicciuole – qualcosa di banale, da sussurrare all’amica come un malessere importuno, un peccato di cui vergognarsi. Ma vergognarsi di fronte a quali trionfali e ragionevoli realtà, Nette?
Di fronte agli eccidi degli eserciti prussiani e ai saccheggi delle città nemiche noi dovremmo rinunciare al sogno e scegliere, come alternativa, le carogne dei nostri fratelli su un fumante campo di battaglia? Ho sempre cercato un mondo che non debba nascondere i suoi sogni ma che al contrario sia costretto a nascondere le sue miserabili realtà. Quindi, Nette, accéttati come sei: e fallo con gioia e fierezza, come hai scoperto che si può, scrivendo. Sei un essere destinato a soffrire, come chiunque non accetti supinamente le regole del gioco: mia sola raccomandazione, per il bene che ti voglio, per la tua fragile salute, la solitudine senza rimedio e la straordinaria sensibilità, è che tu non debba penare troppo, in quel modo disumano con cui gli altri ci costringono a soffrire, anche senza volerlo.
Ascoltami, Nette. Gli adulti – tristi ufficiali del buon senso – hanno poche cose da insegnarti: camminano con la vanga attaccata al braccio, pronti a colpire i vivi come a sotterrare i morti. Tu lìberati, sii folle e leggera: ma, poiché il mondo sarà durissimo con te, esercitati nella tua arte senza sognare sollievi. Non essere né orgogliosa né presuntuosa; esprimiti poco, fingiti smarrita, non mostrare il tuo segreto al mondo. Se qualcuno si accorgesse di come realmente sei, non tarderebbe a farti a brandelli – con l’ottusità, se è stupido, con l’ironia, se è intelligente. Come vedi, neppure una volta ti ho fatto discorsi religiosi: sarebbe stato semplicissimo, per un sacerdote, dirti che hai visioni in qualche modo simili alle visioni mistiche ed esporti il mio pensiero più tormentoso: che fra il posseduto dalla poesia e il posseduto da Dio non esistano in fondo, sostanziali differenze. Sarei stato convincente, ortodosso, soprattutto banale. Ma, se mi fossi comportato così, avrei tradito la tua anima, battezzandola subito con un falso nome.
Ho preferito dirti la verità: tutti noi, più o meno sepolto, possediamo quel dio delle visioni e delle analogie che ci trasporta in paesi immaginari e pensieri remoti, un regno invisibile ma più reale di quello che abbiamo sotto gli occhi; solo che, fin dalla nascita, questo piccolo dio è catturato come un soldato nemico, incarcerato e ridotto al silenzio. In rari casi è così chiaro e forte da non poter essere imbrigliato, tradito o censurato: questo è il tuo caso, Nette. Tu possiedi la seconda vista.
Io non posso quindi, dopo l’imbarazzo iniziale, che essere sbalordito e felice per la tua sorte: e forse, nel fondo del cuore, invidiarti e congratularmi con me stesso per l’educazione che ho saputo impartirti, nonostante le censure della nostra epoca.
Con affetto, tuo Matthias Sprickmann
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*Pubblico online, come racconto a sé, La seconda vista, già apparso in “La dimora del tempo sospeso”. Il testo di Annette von Druste-Hülshoff è autentico, mentre il testo di Anthon Matthias Sprickmann è apocrifo.

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Annette von Druste-Hülshoff nasce a Munster nel 1797 da famiglia agiata. A quindici anni conosce Anthon Matthias Sprickmann, sacerdote e docente universitario, che diventa suo consigliere spirituale. In una lettera del 1814 la poetessa si confessa dominata «dal pensiero della consunzione» e accenna a Sprickmann un sentimento di profondo terrore per la sua immaginazione visionaria, la sua Vorgeschichte, la «seconda vista». Nella maturità la poetessa parteciperà a un libro, Vestfalia pittoresca e romantica, con cinque ballate: una di queste avrà come titolo, appunto, Vorgeschichte.

Annette von Druste-Hülshoff