I testi sono tratti da La tentazione di essere vento, La Vita felice, Milano 2014.
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“Il mio film si intitolava La tentazione di volare.
Seppellitelo qui,
tra i rovi di una carne senza dono.
(…)
Il mio film si intitolava
La tentazione di essere vento.
Nessuno l’ha visto.
Affondatelo qui,
come la cima innevata
di un monte spezzato”.
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Alcune esperienze poetiche trascendono l’atto della scrittura e si propongono come grido, “cantata drammatica” nella pagina bianca. Scrive Silvia Giacomini: “Un corpo che divora se stesso è un grido. È un disperato atto di scrittura del dramma umano di esistere. L’anoressia ci parla di noi”.
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“La pagina bianca, la notte oscura; la tentazione di tendersi, di articolarsi comprensivamente dentro le cose come vento – in una scrittura che è spazio tensivo, “settima stanza” di offerta di sé -” (dalla postfazione di Matteo M. Vecchio).
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Questo libro è la voce iperbolica di un silenzio che avrebbe voluto restare tale. Ma il dramma dei versi, la necessità di descrivere la malattia, il desiderio di delineare il proprio paesaggio, la felicità di emergere dal buio della psiche, hanno preso il sopravvento sul silenzio come sepoltura.
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“C’è un abbandono che taglia d’un colpo tutti i fili.
Una volta avevo per compagna
la mia voce in nebbia di pensiero,
adesso c’è solo il rumore delle cose:
lo scricchiolio di una sedia,
il gorgoglio dell’acqua risucchiata,
il crepitare della carta rubino di una caramella,
il clic della luce accesa spenta,
il fruscìo della minuscola sfera d’acciaio
che fa correre l’inchiostro sulla carta
di questo quaderno che mi raccoglie bianca in un bianco
rigato di flebili, inutili sponde.
Voci amiche
a distrarmi dal silenzio
adesso che la mia mente non c’è più”.
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“Perdita di realtà? Come affermare questo di qualcuno che vive vicino al reale fino a un punto insopportabile («questa emozione che restituisce allo spirito il suono sconvolgente della materia» – scrive Artaud nel Pesanervi)? Invece di comprendere la schizofrenia in funzione delle distruzioni che introduce nella persona, dei buchi e lacune che fa apparire nella struttura, bisogna afferrarla come processo”. (Gilles Deleuze)
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“L’iniziale del costruire un ponte
è un aquilone gettato al vento
per far passare un filo
da una parte all’altra del burrone.
Ma se di là non c’è nessuno
ad afferrare la croce del volo e la sua pelle,
nessuno ad agganciare al filo la prima corda da tirare,
l’aquilone s’incaglia nel nero del fogliame
e il filo teso
tra la mano e un punto a caso nello spazio
è destinato a rimanere solo un filo:
non potrà essere percorso
da chi alla parola
chiede il superamento di un abisso”.
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“quella che ero
e quella che sono adesso -due cose divise-
potrebbe questa essere -Pazzia?” (Dickinson)
La pazzia, per come la considerarono i filosofi, è una trappola che rende impossibile il pensiero. Ma, proprio perché il rischio della follia è cancellato dall’esercizio della ragione, la ragione si trincera nel possesso di sé e costruisce la propria fragile verità mettendosi all’erta contro ogni pericolo che potrebbe minacciarla. Costruisce una dicotomia, che ha una sola alternativa: il “dare parola” a ciò che appare irragionevole. La follia del poeta, lo sprofondamento del suo pensiero nella non-ragione, permette alla filosofia di essere percepita non come l’opposto della ragione ma come un’esperienza al limite che apre nuovi orizzonti: questa esperienza costeggia la follia, come già teorizzava Schelling affermando che la follia è il principio stesso dell’essere. E per Nietzsche, quello di impazzire sembra essere non solo un rischio di cui è bene essere consapevoli, anzi «il pericolo più grande», ma anche qualcosa che occorre volere, perlomeno in certi momenti. Scrive, in un suo frammento postumo: «Così deve fare lo spirito forte con i suoi cani selvaggi: per quanto violenta possa essere in lui la volontà di verità – il suo cane più selvaggio – egli deve nel tempo da lui scelto poter essere la volontà dell’incertezza, la volontà del non sapere, e soprattutto la volontà della follia». Il desiderio di essere folli entra nella storia della filosofia: la necessità di un pensare oltre, di un’esperienza fuori dai bordi della ragione, diventa sostanziale.
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Silvia Giacomini ci racconta di una scrittura che, nel suo grido silenzioso, protegge e accoglie la follia, permettendo all’essere umano non solo la “semicieca distruzione” ma l’”illimitato amore”, la necessità di non essere più “colpevoli di esistere” perché, oltre l’ombra assoluta del male, affiori un chiaroscuro che esige rinascita.
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“Con la faccia nel fresco dell’erba,
tutto il peso spartito in lacrime
nei piatti fondi dei palmi
chiudere gli occhi
per dimenticare gli occhi
per dimenticare di non esistere in quegli occhi
o di esistere distorti.
Faccia nell’erba
mascherarsi della propria sparizione
la maschera protegge
l’unicità di un divenire”
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Silvia Giacomini (1976) è attrice di teatro, poeta, drammaturga, incisore. Ha fondato la compagnia teatrale “I desideranti”, realizzando monologhi di vite borderline. In poesia ha scritto La tentazione di essere vento (La Vita felice, 2014) e Mal bianco (Ladolfi, 2019).

Silvia Giacomini