
Wols
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ORA PRIMA
Nevicherà stasera. È la speranza dei vecchi.
L’aria ha una dolce calma e punge i corpi nell’ombra.
Niente avviene. Il principio dispone il suo futuro minimo.
Pala e foglio, ognuno col suo talento.
Sono stanco, ma anche oggi inginocchiarmi e scavare.
ORA SECONDA
La ferita all’aperto è un muro a calce. Oppure esce
dai vetri dei negozi, dalla carriola piena d’erba
dei netturbini. Ascolta le previsioni meteo,
la viabilità. Il canto delle spine è sommesso.
La cenere è un volo d’inverno che, soffiando, dirigi.
Il caffè bollente anticipa le stazioni del giorno.
Le scarpe ancora vuote, il sole inutilmente sulle ossa.
Gli ippocastani in piazza, comuni carcasse tra i corvi.
ORA TERZA
Mezza luce, l’indugio tra le tempie.
Queste nostre preghiere avvinte al vezzo avaro del viatico.
Viandante e vento, vanità del veleno, violenza
velata del vuoto. Insensate invenzioni. Avvero il senso
di minaccia che percuote le labbra. Quante parole
spogliate e spaventate resteranno mute, in disparte.
ORA QUARTA
No no non voglio stare troppo in alto.
Devo ascoltare la ruota frenetica,
gli anni di quest’ora, il minuto esterno,
l’età in cui dio sarà ripetizione.
ORA QUINTA
Per pudore, costruisci una distanza coi vestiti.
Crei un equilibrio, tra ritualità e rettitudine.
Scegli una stanza anteriore al tuo luogo,
fai entrare, attento, i millenni e i secoli più vecchi.
Non ami il tuo tempo, escludi i colloqui.
Tutto va. Ogni cosa si trasferisce.
ORA SESTA
Nel mio dolore c’è Camillo Sbarbaro.
Sul pagliericcio di Seneca dorme,
patetico, l’orfano. L’orto è l’ordine.
Lì aggiusto i contrari e accoppio gli ossimori.
Che rapporto c’è tra ossa e sigarette?
Le ossa carbonizzate, già, una vecchia
cronaca, oggi, l’indulto e l’indulgenza,
la virilità adulta, la sapienza.
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Ennio Morlotti


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COSCIENZA CONSEGUENTE
Consegue alla coscienza
di abitare un fosso la realtà
che un quaderno riesce a tenere esatta.
Precisando il centro, non alterando.
La mano, il foglio. Eppure viene un grappolo,
si frantuma l’ attesa. Nel contrario lanciarsi,
prevedere il versetto, non vedermi
nudo, lontano, farmi prova, indizio.
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Un matto allentare lupi nel bosco,
questo, tra le Bic nere, fu impazzire.
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Mente come chiesa di San Medardo,
cripta dei voti piena di dentiere,
calchi di molari. E i voti dei pazzi
diversi, un velo, un nastro del battesimo.
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Questo fu impazzire. Giocare a scacchi
col tiranno, andare incontro alla mossa
che decide del livello d’invaso.
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La voce, troncando la sua dizione,
teme. La volta brucia,
mi sprofondo in bocca, spalano, spalano.
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Dipingi San Mauro a grosse gocce di latte,
ringrazi ogni sera la Mezza Signora che si affaccia
dalla feritoia centrale della torre normanna.
Scendi, tra caditoie cadenzate e maldestre chiaviche,
chiacchiere fatate, calce, tubercoli cotti,
ti distrai, ti distendi, trovi un vicolo cieco, balbetti
cretto, strettoia, angiporto, passi in rassegna il variabile
dell’iride, il lirismo di una specie minore
di bestiario e di novelliere coi quadri verniciati
di nero-Goya o nero-Dorè. Scendi, rispolveri
gli inizi, ingaggi la masnada dei fallimenti,
ripeti la tenebra e lo stellato, ripeti
che qualcosa hai visto e perduto, una linea che divideva
dall’interno la dismisura a imbuto. Poi sei affondato.
(Inediti, gennaio 2023)

Francisco Goya