CAMPO E PASOLINI. Matteo Mario Vecchio

“Il libro di Matteo M. Vecchio, Tre imperdonabili, Emily Dickinson, Antonia Pozzi, Cristina Campo, è stato pubblicato nel 2022 da “Le Càriti editore”, a cura di Silvia Giacomini. Le lettere di Cristina Campo citate nel testo sono tratte da: Cristina Campo, Lettere a Mita (Adelphi, Milano 1999).

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“Le imperdonabili” è il titolo del ciclo di incontri laboratoriali di poesia e di lettura curato da Matteo M. Vecchio e da me tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio 2020 presso la Galleria Boragno di Busto Arsizio. E Tre imperdonabili è il titolo del presente volume. Esso raccoglie le trascrizioni da registrazione vocale delle tre lezioni tenute da Matteo rispettivamente su Emily Dickinson, Antonia Pozzi e Cristina Campo, al termine delle quali si svolgeva una sezione laboratoriale volta all’apprendimento di tecniche di lettura sulla base dei testi presi in esame (e a partire dai quali sono state imbastite le lezioni). Il corso prevedeva originariamente quattro incontri: l’ultimo, che non si è svolto, sarebbe stato dedicato a Piera Badoni e Nella Berther. L’approccio critico di Matteo nei confronti delle tre “imperdonabili” si distingue per la sua originalità; audace e affascinante l’accostamento di Cristina Campo a Pier Paolo Pasolini, entrambi in «lotta titanica contro la parola sprecata, contro la vitalità gettata», oltre che accomunati – pur nella innegabile diversità complessiva – da una veemente critica alla modernità.

Silvia Giacomini

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[Dopo una domanda del pubblico su come gli autori entrino nella vita di chi li studia, Matteo risponde:] La Pozzi è arrivata nel 2002, precisamente nel giorno del mio compleanno del 2002, perché su “Io donna”, un inserto del Corriere che leggeva mia madre, era uscita una recensione della biografia di Alessandra Cenni e, mi ricordo, lessi delle poesie folgoranti. Ne fui molto colpito. Sono loro, gli autori, che ci “cadono in testa”, non siamo noi che li cerchiamo. Questo vale anche per Piera Badoni, delle cui poesie mi venne regalato un libro. E per Cristina Campo. Nascono così, per caso, questi amori; si trova un punto di consonanza ed è questa, io credo, una delle modalità per cui ci si innamora di un autore. Poi, naturalmente, dall’amore bisogna approdare a un atteggiamento da medico legale, perché non si può studiare un autore senza essere il medico legale che affronta (brutta l’immagine ma credo particolarmente icastica) un’autopsia. Si deve agire con quella probità del medico legale che incide un corpo non per denigrarlo ma per restituire dignità a una morte. Ecco, questo è il mio atteggiamento quando decido di studiare un autore.

Chi studia un autore deve, secondo me, praticargli il prima possibile un’autopsia e compiere un atto di misericordia corporale: seppellire i morti – o meglio, restituire dignità ad una vita e ad una morte – non celebrarli. Celebrare un autore non serve a niente; serve invece parlare di lui in termini scientifici, nel bene e nel male – ma non c’è bene e male nella scienza, c’è un atteggiamento deontologico o un atteggiamento non deontologico.

Cristina Campo, 24 Luglio 1958, Santa Vittoria. “[…] Cara, quanto dovrà sembrarle assurda questa lettera, scompigliata e priva di centro […] Ma io non ho, davvero, che la poesia come preghiera – ma posso offrirla? E quando mai la sentirò così vera (non dico pura, ma è differente?) da poterla deporre a quell’altare – di cui non vedo e forse non vedrò mai che i gradini – come un cesto di pigne verdi, una conchiglia, un grappolo? Di giorno in giorno mi persuado sempre più che non ho altro rosario, altra spada, altro libro, altro cilizio che questo. E io non parto dall’amore di Dio – sto nel buio; ma vorrei fare qualche cosa che agli altri sembrasse nato alla luce” (Lettere a Mita). Cristina Campo è una poetessa forse ancora piuttosto enigmatica, in quanto non ancora studiata in modo profondo e accurato. Ci appare subito estranea al proprio tempo, refrattaria, anche, a commerciare – a entrare in intimità – con esso. Pensiamo a Elsa Morante, che combatté contro il proprio tempo ma che in qualche modo volle anche comprenderlo. Cristina Campo invece, vissuta tra il 1923 e il 1977 (quindi una vita relativamente breve, cinquantaquattro anni non compiuti), con il proprio tempo non volle, apparentemente e dichiaratamente, entrare in sintonia. Ma c’è chi ha detto che questa obiezione di coscienza così dichiarata, così conclamata, così, anche, esibita, sia stata una forma di diversa partecipazione alle istanze culturali e al sommovimento di quegli anni, tanto che qualcuno ha sussurrato – e secondo me a ragione – che esiste un corrispettivo maschile di Cristina Campo nell’Italia del Novecento e questo è Pier Paolo Pasolini.

A ben guardare, entrambi hanno a che fare con Bologna (chi più chi meno); Pier Paolo Pasolini vi approda, avendo, del resto, un padre di nobile famiglia emiliana; Cristina Campo è bolognese per quanto riguarda la madre, ed è cugina di Ottorino Respighi, di Enrico Panzacchi e nipote di Vittorio Putti, un importante ortopedico, quindi inserita in un contesto di sobria alta borghesia – come Pasolini. È stata fustigatrice del proprio tempo come lo è stato Pasolini, sebbene dichiari: «Eppure amo il mio tempo perché è il tempo in cui tutto vien meno […], l’era della bellezza in fuga». Cristina Campo e Pier Paolo Pasolini condividono la radicalità della scrittura, la visceralità, che contraddistingue sia l’una sia l’altro, e anche una smania, un desiderio a volte quasi autodistruttivo – ed è il caso di Pasolini, certamente autodistruttivo, ma forse è anche il caso della Campo che si logorò, negli ultimi anni, in una battaglia di cui poi parlerò –; condividono la voracità, l’autodistruzione in una lotta titanica, oserei dire, contro la parola sprecata, contro la vitalità gettata, contro l’inutilità dei cascami nella vita, ma a favore di una autenticità relativa alla parola che si rifletteva inesorabilmente anche sulla vita.

Cristina Campo

[…]

La poesia ha per Cristina Campo (il talento di cui scrive) una vocazione chiarificatrice (“io scrivo per chiarirmi”), una valenza quasi, oso dire, curativa (per lei soprattutto – che da bambina non ha frequentato regolarmente una scuola perché aveva problemi cardiaci gravissimi e dunque necessità di starsene a casa – la lettura, la scrittura, la traduzione, l’apprendimento delle lingue, hanno sempre avuto un valore estremamente curativo).

In quegli anni Cristina Campo sta anche strutturando la prima raccolta di saggi: Il flauto e il tappeto.

[…]

Nel caso di Cristina la sofferenza fisica, la «tremenda purgazione», come la chiama lei, la fa riflettere sul ruolo degli altri nella propria vita. Altrove parla di come questa sofferenza le procuri la voglia di scrivere, di partecipare; e anche in questo oso dire che ella è molto assimilabile, più di quanto pensiamo, ad Antonia Pozzi, perché anche Antonia Pozzi parte dalla propria sofferenza per aprirsi al mondo. Il mondo non riesce tuttavia a capire l’improba sofferenza che Antonia deposita nelle cose; e quando Cristina Campo parla del sonno dei discepoli a Getsemani che negavano a Cristo l’unica cosa che egli abbia mendicato, potrebbe alludere alla sofferenza che ella stessa provava, anche se a mio avviso in modo minimo, quando non era capita.

Gli anni ’70 sono meno impegnativi per Cristina Campo, a livello sociale e a livello culturale, perché ella si accorge che è fallita, a suo dire, la battaglia per salvare la messa tridentina, e per lei è un colpo terribile. Falliscono inoltre grandi progetti che ella aveva, come ad esempio di recarsi negli Stati Uniti per intervistare Djuna Barnes. Il cuore le dà molti problemi, il rapporto con Elémire Zolla attraversa alti e bassi (purtroppo Zolla in quegli anni frequentava anche un’altra donna), ma questo non le impedisce di riflettere ancora sulle proprie poesie. Sono le poesie ultime che Cristina Campo andrà pubblicando in quei medi ’70 su “Conoscenza religiosa”.

«Sabato sera [agosto 1973]. […] Mi dispiace, ora, di aver dimenticato di farle leggere la prefazione al Pellegrino russo. È una cosa molto piccola e semplice, ma è in certo modo la mia lettera al Russicum. Poi volevo parlare con lei di un’altra cosa che vorrei scrivere: una serie di considerazioni tragiche sulla bellezza. La bellezza come tremendo retaggio. La bellezza come spada a doppio taglio (“son regard profond et froid / coupe et fend…”: Baudelaire sapeva queste cose). La bellezza come camicia di Nesso. Trenta, quarant’anni, sapendo di portare in sé, con sé quest’arma mortale (“Chi mi libererà da questo corpo di morte?”. “Una scheggia nel fianco…” Anche San Paolo sapeva). E insieme la coscienza dell’elemento divino celato in quell’arma, nel suo doppio taglio, appunto. Si può ben capire come una creatura segnata da questo terribile privilegio sopprima i rapporti, le parole, le lettere, indossi ogni sorta di maschere, cammini a zig-zag, desideri scomparire nelle crepe dei muri, voglia essere ovunque, infine, “come un uomo che non esiste.” Poi l’altro polo della tragedia: la bellezza per chi la incontra e la subisce (“un’eternità già presente in una punta di spillo…”: Musil, altro iniziato). Chi, per salvarsi, non ha altra scelta se non applicare quella lezione difficilissima: “regarder, tout en restant à côtè de son propre corps”, ovvero risalire alla sapienza suprema di quel doppio sguardo di cui lei dolcemente si ostina a credermi capace…”

Questa lettera secondo me apre alcune possibilità di interpretazione psicoanalitica notevole; soprattutto l’appunto sul doppio sguardo e la maschera (ma questa è una personale considerazione) lascia supporre che Cristina Campo fosse una persona non pienamente neurotipica, che avesse cioè quelli che ora si chiamano “bisogni educativi speciali”, vale a dire un’alterità cognitiva che le faceva vedere le cose secondo una prospettiva assolutamente alterata rispetto a quella delle persone neurotipiche. «Regarder, tout en restant à côtè de son propre corps», “guardare restando a lato del proprio corpo”, è una caratteristica modalità di sguardo delle persone non neurotipiche.

Il doppio sguardo di cui le scrive Mita Pieracci fa capire a Cristina come lei stessa non fosse una persona pienamente allineata da un punto di vista cognitivo. Del resto, con il pretesto di parlare della bellezza, del portatore della bellezza, Cristina non parla altro che di sé stessa e di questa sua alterità consapevole: «Si può ben capire come una creatura segnata da questo terribile privilegio», cioè di vedere l’interstizio, «sopprima i rapporti, le parole, le lettere, indossi ogni sorta di maschere, cammini a zig-zag, desideri scomparire nelle crepe dei muri, voglia essere ovunque, infine, “come un uomo che non esiste”».

E qui, se vogliamo, c’è anche l’aspetto più significativo di questa lettera: le varie citazioni, per esempio da Musil, che lei fa e non fa. Credo che Cristina Campo fosse giunta a questa considerazione sulla propria condizione non neurotipica soltanto negli ultimi anni della sua vita; e questo, a mio avviso, è qualcosa su cui la critica deve ancora investigare.

[…]

…Ha scritto Antonia Pozzi: di fronte a certe bellezze non ci si può che buttare in ginocchio. È una sorta di stordimento gnoseologico, che in Cristina sollecita riflessioni legate alla gioia. Quella di Cristina Campo non è tanto una gioia esistenziale, cioè una sorta di condizione del sans-souci, del senza problemi, perché dire «senza un pensiero al mondo» non significa la vuotezza di pensiero, ma piuttosto la sospensione del pensiero nell’osservare quell’elemento auto-taumaturgico per Cristina che era il mare. Il mare è una presenza precoce dell’opera di Cristina Campo, e anche di questo epistolario. In una lettera a Mita del ’55, sorprendente, ella dichiara la propria modalità di prendere il bagno al mare: andava in barca fino a oltre la seconda boa, a Forte dei Marmi, si toglieva il costume e nuotava nuda. Scrive questo in una lettera in cui si parla abbondantemente del potere battesimale, purificatorio, dell’acqua, quindi nessun tipo di nudismo scandalistico ma una vocazione alla gioia fisica che le cagionava il mare (ancora la questione del corpo; precedentemente il male del corpo che procura la poesia, in questo caso il benessere, la gioia «senza un pensiero al mondo», che procura, direi, la ridondanza del talento).

La scrittura di Cristina Campo è estremamente pregna di gioia – al di là della sua severità, al di là della sua apparente incomprensibilità, al di là, credo, di una sua, a volte, apparente distanza da quelli che possono essere i bisogni dell’uomo; ma poi è detto che la poesia debba dichiarare di capire, di interpretare, di farsi latrice dei bisogni dell’uomo. Forse anche quando la poesia non si esprime in maniera risoluta e univoca (come nel caso di Cristina Campo), è comunque una poesia che viene vocata alla comprensione, al tentativo di risoluzione dei problemi della vita. Questa lezione della gioia, della sacra intangibile gioia («bisognerebbe scrivere su questo», “bisognerebbe educare alla gioia”) è uno dei tanti messaggi, o, più correttamente, uno dei tanti modi di leggere l’opera di Cristina Campo.

[…]

Passo d’addio è la poesia eponima della prima raccolta di Cristina, pubblicata nel ’56 e, naturalmente, non recensita da nessuno, salvo che da Leone Traverso, che ne fa una recensione elogiativa. È una poesia del primo periodo di Cristina Campo, una poesia in qualche modo conclusiva della sua esperienza fiorentina (abbiamo detto che lo spostamento a Roma è del ’55); è una poesia, direi, altoborghese (descrive questi abiti estivi che si ripiegano a ottobre, quando l’estate ormai declina; lascia intuire un raffinato giardino) al di là della tematica forte: la caducità, l’anelito a indugiare («indugia tiepida la rosa»), ma anche l’interruzione dei rapporti, l’addio. Passo d’addio è una terminologia della danza; un passo d’addio è un particolare passo che fanno le ballerine al saggio di danza (soprattutto all’accademia di danza) prima di congedarsi dal palcoscenico.

È la poesia, dicevo, della caducità, ma è anche una poesia che immette in una raffinata atmosfera fiorentina. Cristina Campo abitava a Firenze a Campo di Marte, una località fuori dal centro, fatta di deliziosi villini Liberty, e lei risiedeva in uno di questi (adesso è pieno di casamenti, ma all’epoca era zona di grandi parchi e c’era un grande campo sportivo). È una poesia dell’addio a Firenze («città pagana», la definirà Cristina), però è anche la poesia che conclude un’esperienza e apre ad un’altra, quella sconvolgente di una poesia liturgica come Diario bizantino. Diario bizantino è una poesia dell’ultimo periodo, la cui concezione può essere fatta risalire agli anni ’60 e che poi sarà pubblicata negli anni ’70. Sono qui riconoscibili elementi della liturgia bizantina. Il titolo, Diario bizantino, rimanda al calendario liturgico bizantino; in quegli anni, dopo il fallimento della sua iniziativa, pur non solitaria, a favore della messa in latino, Cristina Campo si avvicinò sempre di più al Russicum, che era il collegio ortodosso dei sacerdoti, con sede a Roma, dove veniva officiato il rito ortodosso.

«Due mondi – e io vengo dall’altro»: anche questa è una dichiarazione di poetica, con una forte vocazione politica. Io non appartengo a questo mondo, dice Cristina; e che cosa ha scritto Pasolini? «Io sono una forza del Passato», io non appartengo al mio tempo – altro elemento, questo, che può rimandare all’ipotetico e possibile parallelismo tra i due, pur a partire da premesse culturali completamente diverse. In entrambi c’è un ripudio del proprio tempo; il ripudio degli anni ’60 che fa Pasolini, in una polemica eminentemente letteraria e politica, rimanda a queste stesse atmosfere. Certo, un Pasolini mai avrebbe scritto una poesia liturgica come questa, mai avrebbe scritto dell’«erotico incenso» e del «ferale myron». In questa poesia esplode quello che Cacciari ha identificato come il misticismo di Cristina Campo – attenzione, non misticismo di scrittura ma misticismo ideologico, perché la scrittura mistica è una scrittura estremamente scomposta; qui, invece, abbiamo una cura formale della parola, una politura della parola tale che non rimanda certo alle sconclusionate, rumoristiche, devastanti esternazioni dei mistici (pensiamo a Maria Maddalena de’ Pazzi, o anche a Gemma Galgani.) I mistici sicuramente non controllavano come Cristina Campo la parola e il verso.

Nobilissimi ierei è una poesia dedicata ai sacerdoti che officiavano il rito tridentino. «Grazie per il silenzio» – il silenzio, l’astensione, il veto dei veli, sono tutti elementi del rito –; l’astensione, cioè il sottrarre il proprio volto ai fedeli, la gnosi della distanza, cioè la sapienza della distanza che crea in chi officia e in chi assiste una sorta di trasporto, di tensione verso l’altare…

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Cristina Campo è forse la poetessa più complessa del nostro Novecento. E aveva la quarta elementare (tra l’altro, nelle lettere che scrive a monsignor Lefebvre dice: ho studiato dalle suore inglesi fino alla quarta elementare, tranne che erano talmente cattive che vomitavo dalla paura, quindi non ho imparato niente e mi sono allontanata dalla fede). Studiò da sola con il padre. E conosceva sette, otto lingue europee; conosceva il greco e il latino. È sorprendente che, nonostante avesse poche partecipazioni culturali (anche se aveva tanti amici, tra cui David Maria Turoldo, Danilo Dolci, Leone Traverso), abbia scritto addirittura al Papa, al cardinale Ottaviani, sia entrata in contatto con numerosi cardinali. In fondo anche questa è una forma di trasgressione.

È pasoliniana anche in questo. L’ho accostata a Pasolini perché effettivamente non è così distante da lui su certe questioni; ad esempio, la critica alla contemporaneità è uguale. La critica alla contemporaneità fatta da Pasolini, la battaglia contro l’omologazione culturale è esattamente la stessa della Campo contro la messa in italiano che lei vide come una “volgarizzazione”. È un’antimoderna come Pasolini, intendendo il moderno come la dissoluzione di un’identità. A metà degli anni ’70 Pasolini afferma che non si trovano più i volti, i corpi, degli uomini e delle donne che ha coinvolto in Accattone: il progresso ha comportato anche una modifica antropologica.

Pier Paolo Pasolini

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Cristina Campo va studiata; bisogna leggerla, convivere: anche solo le lettere esigono una convivenza, perché in una letterina di venti righe costei – che secondo me non era del tutto neurotipica, o meglio, aveva una visione del mondo scentrata rispetto a una prospettiva più tipica – concentra gli universi.

(Matteo M. Vecchio)

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Matteo Mario Vecchio (Milano 1981-Alessandria 2021) era dottore di ricerca in Italianistica presso l’Università degli Studi di Firenze, Université Paris-Sorbonne (Paris IV) e Universität Bonn. Ha collaborato con “Fronesis”, “Italian Poetry Review”, “l’immaginazione”, “Materiali di Estetica”, “Otto/Novecento”, “Paragone Letteratura”, “Poesia”, “Rivista di storia della filosofia”, “Studi Italiani”. Ha curato alcuni carteggi di Vittorio Sereni. Di Antonia Pozzi ha curato il volume Antonia Pozzi. Diari e altri scritti (Milano, Viennepierre, 2008), con nota biografica, apparato critico e postfazione; alla stessa autrice ha dedicato un volume di studi, Perché la poesia ha questo compito sublime (Ladolfi, 2013). Sempre per Ladolfi ha curato, nel 2011, La vita è un dito, antologia poetica di Daria Menicanti. Uno dei suoi ultimi contributi è Antonia Pozzi, “non per vie traverse”, Metaphorica, Semestrale di Poesia, Anno 1, numero 1, gennaio-giugno 2022.

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Matteo M. Vecchio

Silvia Giacomini, Matteo M. Vecchio

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