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Vladimir Holàn
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I soldati russi di Holàn sono folli. Viene fuori dal taglio del linguaggio, dal colloquiale all’infimo. Parlano come cinesi o sdentati. Fanno la guardia ai cannoni. Si annoiano. Qualche volta si vede per strada una donna che grida, trascinata per i capelli dai tedeschi. Non c è spazio che sia piccolo nel mondo dei morti. Le candele sono curiose dei morti che illuminano. C’è stato un tempo, nella vecchia Praga, dove le candele più curiose venivano spente a colpi di coda dai cavalli. Le candele di un cimitero notturno. Le fumaiole sui cipressi. Noi cominciamo a vedere prima la ferita che porterà alla scarnificazione. I morti sono veri fantasmi del terrore che escono puntuali dal loro castello a mezzanotte. È un autunno. E nella poesia di Holàn sembra che il buio debba svolgere più compiti: far volare gli uccelli, tosare i biancospini, lasciare che gli dei impiantino un insediamento. Non sappiamo altro. Spesso sono quartine. Immagini concatenate secondo una iraconda sinossi o una labirintica sintassi.

Holàn non usciva mai dalla sua casa. Era solitario. Forse gli bastavano le sue memorie giovanili, l’ubriaca contusione stilistica, i passaggi da muro a muro, in trincea, nella convinzione che l uomo sia “un errore commesso nel censimento dei morti”. La barbarie filosofica di Holàn si avvicina a certi scenari del teatro elisabettiano, emergono culti rappresi. Ognuno edifica un teatro di ombre perché teme la pietrificazione. Ci si inventa alleanze spettrali, spastiche, spossanti. “Cose squassanti” scrisse René Char. Holàn non può fare a meno di annotare sui suoi taccuini gli appuntamenti con i fantasmi. Ogni fantasma ha una funzione precisa e indossa vesti – simbolo della loro carica.
Le immagini di Holàn sono magistrali. Sono campi da biliardo. Le foschie schizzano nell’erba, tra le chiaviche, le fogne. Nulla è sottratto. Sono realtà acquartierate alla maniera dei fabbricanti di girandole. Passando da una scena all’altra Holàn distrugge ogni mossa controumana, ogni gerarchizzazione. Antropomorfi oggetti, miti. Non c’entrano le preziose battaglie di Borges. C’entrano negritudine, impalcate sinfonie proletarie, una rapsodia nelle mani di uno stregato dal terrore. Le occlusive del nulla. Ho ascoltato una poesia di Vladimir Holàn. Titolo: “Cessato è il canto delle sirene”.

Holan ha sognato in pieno sonno o in dormiveglia. Due voci: la coscienza, la subcoscienza. Erano amarezze. Getta reti e forma doppi e accoppiamenti: sete e fato, voluttà e vicinanza, arte e morte, coscienza e strappo. Tutto viene convogliato verso un grido finale che libera: è majakovskijano l’invito a scuotersi, a vegliare. Non esita, non esita mai Holàn a vedersi morto nel suo funerale. Il carro funebre è una tenda che frequenta. Nel sogno o nel dormiveglia ascolta, sente voci che dicono a sé stesse di stare zitte perché potrebbero svegliare il dormiente, voci di angeli – gli angeli barocchi di Holan – angeli “quadricefali” che portano il suo corpo verso il “silenziario”. Le sirene dei cantieri o dei dormitori hanno smesso. Quali sirene? Il canto del sogno. È questo che ama un poeta come Holan: il canto del sogno.

So del suo terribile senso di colpa. Dico, in un frammento, della sua figlia handicappata. Holàn scrisse il suo ultimo libro Addio qualche anno prima che morisse la figlia. Dopo la morte della figlia, non scrisse più. Visse in due case isolate smangiate dal legno e dall’edera. La prima sull’isola di Kampa nella vecchia Praga, la seconda nel quartiere di Malà Strana che è la Venezia di Praga. Ne scrivo nei frammenti più espositivi, più biografici. Ne scrivo solo quando sento che uomo e scrittore sono l’uno il bersaglio o il compagno dell altro. Il poeta è un Alter Ego. Adoro le teorie letterarie sugli eteronimi. Io me ne creai alcuni da giovane. te ne dico due “Alcide De Bava”, lo pseudonimo usato da Rimbaud, e Isidoro, omaggio al Conte Ducasse, il mio Angelo custode. Eh si, te l’ho svelato, caro amico mio, il mio Angelo custode è Isidore Ducasse Conte di Lautréamont.

Lautréamont


Isola di Kampa