PER “SENTINELLA”. Salvatore Ritrovato

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Il genere dell’aforisma in Italia ha avuto, soprattutto nel Novecento, illustri autori, ma non tanti che si possano dire esaurite le sue straordinarie possibilità di variazioni e di approfondimento. Marco Ercolani coglie questa possibilità con una intensità che non avrei dubbi a definire unica in Italia, e lo dimostra la sua nuova raccolta, tra verso e prosa, Sentinella, nelle edizioni bolognesi Carta|Bianca. Composto di sei sezioni, di diversa misura e fattura, il volume si nutre di una «scrittura errabonda, vigile ma dormiente, disattenta ma lucidissima», a viatico di uno sguardo ‘superstite’, fra materiali vivi e inerti di altre letterature, fra voci contemporanee (da Milo De Angelis a Francesco Marotta a Lucetta Frisa) e maestri dell’aforisma (da Nietzsche a Walser a Herbert, dalla Campo a Cioran a Jabès), tra insonnia e sonno, lungo la soglia “sonnambulica” che guida il poeta di verso in verso, di parola in parola verso il riconoscimento del mondo. È un libro che esclude la metafisica dai diritti e dai doveri della poesia, ed elegge invece un dialogo audace con ciò che ne ha preso il posto: il vuoto; e ne descrive la forma in una condizione radicale di pericolo, per cui l’opera appare come un insieme di pensieri distorti e deliranti, ed è invece esercizio esistenziale di una «realtà estrema»: «Qualsiasi cosa io viva di reale, da uomo, da medico, da scrittore, c’è, nella mia testa, un’unica apocalisse, una sola polverizzazione del mondo, un bianco totale. Il solo paesaggio possibile». Se il punto di partenza è la condizione di un soggetto, incapace ormai di riempirsi della sua voce, del suo ego lirico o anti-lirico, allora «L’ossessione è mantenere la propria voce nel frastuono che la cancella, trasformandola in un’altra voce». Questa è la voce della Sentinella di città disegnate sul muro, come su un foglio di carta, in testi che recitano il silenzio (come in un aforisma di Pascal Quignard), in un libro che rifiuta di essere Libro e si mostra anzi a brandelli, fra macerie e detriti del moderno – e del post-moderno – che si stagliano su un orizzonte nebbioso, di cui lo scrittore può scoprire e fissare dei “dettagli”, dal momento che gli sfugge quella “visione unitaria” che ancora, surrettiziamente, si pretende dalla letteratura, dall’arte, in nome di “verità definitive”. La verità che sostiene ciascuno di questi testi, «come stracci a folate di vento», è un’«ansia inguaribile» che fomenta la scrittura, l’istanza e la coagulazione dei pensieri, ma è anche una parola fantasma. Aeree e invisibili le parole attraversano le pagine simili a vettori temporali di un ‘provvisorio’ che supera il suo stato e approda, tra «risveglio e addormentamento», alla «traccia fisica di questa esitazione»: cioè a quella «lezione necessaria del vuoto» che non si esaurisce in un breviario di chiose nichiliste, ma si apre sua volta alla lezione della «materia», alla ricerca di un’opera miracolosa, anche se mai scritta (come nell’aneddoto del poeta Farid Al Din ‘Attar, decapitato da un soldato mongolo), in cui si annida l’ultima forma di resistenza della vita. (2011)

Salvatore Ritrovato

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