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Perché Hölderlin1 ci è così presente oggi? Perché la sua voce appare a noi come la voce poetica per eccellenza? Naturalmente non si può sperare di rispondere a tali domande in maniera soddisfacente. Il fatto che questo poeta sia morto ignorato, e che la follia abbia a lungo tenuto nascosto lui e le sue opere, così che molte poesie erano ancora inedite all’inizio di questo secolo, quando verso il 1910 Norbert von Hellingrath2 intraprese l’edizione che le fece conoscere, simili dettagli storici non ci spiegano nulla, poiché non si tratta di casualità. La follia fu dapprima il riserbo, il limite estremo di discrezione che sottrasse l’opera e la trasformò in un mucchio di fogli scarabocchiati che, dopo la sua morte, furono messi su un carretto per essere sparsi ai quattro venti. Ma in seguito la stessa follia che aveva sepolto Hölderlin nel silenzio fu anche quella che lo rivelò, fu il mistero che, come dice Hellingrath, più ancora che il miracolo dell’opera ha reso noto il suo nome. Inoltre va detto che l’epoca stessa di Hölderlin non lo ha propriamente ignorato: nessuno è per intero degno del silenzio. Il suo romanzo Hyperion era stato pubblicato3 e aveva avuto, durante la sua vita, varie edizioni (quando qualcuno pensò bene di dirgli – al tempo in cui non aveva già più contatti col mondo delle persone ragionevoli, giacché viveva da solo presso l’onesto artigiano Zimmer – che quel libro veniva ristampato e apprezzato, quel visitatore, lo studente Waiblinger, non ricevette dal poeta altra risposta che un profondo inchino e un «Tante grazie, signore, le sono molto riconoscente»4). Pubblicò anche alcune poesie importanti, e persino gli inni – quelli che furono scritti al limite della chiaroveggenza e che noi amiamo e ammiriamo di più – non rimasero celati ai suoi contemporanei. Ad esempio, l’oscuro Patmos fu pubblicato da Seckendorf già nel 18085. Tuttavia, tale voce non sfiorò quasi nessuno. «Lei viene a noi, aveva detto Hölderlin, la straniera, la risvegliatrice, la voce che forma gli uomini»6. Ma la risvegliatrice deve dapprima rimanere la straniera, poiché ciò che risveglia può raggiungerci solo nella solitudine dell’estraneità.
Nietzsche apprezzò Hölderlin, e trovò nella tragedia di Empedocle7 l’allusione misteriosa che confermò la sua fede nell’eterno Ritorno. Il mito di Dioniso, il mito della Grecia, luogo di una rivelazione così grande, di un presentimento del sacro così giusto che la storia, in certo modo, può solo cercare di esprimerlo un’altra volta: tali prospettive sono proprie di Nietzsche, ma prima ancora lo sono di Hölderlin, ed è difficile sfuggire all’impressione che queste due figure si ripetano, che non soltanto l’uno e l’altro superino la soglia della ragione con un movimento che appare come lo slancio della loro verità, ma che, al momento di sparire, entrambi si sentano esposti alla medesima prova, si vedano minacciati dalla gelosia divina, lacerati tra la concezione tradizionale del sacro e la rivelazione che, dal fondo dei tempi, si è dischiusa loro con una forza sconvolgente. Certo, Nietzsche, essendo colui che viene dopo, non ha potuto conservare la misura, lo straordinario riserbo che, persino nella follia e nello scuotimento della tempesta, fanno di Hölderlin la figura più pura, la più misteriosamente innocente, un modello di silenzio e di verità. Se Nietzsche è Hölderlin che torna ancora una volta, ha potuto esserlo solo in una solitudine più irritata, con una violenza che lotta più disperatamente per farsi luce, e per far riconoscere tale luce a cui è legato. Per questo motivo la filosofia, che aveva tentato e persino tormentato anche Hölderlin, ha la precedenza in Nietzsche sulla pura verità poetica, e la critica, lo strazio delle visioni negative, l’ironia, la polemica, la sterile violenza prevalgono sull’audacia, sull’evidenza che, tramite il poeta, afferma la sovranità conquistatrice dello spirito – sovranità che, è vero, deve alla fine essere espiata. Nietzsche si trova senza dubbio al centro stesso della nostra storia, mentre Hölderlin sembra parlare in nome di una solitudine che ignora le preoccupazioni del mondo. E tuttavia, è forse questa sua parola ad esprimere, nel modo più profondo, le lacerazioni dello spirito del tempo, con le quali la verità poetica non può essere priva di rapporti, cosicché si può vedere un critico marxista come Lukács8 da un lato respingere «l’isteria bestiale» di Nietzsche e dall’altro riconoscere nella poesia di Hölderlin quella in cui «il destino individuale e il destino sociale si sono uniti in una rara armonia tragica».
Se si volesse immaginare che Hölderlin sia sopravvissuto a se stesso in varie riapparizioni, bisognerebbe, dopo quello di Nietzsche, fare il nome di Rilke. È nel luglio 1914, a quanto sembra, che Rilke si riconosce pienamente nelle opere che Hellingrath pubblica da alcuni anni. Scrive appunto a Hellingrath che si sta abbandonando a tale lettura con un’emozione e un consenso infiniti. «L’influsso di Hölderlin su di me è grande, come può esserlo soltanto quello di chi, sul piano interiore, è più ricco e potente». Le Elegie di Duino9 sono un tentativo di avvicinarsi all’evento originario di quel principio del giorno – oscurità fatta di luce, Das Dunkel aus Licht – che Hölderlin ci ha reso presente. Ma occorre dire di più: la parola essenziale a cui la poesia di Rilke cerca di restituire tutta la sua forza di richiamo è das Offene, l’«Aperto»; Orfeo passa nel «mondo nei rapporti», in cui tutte le cose visibili (sia quelle della vita, sia quelle della vita trasformata dalla morte) appaiono in una luce nuova, un mondo che non è più quello delle forme, della configurazione, bensì l’Aperto. Das Offene, l’Aperto, lo strappo iniziale, il movimento di apparizione con cui tutto ciò che appare viene alla luce, il levarsi stesso del giorno: è questo il nome che Hölderlin, per primo, ha dato al Sacro e che ha cercato incessantemente – con una pura profondità che le tentazioni teosofiche di Rilke non sempre hanno saputo mantenere – di rendere più vicino a noi, più degno del suo significato originario. «Un fuoco divino ci spinge di giorno e di notte a rompere e a slanciarci. Vieni, così che vediamo l’Aperto»10.
Heidegger avrebbe detto delle Elegie di Rilke che erano l’enunciazione poetica di ciò che egli stesso cercava di chiarire tramite il pensiero riflessivo. Heidegger è il terzo nome che bisogna iscrivere quando si vuole capire il movimento attraverso cui la figura di Hölderlin è divenuta la più attuale fra tutte le grandi figure poetiche. Non soltanto Heidegger ha prodotto dei commenti di valore essenziale alle opere del poeta, ma anche lui ha ricevuto da Hölderlin l’Aperto, parola di cui si può dire che le sue opere recenti cerchino innanzitutto di riafferrare il significato, e di ricordarcelo11. Nietzsche, Rilke, Heidegger, questi nomi contengono molto, e i pensieri che ad essi fanno eco sono fra i più importanti. Ma la poesia è tale che chi l’ha portata, senza piegarsi, fino al sacrificio, ci è intimo e afferma di più, per noi, di tutti gli altri, come se soltanto l’intimità poetica, in cui si manifesta l’intimità profonda, lo scuotimento del sacro, potesse rimanere incrollabile attraverso il travaglio doloroso e nell’attesa della decisione dei tempi12.
(Traduzione di Giuseppe Zuccarino)
1 L’articolo Hölderlin è apparso in «L’Observateur» il 3 agosto 1950, ed è stato poi ripreso in una raccolta postuma: M. Blanchot, La Condition critique. Articles, 1945-1998, Paris, Gallimard, 2010, pp. 181-184. [N. d. T., come le successive, salvo diversa indicazione.
2 Critico e filologo tedesco (1888-1916). Dopo aver pubblicato nel 1911 le traduzioni hölderliniane da Pindaro, aveva programmato un’edizione in sei volumi di tutti gli scritti del poeta, comprensiva di molti inediti. Prima di morire in guerra a soli ventotto anni, era riuscito a far apparire, nel 1913, il primo e il quinto di tali volumi; l’edizione era stata completata più tardi, tra il 1916 e il 1923, a cura di Friedrich Seebass e Ludwig von Pigenot.
3 In due tomi, apparsi rispettivamente nel 1797 e due anni dopo; cfr. Friedrich Hölderlin, Hyperion ovvero l’eremita in Grecia, in Prose, teatro e lettere, tr. it. Milano, Mondadori, 2019, pp. 31-198.
4 Cfr. Wilhelm Waiblinger, Friedrich Hölderlin (Vita, poesia e follia), libro edito postumo nel 1831, tr. it. Milano, SE, 1986, p. 33.
5 In quell’anno, Leo von Seckendorf aveva pubblicato Patmos e altre due poesie hölderliniane nella rivista che dirigeva, l’«Almanacco delle Muse»; cfr. F. Hölderlin, Patmos, in Tutte le liriche, tr. it. Milano, Mondadori, 2001, pp. 315-327.
6 I versi citati provengono dalla poesia Alla fonte del Danubio (ibid., p. 1129): «Lei, straniera, giunge / Tra noi, risvegliandoci, / La voce che gli uomini plasma».
7 Cfr. La tragedia «Empedocle», in Prose, teatro e lettere, cit., pp. 299-638.
8 György Lukács (1885-1971), celebre filosofo e critico letterario ungherese.
9 Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, scritte fra il 1912 e il 1914, tr. it. Torino, Einaudi, 1978.
10 Sono due versi dalla poesia Pane e vino (in Tutte le liriche, cit., p. 939): «Spinge un fuoco divino, giorno e notte, / Ad andare. Vieni dunque! a guardare l’aperto».
11 Probabilmente Blanchot allude in particolare al saggio Perché i poeti?, in Martin Heidegger, Sentieri interrotti (1950), tr. it. Firenze, La Nuova Italia, 1968, pp. 247-297.
12 Tra le opere recenti dedicate a Hölderlin, occorre segnalare, di Ernest Tonnelat, L’œuvre poétique et la pensée religieuse de Hölderlin ([Paris] Marcel Didier [1950]). [N. d. A.]

Friedrich Hölderlin
