NAUFRAGIO

Giovanni Castiglia

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Certe visioni si consegnano alla confusione del sintomo, dove tutto è febbre, ma esigono anche la visibilità dell’armonia, dove niente è febbre. La scrittura poetica vaga fra queste acque, costretta ad inabissarsi e a tornare verso riva. Solo rallentando l’attimo, finale e comune, della dispersione, attraverso molteplici finzioni ed estenuanti navigazioni, la scrittura diventa un oggetto esatto e tangibile per l’attimo, fulmineo, in cui esiste il libro; ma, appena un attimo dopo, il testo non è più boa, àncora, approdo, ma ancora una volta onda di un gorgo. Simile a un pianista che suoni nel buio con le dita, semicurvo sulla tastiera, come se da un momento all’altro cadesse nel sonno, il poeta non si addormenta mai continuando a muovere braccia, dita, spalle, con enorme fatica, tenendo fermo il filo della melodia, cercando di essere reale all’interno di quella surrealtà ininterrotta che è l’esperienza del vivere umano e poetico. Per ogni scrittore è indispensabile raggiungere il proprio naufragio. Ogni scrittore fa naufragio, ma in modo diverso: è per lui indispensabile trovare le coordinate del proprio, definirne latitudine e longitudine, in modo da avvicinarsi con prudenza, da osservatore-testimone, al maelström amato e temuto (M.E.).

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