RINASCIMENTO. LA DANZA DELLE IDEE. Donato Di Poce

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Donato Di Poce scrive Rinascimento. La danza delle idee (I quaderni del Bardo, 2022) come un manuale di tutte le arti rinascimentali, qui elencate ed esemplificate. Ma la didascalica visibilità dell’opera, con tanto di glossario dei termini artistici, è solo la “maschera” di una intenzione più sottile. Donato, da poeta e artista, fa parlare la “danza delle idee” di cui il Rinascimento è portatore, non solo nel testo ma anche nella copertina. Scrive Di Poce: «Tra le più affascinanti interpretazioni moderne dell’Uomo Vitruviano voglio sottolineare quella di Mauro Rea che ha realizzato per la cover del mio libro RINASCIMENTO: La danza delle idee. Rea reinterpreta e attualizza il disegno di Leonardo in diversi modi e va oltre la semplice raffigurazione. Come prima cosa inserisce il disegno all’interno di un alfabeto neofuturista che danza intorno al disegno, poi inserisce accanto o dietro la figura maschile, quella femminile, il tutto su carta riciclata con al centro un codice a barre. Il tutto come chiara denuncia del mondo mercificato in cui l’uomo non è più al centro della riflessione umana e filosofica, ma la merce ad uso e consumo delle masse. Infine la figura antropomorfa metà uomo e metà donna suggerisce anche una nuova centralità di attenzione umana al complesso mondo moderno LGBT».

La “danza”, evocata dall’autore, è visibile in alcune parti del libro. Qui ne antologizzo tre: La Pietà Rondanini, i Taccuini di Leonardo da Vinci e il S. Sebastiano raffigurato da Andrea Mantegna.

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La Pietà Rondanini

La Pietà Rondanini, L’ultima delle Pietà michelangiolesche, è anche l’ultima opera a cui l’artista mise mano. Rimasta anch’essa incompleta, fu rielaborata da Michelangelo più volte, fino a giungere alla soluzione di unire il corpo di Cristo a quello della Vergine, scolpendolo nella parte di marmo inizialmente occupata dal solo corpo di Maria. Le due figure così lievemente abbozzate evocano una fusione che, prima dei corpi, è una fusione di anime. L’iniziale ricerca di perfezione anatomica è del tutto scomparsa, mentre la consistenza fisica delle figure ha lasciato il posto ad un’immagine spiritualizzata. Nessun altro artista al pari di Michelangelo ha saputo trasmettere il valore straordinario del non-finito, potendolo contrapporre al massimo grado di perfezione raggiunto in alcune opere da lui scolpite in gioventù, quali il Bacco, la Pietà vaticana o il David. Figure bloccate nel marmo come da una sorta di incantesimo, ma il cui respiro pare non essersi mai arrestato all’interno della materia. Un non-finito, naturalmente, che non vuol significare una momentanea o conclusiva interruzione, ma una scelta poetica e materica di contrasto tra il levigato e la materia grezza come espediente per far risaltare ancor più sia la valenza spirituale della materia che dell’agire scultoreo. Il non-finito-consapevole in arte, però, è una condizione assai diversa, interiore che esalta la tensione creativa e le capacità tecniche dell’artista che trae dalla materia grezza perle estetiche. Michelangelo, intuì immediatamente come la scultura, più di qualsiasi altra espressione artistica, abbia connaturata in sé la capacità di restituire visivamente una così intensa tensione emotiva, senza alterarne la forza poetica e drammatica. Infatti egli, che pure fu pittore, architetto e poeta, sempre si considerò essenzialmente scultore. Intendendo la scultura come l’arte del togliere, dello svelare, ciò che la materia già di per sé contiene. Iniziata nel 1552 Michelangelo vi lavorerà sino al 1564, quasi novantenne (era nato il 6 marzo 1475), sino agli ultimi giorni di vita. Colpisce l’intensità di questo dialogo ininterrotto con la morte, l’assoluto e la materia. La scultura venne trovata nel suo studio, dopo la sua morte, e dall’inventario risulta così descritta: «Statua principiata per un Cristo et un’altra figura di sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite». A conclusione delle sue Vite, il Vasari scriverà di questa e di tutte le opere di Michelangelo, che la loro fama durerà fino a quando durerà il mondo, «mal grado della invidia et al dispetto della morte». 64 65 L’opera in levare di Michelangelo si percepisce a pieno confrontando il panneggi».

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I Taccuini d’artista di Leonardo Da Vinci

Leonardo da Vinci, tenne con sé fino alla   morte i suoi taccuini e nel momento del distacco li donò al suo allievo più caro Francesco Melzi, non immaginando la dispersione che le vicende storiche avrebbero fatto dei suoi 18 amati “libri”.

Nel suo testamento dice espressamente: “…per remunerazione de’ servitii ad epso gratia lui facti per il passato, tutti e ciascheduno dei libri che el dicto testatore ha de presente, et altri Instrumenti et Portracti circa l’arte sua et industria de Pictori”. Nel 1570 alla morte di Melzi, per mano del figlio inizia la dispersione in mano a vari privati dei taccuini di Leonardo e dopo varie vicissitudini 12 di questi taccuini giunsero alla Biblioteca Ambrosiana, dalla quale furono trasferiti a Parigi nel 1795 dove oggi sono custoditi all’Institut de France. Furono caratterizzati dalla denominazione da A a M. A parte il cosiddetto Codice Atlantico, tutti gli altri taccuini assunsero in seguito la denominazione di Codici seguita dal nome di proprietari dei taccuini (Codici Forster, Codice Leicester, Codice Arundel, Codice Hammer ora Gates, Codice Trivulziano, Codice di Madrid).

È quantomeno sorprendente constatare come l’opera di uno dei pochi geni che il mondo abbia avuto, venga denominata non con il nome di chi li ha creati, ma con quello dei suoi proprietari e collezionisti pubblici o privati. I “manoscritti” di Leonardo rimasero fino al 1891 una semplice curiosità per viaggiatori colti, fino a quella data in cui iniziò la pubblicazione e conseguente fama mondiale e popolare a Leonardo.

Come tutti sanno Leonardo annotava nei suoi taccuini le più multiformi intuizioni del suo genio che spaziava dall’osservazione della natura, agli studi di anatomia, dal ritratto ai progetti di volo o a disegni inerenti la costruzione di macchine volanti e strumenti di ogni genere. Ora l’annotazione che mi sento di fare riguarda non tanto i temi di Leonardo, quanto il metodo e lo stile e l’importanza che Leonardo ha dato ai suoi taccuini o se volete chiamarli quaderni o codici o appunti. La cosa importante è che i suoi scritti e disegni preparatori, i suoi progetti e sinopie li porta con sé tutta la vita. Intanto, l’insieme sul foglio di disegno e annotazioni scritte, dapprima casuali, poi, negli anni, sempre più ordinati, come abbozzi di trattati o libri specifici. Insomma, un’immagine, di un artista che aveva la necessità, di documentare il suo “journal intime” o come li chiamava lui i “moti dell’animo”.

In relazione al formato dei suoi “quaderni” rileviamo che quelli di piccole dimensioni tascabili 10×7 cm. o 14 x 10 cm. venivano usati per annotazioni veloci e varie, e quelli di formato più grande 20×14 cm. erano utilizzati da Leonardo per omogeneità di stesura e di contenuto (su tutti si veda il Codice sul volo degli uccelli) e il Codice Leicester (il più grande dei “taccuini” di Leonardo pervenutoci, circa 30 x 22 cm.) contenente testi organici sull’ottica, la geologia e l’idraulica)».

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S. Sebastiano

Certo sarebbe stato ovvio nel parlare di uno dei capolavori di Mantegna, parlare della sua Camera Picta a Mantova, o del polittico di S. Zeno a Verona poi disperso o del Cristo morto di Brera, (divenuto uno dei simboli dell’arte prospettica del Rinascimento), o dei suoi mitici Trionfi di Cesare, ma io preferisco parlare di S. Sebastiano, di cui sono giunte fino a noi 3 versioni del Mantegna rispettivamente del 1459(Vienna), del 1482 (Parigi), 1505 (Venezia). San Sebastiano (nato a Narbona, Francia nel 256 e morto a Roma nel 288 a soli 32 anni), è stato un militare romano, martire per aver sostenuto la fede cristiana; venerato come santo dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa Cristiana Ortodossa, è oggetto di un culto antico. E’ patrono di vigili urbani e polizia locale, arcieri, archibugieri, tappezzieri, fabbricanti di aghi e, in generale, delle tante categorie artigianali che hanno a che fare con frecce e attrezzi dotati di punte. È invocato nelle epidemie, insieme a San Rocco. È considerato patrono di molte città e oggi dà il nome a tre comuni in Italia: San Sebastiano al Vesuvio (Napoli), San Sebastiano da Po (Torino) e San Sebastiano Curone (Alessandria). All’estero è molto venerato in Spagna, in Francia, in Germania e in Ungheria. Fu condannato a morte da Diocleziano per la sua fede cristiana, era un ufficiale romano che aiutava di nascosto i cristiani perseguitati. Anche nel Rinascimento e oltre era molto amato e venerato e moltissimi artisti illustri lo hanno dipinto (Foppa, Antonello da Messina, Perugino, Signorelli, Pollaiolo, Leonardo, Raffaello, Botticelli, Crivelli ed altri), ma tra tutti quello che più di ogni altro ne ha glorificato l’essenza umana e il dramma del dolore e il suo martirio è stato Andrea Mantegna (1431–1506). Se il disegno di Leonardo ci consegna una figura tormentata, legata a un tronco d’albero, Perugino ci consegna una figura sola e senza frecce, molto giovanile e delicato; il suo sguardo, rivolto languidamente al cielo, non denuncia sofferenza fisica. Giovane e rassegnato in mutande, con eleganti figure sullo sfondo e due aperture prospettiche quello di Antonello da Messina. Raffaello ci dà una versione ancora più elegante e intellettualistica, con vesti decorate e un’espressione che interroga e tiene in mano una freccia quasi come fosse una sfida, le tre versioni di Mantegna ci dicono ben altro. Tutte e tre le versioni, ci fanno vedere il Santo trafitto da una moltitudine di frecce, in tutte le versioni un elegante e sinuoso panneggio bianco, avvolge le parti intime del Santo come se l’artista volesse dare un’ultima carezza al martire. Infine nelle versioni di Vienna e Parigi Mantegna gioca sulla prospettiva e la presenza di rovine ed elementi architettonici antichi, (vera novità e ossessione stilistica oltre alla prospettiva di Mantegna) mentre nell’ultima versione (Venezia) la prospettiva e gli elementi decorativi architettonici sono assenti. Tutte le versioni colpiscono per l’imponenza fisica. L’anatomia del Santo è il pretesto per rappresentare un nudo artistico di ispirazione classica. Nella versione di Parigi, compaiono in primo piano due arcieri ritratti in maniera grottesca, iperrealistica (si vedono persino i peli della barba). Nel dettaglio delle rovine notiamo un piede, resto di un’antica scultura romana di cui Mantegna era collezionista. Da notare a mio avviso come i muscoli pettorali e addominali ricordano quello del Cristo morto di Brera, e come l’imponenza scultorea della figura di nudo classico è sempre più evidente tra la prima versione e l’ultima. Evidenti anche le analogie tra la flagellazione del Santo e le crocefissioni o deposizioni di Cristo che mettono in evidenza la correlazione delle sofferenze tra Cristo e l’Uomo, sempre al centro delle riflessioni filosofiche dell’Umanesimo e degli Artisti Rinascimentali. Un’ultima annotazione prima di lasciarci: nelle prime due versioni Il Santo è fermo, immobile, poggia i piedi a terra su una lastra di marmo o di rovine antiche, mentre nell’ultima versione, mette il piede fuori dalla cornice, i panneggi svolazzano e danno l’idea del movimento, il martire sembra essersi liberato dalle sofferenze e scendere a terra, venirci incontro e iniziare un nuovo cammino verso un nuovo paradiso divino. Mantegna nei suoi lavori, sembra mettere insieme il senso della pietà di Giovanni Bellini, la forza classica dei nudi michelangioleschi, la dinamicità di Paolo Uccello e il suo amore per le antiche rovine e sculture romane e l’archeologia classica»

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In conclusione il libro di Di Poce, al di là di mostrarsi come utile compendio delle vite e delle opere dei geni del Rinascimento italiano, ritrova con leggerezza quelle intuizioni estetiche che hanno tracciato un segno originale e perturbante nella storia mai conclusa della bellezza dell’atto artistico, dall’Uomo Vitruviano alla Città ideale, influenzando in modo determinante l’arte contemporanea.

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