LA FUNZIONE DEL VENTO

La funzione del vento. Appunti di Leonardo Sinisgalli per un articolo sulle forme del linguaggio. (1967).

Joseph William Turner

*Il testo è tratto da: Marco Ercolani, Lezioni di eresia, Graphos, Genova 1996.

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Credimi. L’arte non può agghindarsi con troppa cipria. Deve dimenticare gli aggettivi lussuosi e i nomi altisonanti e scorrere anonima, come un filo d’acqua sul bordo del muro. Acquattarsi, come un piccolo animale. Insinuandosi tra le costole e respirare piano. Trasformare il tempo. Togliere il ritmo, come quelle malattie che arrestano il respiro e il battito cardiaco. La natura è l’innaturale, e noi le marionette legate al suo filo, gli esecutori di quel folle progetto a cui dobbiamo solo obbedire. Se l’arte ferma il tempo in alcune forme riconoscibili è perché domani o fra mille anni qualcuno tocchi il giocattolo e il giocattolo per magia sprigioni tutta la vita che gli si era addensata dentro. Un po’ come il vento, quando entra nel fogliame di un albero e lo scuote tutto. Lo stormire è sempre antico ma le foglie non continuano a nascere e a morire?

La narrazione orale nasce il giorno in cui il ragazzo appare nella valle e grida “al lupo, al lupo” e tutti accorrono e il lupo non c’è e il ragazzo ride dello scherzo perché hanno inventato una storia; da allora ripeterà infinite volte la sua menzogna, e non importa se la gente ci crederà o non ci crederà. Tra il lupo vero del bosco e il lupo falso del racconto c’è tutto un caleidoscopio di storie, un prisma luccicante – c’è la letteratura che ti fa nascere tra le ossa un brivido sottile. E alla fine si sa che il falso lupo non sia più vorace di quello vero!

L’opera in tutta la sua architettura è solo il mantello lussuoso che riveste un piccolo lutto della nostra vita privata – una penosa sofferenza intorno alla quale abbiamo fatto ruotare scrivendo cosmi e galassie e pianeti, riorganizzando il mondo e reilluminandolo dall’interno. Ma sempre a partire da quel piccolo dolore. Punctum dolens ben serrato nel cuore, ben chiuso tra le costole. Una casa oscura da nascondere con grazia. Un nido nel quale nidificare svianti e sinistre architetture, se si vuole evitare il vergognoso destino di essere troppo presto capito e divorato e dimenticato.

Credimi. Nostro compito è conservare intatto il segreto ma rimandarne un cenno – indiretto, sfuggente, interpretabile ma inequivocabile. Tommaso Campanella fece dipingere sui muri di una stanza la luce di un sole e di un luna falsi, e impose al papa che temeva di morire durante l’eclisse di restare chiuso lì dentro per tutto il tempo che il sole sarebbe stato oscurato. Il papa obbedì e si riparò in quella stanza sacra rischiarata dalla luce falsa degli astri. L’eclisse passò e lui non morì. L’artificio del filosofo mago gli aveva salvato la vita. La menzogna può salvare, può rendere felici. Inventare nuovi verbi, nuovi snodi, altri racconti.

Dire “messaggero” non significa nulla. Ma, se scrivi la frase “Trasmise il messaggio” nella pagina sii apre un grande buco bianco, in cui l’eco della frase continua a vibrare. Scoprire nuovi verbi. Non aggettivi o sostantivi, ma verbi. Il verbo è la sola parola che ha senso per l’uomo. Trascina storie, eventi, stupori. Suscita impennate ventose, giudizi, idee. Inventa tempi. A nessuna frase è estraneo il movimento che le imprimiamo o le togliamo. Ricordo Keats: “la lepre zoppicava tremando sull’erba gelata”. In questa frase quanto fa rabbrividire è proprio il verbo: la lepre “zoppica”. Pensiamo la stessa frase senza il verbo: perde tutta la sua pietas. “Una lepre, nell’erba gelata”: il messaggio è universale ma statico. Un appunto di poetica, un haiku da monaco zen. Ma lo zoppicare, l’anima, il movimento – non ci sono.

Il verbo è la nostra posizione nel pianeta. È l’umano, colto nelle sue vibrazioni. È il modo in cui guardiamo il mondo. Ogni città immaginaria è un’architettura armoniosa e consolante: ma io ricordo, in quella chiesa di Tuscania, la cripta tenebrosa, fitta di capitelli tutti diversi, una selva intricata e intrigante, e in quella selva immagini mille costruttori diversi intrecciare i loro stili con diversi legami, essere se stessi, ma senza rapporto con nessuna regola, e muoversi fra un capitello e l’altro facendo fluttuare l’attenzione sui suoni dell’aria e sui riflessi dei colori che avevano illuminato la cripta.

Chiesa di San Pietro, Tuscania

Il verbo, in letteratura, rende visibile questa fluttuazione. Il verbo ha, in qualche modo, la funzione del vento. Lo scrittore che usa bene il verbo, con i tempi giusti, ti porta nel cuore della terra ignota, alle soglie del tuo piccolo segreto – quello che ti spingerebbe a uccidere o rabbrividire o lanciare un grido di dolore o di gioia. Il vento trasforma le strade e i dolori e così il dolore diventa racconto di un racconto.

Lo scrittore vigila sui verbi e si spoglia degli aggettivi. Quando è immobile, sulla scena della sua paura gli aggettivi crescono, si accumulano fin quasi a soffocarlo; quando invece vede la mèta e comincia a camminare, la sua prosa si scioglie, il vento si alza, i paesaggi mutano i contorni. E allora la città diventa proprio la città del vento, quella di cui non si possono fissare i confini, ma che è sempre fra i nostri occhi e le nostre mani; la pietra diventa opaca e limpida, le case si incrociamo e sprofondano in pozzi, i pozzi diventano strade, le strade finestre, le finestre porte, e le porte, alla fine, segni nel buio; e nella memoria resta, mentre guardiamo la metamorfosi del cielo e della materia, un solo verbo, così difficile da ripetere senza lacrime, un verbo in cui si racchiude anche il mistero del silenzio – mutare.

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Leonardo Sinisgalli

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