NANNI CAGNONE: UNA PAROLA PREMUROSA. Elio Grasso


*Con un altro titolo, La memoria del mondo, e in una versione diversa, il testo è stato pubblicato in: AA.VV, Sotto la superficie. Letture di poeti italiani contemporanei (1970-2004), a cura di Gabriela Fantato, Bocca editore, Milano 2004.

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Nanni Cagnone. Una parola premurosa (Poesie 1993-2002)

Non lasciamoci ingannare. La poesia andrebbe considerata per quello che è: parola premurosa, parola pungente, parola che modifica in bene il carattere. Il carattere di chi scrive, soprattutto. E Nanni Cagnone non manca di testimoniarlo in Anima del vuoto e Avvento, pubblicati entrambi da Palomar, nel 1993 e nel 1995. Non lasciamoci ingannare dall’apparente svagatezza quotidiana, la poesia è più tenace di quanto in genere si crede, e si diffonde, spesso assecondata, nelle nostre città e nelle nostre case a ogni ora del giorno.

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Cagnone sa che è possibile “scroccare” alla confusione quel che di buono osserviamo per le strade delle nostre città (oltre che per le autostrade psichiche): chi ha visto il film Smoke, sceneggiato da Paul Auster, con Auggie il tabaccaio impegnato ogni giorno, alla stessa ora del mattino, a scattare fotografie dall’identica inquadratura, sa cosa voglio dire. Così la parola viene con peso lieve ma preponderante, viene e quasi mai siamo capaci di descriverla. Non ci sono trattative ma è necessario porsi nella sua evidenza. In queste poesie sostiamo di fronte a una parola che dona incontri, nozze, corredi vitali cui nessuno dovrebbe rinunciare, pur insegnando la rinuncia (“Nell’alto traffico del sole / si narrano vicende nuvolose, / e dentro un odio un amore / che avviene oltremare.”). Ma si tratta di un abbandono del colmo, della pienezza che porta via, che fa smarrire. E in un inverno come questo non si dovrebbe mai stare. A meno che sotto la neve non avvengano modifiche, fruttino consistenze. La stagione successiva sarà ancora più cruda, ma avremo una “piccola scorta” per andare alla guerra con la speranza che questa finisca. Conoscere l’acqua vuol dire conoscere la brina e la neve. Nell’opera di Cagnone la conoscenza dell’attesa è la conoscenza dell’avvenimento (“Anima del vuoto, / cagionevole: / bastasse allontanarsi / per vedere / intere figure, / non avrei queste rovine / nello sguardo, non / questo battito oscuro.”). Sotto la pioggia meglio si scorgono i profili che si spostano sulla terra. In Avvento, così come in Anima del vuoto, ci si muove, la parola viene mossa, per “raggiungere il confine che assorbe il viaggiatore”: così sono salvate le distanze e le terre. Non si tratta di un qualunque elenco di timori, d’incertezze o di simulacri. Bisogna essere disposti verso l’eco e ancora di più verso le rocce che lo rimandano, migliorando il carattere di uno scrittore, di un lettore, di un amante. L’animo si rivolge senza avversione all’Oriente di una letteratura che forse può salvarsi (“Qualora / tornasse una luce / su tratti di via, / potrebbero andare / con piccola scorta / verso la fine / di una guerra – …”). In questi libri c’è il mattino da capire, così come si possono capire tutti i mattini del mondo quando la terraferma si libera improvvisamente dell’alba. Un transito tra la notte e il giorno va presto eliminato, va eliminato quotidianamente, perdendo la luna. Con questa tendenza la poesia si scriverà ancora. E si leggerà. Prima di giungere impreparati al crepuscolo, Cagnone suggerisce di non abbandonarsi di fronte alla difficoltà della lingua (“Se sarò il medesimo, / preso ancora nei turbini, / dovrò presto discolparmi / della lingua, / per averla sciolta / dal bruciore incurabile / del tempo.”). Come viventi, dobbiamo muoverci nei difetti della ragione e delle figure: sono difetti e figure di tutti. Lasciamo che le forme ci facciano quel che devono, una volta inventato un nome per loro.

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Leggo “Per somnium, stasera”, discorso tenuto all’Università di Parma nel 1994, e mi ritrovo immediatamente in una rara intelligenza delle cose, in un elogio non punitivo del sacrificio. In questo, dimora l’accettazione delle parole non nostre, tenendo di continuo sotto lo sguardo la dolce presenza del linguaggio. La poesia – come le immagini fermate sulla pellicola dal tabaccaio Auggie – nasce esattamente qui (“Un giovane poeta dovrebbe avere cura più del suo carattere che della sua scrittura; non dovrebbe farsi incantare dall’avvenenza del linguaggio ma confidare nella sua qualità asintotica. Un giovane poeta dovrebbe cercare nelle cose parole non sue, dovrebbe pensare nel percepire; non dovrebbe adulare il linguaggio o soccorrere il senso; dovrebbe essere incostante e tenersi lontano dai fatti, poiché essi non sono incontentabili.”).

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Nel 1999, Nanni Cagnone prosegue la sua vicenda poetica, a 24 anni dallo storico What’s Hecuba…, con un libro in cui unisce due poemi che stanno l’uno all’altro come la terra e l’acqua, la forma della realtà e il suo tempo storico: il primo è The Book of Giving Back, scritto nel 1995 e pubblicato in edizione bilingue nel gennaio del 1998, con la traduzione inglese di Stephen Sartarelli; il secondo, Il popolo delle cose, scritto fra il 1996 e il 1997. Le note che seguono il primo poema ci spiegano molte cose sulla terra d’origine dell’autore, sulla sua famiglia e su certi paesi di frontiera della natia Liguria, compresi i dialetti locali. Quest’opera è, infatti, l’oggetto del ritorno che il poeta di Armi senza insegne (una sorta di “Collected Poems” 1973-1987) accosta per rendersi vivo e utile alla terra, al sottosuolo, alla propria vitalità. E’ con esso che l’origine medesima diventa storia di un paese, Altare, di una stirpe (Homines de Altari) e di due fratelli che sopraggiungono al ponte – ai più sconosciuto ma importantissimo per i Liguri – di Dusàiga (Dolceacqua). Cagnone, dopo alcuni libri in cui la metafisica di John Donne si è macerata allo spasimo, ed è giunta – senza mezzi termini e con parole che sanno muoversi – fino ai campi astratti di Wallace Stevens (lo notava molto bene Fernanda Pivano in una recensione apparsa sul “Corriere della Sera”), ha pensato di approdare a un paese favoloso per antichità, ma raggiungibile per via d’acqua: e lì trovarvi qualcosa che sappia come fare per diventare il copione di una colonna sonora d’anima jazz (“Sul mio onore, signori, / questo è un tramonto, / e a riguardarlo / – secolo dopo secolo – / ci si può immaginare / sconfortati e soli. // A chi tutto ricopre, posso dire / che vorrei con me le notti di Mentone / – quelle scale d’acqua verso il buio – / o invece non devo nominarle, affinché un’età dietro si abbassi…”). Un lungo piano-sequenza dai molteplici respiri, senza un attimo di apnea o di mancata prosecuzione del passo. Attraverso questa inquadratura, coglie la cura delle parole così come si curano, sovranamente, il nespolo e la rosa, attenti alla spinta ferma della brezza di mare. E’ dentro questo microclima che la scrittura, liscia come un sasso di fiume, così felicemente misteriosa e semplice, sa parlare alle cose venendo da esse, attribuendo fedeltà a tutti gli intimi pensieri, annettendoli a quel luogo, ormai vuoto, che è stato paese di confine: duro, grigio, indispensabile.

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Dopo aver messo i piedi sulle orme della conoscenza, della rinuncia alla pienezza e al colmo che trascinano via (soprattutto con Anima del vuoto e Avvento), Cagnone aspetta altri segni dalla “variata memoria”, che possano sfamarlo, come il pane e l’olio, come l’ascolto, e che prendano la forma della poesia più amata, quella che non si concede ma che si trattiene nel tempo degli uomini. La visione diventa dialogo, parola detta quando i ricordi giungono a scegliere la parte migliore del nostro giorno: “Era una di noi, profumo / di un nome di tre sillabe, / ma è divenuta mondo. / Molti hanno vissuto con noi / e poi sono andati.” Egli sapeva dove tornare, sa dove è tornato, così ha scritto “ciò che lo ha raggiunto”, annunciandosi con rigore pratico e distensione. Per questo può dire serenamente, con l’ultimo verso: “Avete sentito”. E riprendere la via nel “grembo di ciò / che non ricordo”: così inizia Il popolo delle cose, più di 2500 versi per un poema che sembra rivestire di forma il magma delle forze che poi danno vita all’universo visibile. Attraverso le parole, gli uomini passano per la frontiera, riconoscendo un luogo divenuto tale perché condiviso da più popoli, da più lingue, da più sguardi. Ecco dunque che ogni movimento diventa una corsa leggera, sentendo il proprio peso, ma agile sui talloni, come se lo slancio potesse sciogliere la lingua e le parole, la propria ricerca. Ed è così: è questa ricerca intorno al corpo che muove gli spazi, che alza la distanza fra suolo e nuvole, lavorando per bene sui caratteri di chi scrive e di chi legge (“Unica diletta, superficie / che t’innalzi nel riflesso: / Venezia, ultima regola / e disanimato riparo, / esercito di marmo / tra naviganti rami / acuto battito di selci / colori di dura sostanza…”) . Sognare diventa creare i passi e il terreno su cui portarli, deporre qua e là qualche bello sguardo, e andare ancora fin dove termina la notte (“Sarete ancora qui dopo il tramonto, / nelle stanze nelle nuvole / confusi in Occidente, mentre io / non saprò più niente della notte…”). Bello dunque abbracciare, usando le parole: gesto che, mi pare, Cagnone ripete ad ogni suo libro, in questo tempo che adesso si misura in decenni.

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I Doveri dell’esilio sono le ineluttabili poesie che Cagnone ci offre (ora siamo al 2002) nella maniera armonica di una maturità sempre più precisa, ma non per questo domata dagli anni, e dalla storia. Se leggiamo l’ultima sua prova narrativa, Pacific Time, ci possiamo rendere conto quanto lo spirito ironico, ma appassionato, dello scrittore qualche volta si stemperi in visioni di quieta dolcezza, di saggia commistione fra affabilità e disposizione scontrosa (le prodezze sessuali, descritte nel recente romanzo, vanno giù lisce come il più soave dei cocktail). Tutto questo, Cagnone l’aveva già dimostrato in quello straordinario “romanzo” (le virgolette qui sono necessarie) che è Comuni smarrimenti, uscito per Coliseum nel 1990 e che meriterebbe una ristampa in Pocket Edition. Lì i dialoghi fra i diversi protagonisti, abitanti il favoloso mondo di Runi, si esaltavano fra le più mistiche banalità del quotidiano (amori, tradimenti, pettegolezzi, licenziosità) e la franca nudità di aforismi venuti da chissà dove (per es.: “I libri, servono solo a ricordare le parole”). Ma tornando ai versi di Doveri dell’esilio, mi rendo conto che quasi ad ogni pagina la rilassata precisione estetica rende buon servizio al presente poetico di Cagnone (“Dopo tutto, / dietro di me / non si potrà vedere / un’opera – qualcosa / che si attardi, / narcotico e tempesta / o infetto respiro. / Solo / un vagare nei prati / che già dalle finestre, / solenni di rugiada / stagni di brina – / invisibili / a chi prepara / lunghi viaggi / sotto la stessa luna.”).

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Dai tempi di Andatura, libro che un poco indietro è rimasto con le sue intransigenze e ipotesi negative sul da farsi, troppo legato ad una lucida rinuncia (non a caso l’autore ha evitato di raccoglierne alcune parti nel volume antologico – per certi versi “definitivo” di una stagione – Armi senza insegne) del mondo, le figure sono liberate in luoghi riconoscibili fra mare ed entroterra, in eventi amorosi sciolti fra lagune pescose e pianure coltivate. Il mondo, finalmente, raggiunge la vita familiare, magari non famosa, restia a far sciamare dolori o felicità, ma pur sempre chiaramente visibile dietro una porta socchiusa. Cagnone ora ne permette la vista, pur negli “spericolati respiri” che s’indovinano in certe traiettorie improvvisamente paraboliche dei versi. Si assumono responsabilità concrete, certe poesie, per questo non ci sarà mai per Cagnone un esilio sterile, un’interminabile serie di passeggiate all’Elba (“Se provi a nominare / chi non si è mai mosso, / lo vedi: è aria che si perde. // Non puoi aspettare / che prima di te / questo cremisi / ancora una volta / sia cremisi?”). Ci sono orgogli che giungono da diverse fonti, in Doveri dell’esilio, dalle cose e dalla loro interpretazione, dai suoni, e dall’attesa di un saluto da parte di una figlia interpellata (“Figlia, ora / sembrano a me / le tue figure / come un’amicizia / nel guardare…”). Ne sono intrecciati foglie, alberi, distese d’acqua, le parti mobili che disegnano il mondo, e mai del tutto accettate, mai del tutto abitate per sempre. Ancora una volta Cagnone stabilisce le regole di un “salvaguardante esilio”, dove l’uscita c’è di certo ma lui non esce, e dove le entrate hanno a che fare con l’esercizio di separazione che non smette di azionare i meccanismi della poesia. In questo caso, ormai da decenni, gli ingressi tengono fuori ceneri “più attraenti”, ed essendo ingressi, talvolta qualcosa traspare: “Ostinato parlare / quando una bufera / porta via la voce…”

Settembre 2002

Elio Grasso

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BIBLIOGRAFIA di Nanni Cagnone

What’s Hecuba to Him or He to Hecuba?, Out Of London Press, New York, Norristown, Milano 1975

Andatura, Società di poesia, Milano 1979

Armi senza insegne, Coliseum, Milano 1988

Comuni smarrimenti (romanzo), Coliseum, Milano 1990

Anima del vuoto, Palomar, Bari 1993

Avvento, ivi, 1995

The Book of Giving Back, Edgewise Press, New York 1998

Il popolo delle cose, Jaca Book, Milano 1999

Enter Balthazar, Edgewise Press, New York 2000

Pacific Time (romanzo), Es, Milano 2001

Doveri dell’esilio, Il Cobold-Night Mail, Genova 2002

Nanni Cagnone

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