ESSERE PRESENZA. Yves Bonnefoy

* Il testo è tratto da: Yves Bonnefoy, Osservazioni sul disegno. Il disegno e la voce (traduzione di Margherita Belardetti), Pagine d’arte, Bellinzona 2010 (edizione originale Remarques sur le dessin, Mercure de France, Paris 1993).

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Come Cézanne, che ogni giorno si incamminava verso la montagna Sainte-Victoire, Cézanne voleva solo rappresentare – così credeva e si ostinava a credere – voleva solo fare apparire, anche con il colore, con i valori cromatici, ciò che vedeva con i suoi occhi: ma ciò che otteneva non lo soddisfaceva mai, perché era esteriorità, separatezza, perché in esso mancava l’Uno, che egli percepiva grazie a un occhio più profondo.

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E questa ostinazione sta a significare come tutto, in Cézanne, si giocasse entro il disegno. Contro il suo colore, dove si esprime il desiderio di apparenza, di bellezza, di piacere, entra in gioco una forza severa, quella che conosce unicamente la Presenza, magnete situato là in basso, là in alto, là in cima, o meglio dentro di essa, talmente addentro da far sì che non se ne veda più il sembiante. Il cuore del quadro sta in questo crinale che si interrompe, riprende, si spezza di nuovo, tratto che si assenta dal tratto per significare – anzi, meglio, per essere – Presenza.

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…E Cézanne, che infranse la tradizione secolare di una pittura venuta a patti con un discorso – e lo scotto, per gli artisti, era di non valere se non tradendo questa promessa-, Cézanne che ritrovò in tal modo l’arte epifanica dell’Alto Medio Evo, di Bisanzio. Cézanne, così facendo, parla come ben pochi altri pittori moderni alla poesia di oggi, la quale a sua volta non ha altro valore, a mio avviso, se non quello di mera testimonianza, in questo nostro tempo periglioso in cui, gettati dal bossolo del desiderio di scienza, i dadi delle parole rotoleranno, esiteranno, lucenti, meditabondi – prima di fermarsi a un limite estremo che non sarà, ahimé, altro se non l’indifferente doppio sei della materia, infine dispiegata, senza luce, nel linguaggio.

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C’è un eco di Cézanne, riecheggiato da Giacometti, nella poesia contemporanea. Una montagna che vi affiora, non certo rappresentata, cima fatta tratto che piace vedere interrompersi, ma non tanto per effetto delle nubi del cielo fisico, quanto piuttosto per via della nube – addossata a essa, condensata al fianco di ciò che è – dell’inconoscibilità. Tratto che non ha altra ragione o apporto che non sia l’essere soglia di una luce che resta sola. Tratto tuttavia profondamente fecondo: perché è proprio grazie a questo approccio, dapprima negativo, che rifluirà la forza vitale capace di farci amare le cose terrene e trovar loro non non più un significato, ma un senso. Occorre che l’Essere si metta a nudo perché l’esistere giunga alla sua pienezza.

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