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Fra gli artisti contemporanei su cui Derrida ha avuto occasione di scrivere, Jean-Michel Atlan è forse il più anziano, essendo nato nel 1913. Tuttavia un primo elemento che li accomuna è costituito dal fatto di essere entrambi ebrei di origine algerina. Inoltre il fatto che Atlan, come si desume dai titoli di molte sue opere, tenga presente una lunghissima tradizione culturale, che per un verso parte da Omero e per l’altro dalla Bibbia ebraica, non poteva che esercitare – assieme ovviamente alle qualità formali dei dipinti – una forte fascinazione sul filosofo. Non sorprende dunque che egli abbia accettato di scrivere l’ampio testo introduttivo per un libro sul pittore, Atlan grand format1. Il saggio, dal titolo De la couleur à la lettre, verrà poi ripreso in una raccolta postuma di suoi scritti sulle arti visive2.
Ricordiamo in breve che Atlan si trasferisce dall’Algeria a Parigi nel 1930. Al termine degli studi universitari, diventa professore di filosofia e inizia a dedicarsi alla pittura. Nel 1942 viene arrestato perché milita nella Resistenza. Dopo un periodo in carcere, riesce a evitare la condanna a morte, o la deportazione in quanto ebreo, solo fingendosi pazzo. Questo, però, fa sì che venga recluso nell’ospedale psichiatrico di Sainte-Anne. Alla Liberazione, può finalmente tornare all’attività pittorica e realizzare le prime mostre. Pubblica anche un libro di poesie, Le sang profond3. Più tardi, è tra i fondatori del movimento CoBrA, un gruppo di artisti sperimentali che come lui si muovono in uno spazio intermedio tra astrazione e figurazione. Nell’ultima parte della vita (Atlan muore nel 1960) la sua pittura acquista risonanza sul piano internazionale.
De la couleur à la lettre è un testo suddiviso in due parti, la prima delle quali ha la particolarità di essere stampata in corsivo e di adottare la forma del dialogo immaginario. Tale forma è assai cara al filosofo, che ad essa ha già fatto ricorso più volte4. Egli stesso ne ha chiarito le motivazioni: «Mi è capitato di scrivere deliberatamente vari testi a più voci […] e l’ho fatto ogni volta nel momento in cui mi era letteralmente impossibile tenere un discorso monologico. L’interlocuzione, la pluralità delle voci s’imponeva, in qualche modo, e io dovevo cederle il passo»5.
Nella parte iniziale del testo, Derrida affronta subito il nesso tra il colore e la lettera, basandosi sull’esempio del quadro Pentateuque (1958). In esso, egli scorge «strisce gravi, dense, potenti, scure, nere […], che esitano senza tremare fra disegno, pittura o scrittura»6. Il riferimento non è alla scrittura alfabetica, presente solo nella firma di Atlan riportata sulla tela, ma a quegli spessi tratti neri che costituiscono l’elemento più caratteristico dei dipinti dell’artista, e che si prestano anche ad essere visti come «spire di scrittura, geroglifici o ideogrammi»7.

In molti casi, il soggetto del quadro viene, se non indicato, quanto meno evocato dal titolo. Benché possa lasciare perplessi il fatto che dipinti assai simili fra loro rechino, a seconda dei casi, un’etichetta neutra (Sans titre) oppure una significativa, l’artista considera utile ricorrere alla seconda soluzione, ritenendo che «il titolo dia allo spettatore un suggerimento, un’indicazione», e aggiunge: «Nel mio caso, ciò che mi sembra accompagnare al meglio il quadro è una suggestione “poetica”, a metà strada fra ciò che rischierebbe di ispessire – o di chiarire – il “mistero” delle mie forme. […] Per evitare, inoltre, di cadere in una letteratura complicata o un simbolismo pretenzioso, mi rifugio spesso in una geografia poetica: Calcutta, Sahara, Asia, ecc., nomi che evocano nel contempo paesi, paesaggi e miti. Talvolta, anche, faccio ricorso a un vocabolario per l’appunto mitico, ma non troppo pedante, del genere Eleusi, Zohar…»8.
Tutto ciò risulta congeniale al filosofo, dato che il suo approccio ai dipinti non è di tipo tecnico, da critico d’arte, bensì consiste nel seguire le associazioni d’idee suscitate dall’immagine raffigurata o dal titolo dell’opera. Egli lo ammette in maniera esplicita, parlando di un «sognatore» che lo accompagna o che è parte di lui, sempre pronto ad accogliere le suggestioni poetiche proposte dall’artista e a giocare con esse. Ad esempio, ritenendo che i tratti neri del dipinto citato delineino una figura per qualche aspetto animalesca, Derrida scrive che, «grazie al titolo, Pentateuque, il sognatore proietta nella scena così intitolata una sorta di zoologia regale, la visione, sì, la visione di una teo-zoologia politica: un nobile animale, un dio forse, un signore sovrano, un vivente an-umano»9. Ed è sempre il sognatore ad avvertire una specie di terrore sacro di fronte all’emergere, da un retroterra pagano, dell’immagine di un Dio unico.
Il filosofo si chiede quale scena descritta nel testo biblico potrebbe corrispondere a Pentateuque. La individua nel momento in cui Jahweh detta i dieci comandamenti, mentre gli ebrei, impauriti, si rifiutano di ascoltare direttamente la voce divina e chiedono a Mosè di far loro da tramite: «Parla tu a noi e ti ascolteremo; ma non ci parli Elohim, affinché non ne moriamo»10. In questa volontà di non prestare orecchio a Jahweh si potrebbe anche intravedere un latente desiderio deicida: «Qual è il proposito di tale interruzione se non quello di dare la morte, col pretesto di proteggersi dalla morte […]? I figli d’Israele non stanno forse già premeditando una qualche morte di Dio? E proprio all’avvento del Dio unico, fin dal suo primo manifestarsi?»11. Un’altra delle voci del dialogo interviene obiettando che gli ebrei non intendono privare Jahweh della parola, né contravvenire al precetto che vieta loro di fabbricarsi degli idoli: «In verità, la lezione manifesta del Pentateuco è un’altra. Non si tratta per i figli d’Israele di togliere la parola a Dio, di adorare soltanto un idolo afasico, di coltivare l’immagine, il colore o la pietra intagliata»12. Ma è ancora un’altra voce a sostenere che gli ebrei, benché rinuncino a confrontarsi frontalmente con la divinità, desiderano pur sempre vedere e ascoltare qualcuno, ossia Mosè: «Tra l’invisibilità immensa o sublime dell’Altissimo e l’umiltà terrena del popolo, ebbene, la grandezza umana, la taglia imponente, il grande formato visibile di Mosè assicura una transizione storica e sostenibile»13.

Come si vede, il procedimento polifonico permette a Derrida di avanzare nel contempo ipotesi non soltanto diverse, ma anche in contrasto fra loro. Così, a una voce che chiede se il sognatore non stia cercando di convertire l’arte di Atlan in una pittura religiosa ebraica, un’altra replica dicendo che Pentateuque non è l’unica opera a implicare nel titolo un richiamo all’Antico Testamento. Si potrebbero citare a riprova Sinaï (1957), Jéricho, Sodome, Le Livre des Rois I (1958), Les miroirs du Roi Salomon, Les murailles de Jéricho, Le Livre des Rois II (1959). Certo, esiste il rischio di cadere nel tematismo, lasciandosi suggestionare dalle denominazioni dei quadri al punto da trascurare la loro componente propriamente pittorica, a cui invece dovrebbe spettare il ruolo principale. A tale critica, il filosofo risponde: «Beninteso, è al di là di ogni tematica che si dispiega la forza, e si inscrive l’evento di tali opere. E innanzitutto i loro colori, se non i loro tratti. Ma il pericolo del tematismo insidia fatalmente ogni discorso, sognante o meno, su questa pittura, soprattutto se si prendono a pretesto i titoli. Fatalmente perché nessun discorso si libererà mai da ogni tematizzazione. Ogni parola, ogni concetto, fa sorgere un tema. Ma si può ancora giocare d’astuzia, si può fingere di cedere al tematismo per fare dell’altro, tutt’altro. Qualcosa di non-tematizzabile. Come se si parlasse del colore alla lettera, delle sue forme e della sua forza alla lettera»14. Tornando dunque alle componenti religiose della pittura di Atlan, al filosofo sembra lecito asserire che in essa la parola divina non si è ammutolita, ma si esprime ancora, sia pure soltanto nella forma di «una voce di sottile silenzio». L’allusione è all’episodio biblico in cui il profeta Elia, mentre cerca di sfuggire a una minaccia di morte, giunge al monte Horeb. Lì gli viene concesso di assistere al passaggio di Jahweh, che si manifesta dapprima con un vento impetuoso, poi con un terremoto, poi ancora con un fuoco e infine tramite «il mormorio di un vento leggero» (un’altra possibile traduzione è appunto «una voce di sottile silenzio»)15.

Nella seconda parte del testo, stampata in tondo e non più affidata alla tecnica del polilogo, Derrida esordisce giocando sul cognome del pittore, e asserendo che Atlan è un artista «che, senza dubbio, mette al mondo il mondo dopo averlo concepito, e non è lontano, al pari di Atlante [Atlas], dal portare il mondo»16, o piuttosto dal sorreggere la volta celeste, come il titano del mito greco. Diceva infatti Esiodo: «Atlante il cielo ampio sostiene, a ciò costretto da forte necessità, / ai confini della terra, di fronte alle Esperidi dal canto sonoro, / con la testa facendo forza e con le infaticabili braccia; / tale destino assegnò a lui Zeus accorto»17. Atlan non esita a porsi di fronte alla «Grandezza debordante, quella del gigantesco Atlante [Atlas] o quella del Grand Roi Atlante (1956), un divino animale incoronato sul suo trono»18.
Proprio la questione della grandezza, intesa in senso letterale o figurato, induce Derrida a tornare sul tema del sublime, che aveva già affrontato parecchi anni prima in riferimento a Kant19. Dopo un richiamo alla distinzione kantiana tra sublime matematico e sublime dinamico, il nesso con le opere di Atlan viene indicato così: «Il sublime matematico qualifica la grandezza assoluta, al di là di ogni misura, di ogni comparazione, e anche di ogni valutazione sensibile della taglia (grande o piccola, per esempio grande o piccolo formato […]; ma il “grande formato” può far segno verso il “fuori formato” del sublime)»20. Al sublime il pittore si avvicina anche tramite i temi dei quadri, che sono spesso tali da coinvolgere, come direbbe Kant, qualcosa «che è quasi troppo grande per ogni esibizione»21. Ma, secondo Derrida, la pittura di Atlan è partecipe nel contempo del sublime dinamico, giacché suscita in chi la guarda una specie di timore. Scriveva infatti il filosofo di Königsberg: «La natura, per la facoltà estetica di giudizio, in tanto può valere come potenza, cioè come sublime in modo dinamico, solo in quanto essa è considerata come oggetto di timore»22. Lo stesso accade di fronte alle opere dell’artista, ossia «davanti al grande formato di questi immensi soggetti, di questi giganteschi getti di colore, davanti a queste strisce morbide e tese, davanti alla coreografia di queste lettere annodate»23.
Il filosofo vorrebbe potersi rapportare ai dipinti come se Atlan gli fosse sconosciuto, «introvabile, inghiottito, sommerso, come Atlantide»24. Per questo nuovo gioco sul nome del pittore, il riferimento è al passo platonico in cui si narra che, dopo vari cataclismi naturali, «l’Isola Atlantide, […] sommersa dal mare, scomparve»25. Il fatto di prescindere dal soggetto dei quadri obbligherebbe a descrivere questi ultimi in sé, cosa peraltro auspicata dall’artista, il quale ha sottolineato l’opportunità di una considerazione dei suoi lavori basata innanzitutto sui dati di natura formale: «L’enorme controsenso in cui si incorre di solito, sta nel supporre che, tolto il soggetto, non rimanga più nulla, mentre sussiste l’essenziale delle qualità plastiche da cui dipende il valore dell’opera»26. Tuttavia il filosofo pensa di non essere all’altezza di un’analisi del genere, e sembra anzi dubitare che essa sia, a rigore, possibile: «Come descrivere, e come nominare, un colore? Come farlo senza figura, senza svolta tropica, ma alla lettera, letteralmente? Per esempio il suo “nero” che non è un nero, che è nero al di là di ogni nero conosciuto? […] Io mi sento incapace di nominare un colore di Atlan, non mi sento autorizzato né abilitato a farlo»27.
Derrida, però, avverte l’esigenza di non chiudersi nel mutismo, in quanto le opere dell’artista lo inducono comunque a pronunciarsi in proposito. Gli piacerebbe, ad esempio, «riconoscere, attraverso tali quadri, una storia spettrale delle religioni tra l’Asia, la Grecia e il Medio Oriente biblico […], come se si dovesse ricostruire una narrazione, per coniugare nello stesso racconto sia la nascita dei monoteismi sullo sfondo di un paganesimo per sempre resistente, sia una certa origine della pittura»28. In effetti, i titoli dei quadri offrono vari spunti in tal senso, affiancando ai già citati richiami alla religione ebraica quelli ai miti greci, oppure a divinità babilonesi o fenicie. Per queste ultime, basti pensare ad opere come Baal guerrier (1953), Ishtar e Tanit (1958).
Tornando sulla questione del formato dei dipinti, il filosofo si chiede cosa accada, nella mente di un artista, nel momento in cui sceglie di utilizzare un supporto di certe dimensioni, ipotizzando che possa esistere un nesso segreto tra il soggetto evocato nel titolo e le misure (in questo caso, grandi) della tela. Ciò potrebbe anche essere correlato al nome proprio, il che spiegherebbe i molti personaggi o luoghi indicati, nei titoli, da Atlan. È come se le sue opere invocassero sempre un nome (magari il nome divino impronunciabile, in accordo con una specie di teologia negativa), persino nel caso in cui siano contrassegnate dalla laconica etichetta Sans titre: «Tale assenza di titolo vi lascia soli con il quadro, cioè anche con un “affetto”. Questo resta, in maniera intrattabile, prescritto dalle forze e dalle forme, dall’energia dei colori e dalla tensione dei nodi, dalla danza e dalla trance della “Cosa”, alias opera senza nome»29.
Il filosofo passa poi a trattare un tema che gli è caro, quello dell’ospitalità30. A suo avviso, è come se ognuno dei quadri dell’artista fosse per noi un ospite che ci fa visita e, al tempo stesso, chiede di essere ospitato. Egli cerca un segno di ciò nei tre dipinti dedicati da Atlan a una figura del mito greco, Calipso31. Questa ninfa o divinità, come si racconta nell’Odissea, soccorre il naufrago Ulisse e, innamoratasi di lui, lo trattiene nella propria dimora per sette anni. È lo stesso eroe greco a rammentarlo in prima persona: «All’isola Ogigia m’avvicinarono i numi, dove Calipso / vive, riccioli belli, dea tremenda; ella m’accolse, / e m’ospitò di cuore, e mi nutriva e voleva / farmi immortale, senza vecchiezza per sempre. / Ma il mio cuore nel petto non poté mai persuadere»32. Sempre incline a giocare sul cognome del pittore, Derrida non manca di far presente che Calipso era progenie del titano Atlante. Parlando di Ogigia, Omero dice infatti: «Una dea v’ha dimora, / la figlia del terribile Atlante, il quale del mare / tutto conosce gli abissi, regge le grandi colonne, / che terra e cielo sostengono da una parte e dall’altra»33.
L’esempio di Ulisse, dapprima grato alla dea che lo ha sottratto alla furia del mare e alla miseria, ma poi rattristato dall’essere quasi tenuto prigioniero, il che gli impedisce per molto tempo di riprendere il viaggio verso Itaca, mostra efficacemente che l’ospitalità può associarsi all’ostilità. In effetti, sostiene Derrida, «l’ospite (host o guest) è sempre l’ostaggio dell’altro»34. Solo per inciso egli suggerisce un possibile accostamento tra Atlan e un pittore coevo, Jean Fautrier – autore, fra il 1942 e il 1945, di un celebre ciclo di lavori sul tema degli Otages –, parallelismo reso possibile, più ancora che da analogie formali tra le rispettive opere, dalla «memoria dell’Occupazione o della Resistenza, esperienza che ebbero in comune»35. Ma soprattutto il filosofo coglie l’occasione per riprendere il dialogo di lunga data con un pensatore al quale, nonostante i punti di dissenso, si sente vicino, ossia Emmanuel Levinas. Nelle opere più note di quest’ultimo, si incontrano due formule lapidarie, con cui in apparenza Derrida dovrebbe concordare: «Il soggetto è un ospite» e «Il soggetto è ostaggio»36. Ma di fatto Levinas sta teorizzando un’accoglienza priva di ostilità, cosa a ben vedere irrealistica: «Questa ospitalità infinita, dunque incondizionata, questa ospitalità all’apertura dell’etica, in che modo la si potrà regolare in una pratica politica o giuridica determinata?»37. Secondo Derrida, ospitalità e ostilità restano inseparabili, mentre «per Levinas, al contrario, persino l’allergia, il rifiuto o l’oblio del volto vengono a inscrivere la loro negatività secondaria su un fondo di pace, sul fondo di un’ospitalità che non appartiene all’ordine del politico»38.

È importante ricordare che Levinas ha scritto un testo sulla pittura di Atlan39. Egli ravvisa nell’artista una «coscienza autentica della vera attività creatrice e dei suoi riferimenti all’assoluto, all’ultimo, della sua essenza tragica ed escatologica»40. Osserva Derrida che quando, nella parte finale del suo scritto, Levinas «parla della “nudità”, pensa senza dubbio alla vulnerabilità dell’ospite o dell’ostaggio»41. In effetti, in quelle pagine si leggono asserzioni come le seguenti: «L’arte ricerca la cosa senza vestito. […] La bellezza della cosa è la sua nudità, che è la sua vita. […]. Erotismo senza concupiscenza in cui l’interiorità dell’essere si offre come bellezza! […] Erotismo casto, tenerezza, compassione e forse misericordia che fanno pensare alla Bibbia»42. Tuttavia, se si osservano le figure vagamente antropomorfe suggerite dai tratti neri nei quadri di Atlan, si ha piuttosto un’impressione di forza e terribilità, che nulla ha a che vedere con tenerezza e compassione. Inoltre, «per Levinas, è come se la nudità nell’arte plastica non fosse ancora abbastanza nuda – salvo appunto, forse, nel caso eccezionale di Atlan che, senza mai dipingere alcun “nudo”, avrebbe raggiunto, pensato, messo in opera un’esperienza della nudità più nuda del nudo»43. Lo conferma un passo desunto da un’altra opera levinasiana: «L’apertura è la vulnerabilità di una pelle offerta, nell’oltraggio e nella ferita, al di là di tutto ciò che si possa mostrare, al di là di tutto ciò che, dell’essenza dell’essere, possa esporsi alla comprensione e alla celebrazione. Nella sensibilità, “si pone allo scoperto”, si espone un nudo più nudo di quello della pelle che, forma e bellezza, ispira le arti plastiche»44. Derrida non condivide questa tendenziale svalutazione delle arti visive, né del resto è d’accordo con l’idea secondo cui Atlan intende esprimere nelle sue opere un «erotismo casto». Ricorda anzi che l’artista non ha mancato di richiamarsi a Sade, parlando della nascita della forma in pittura: «In Juliette, dopo la morte (e lo stupro) di Justine, il marchese de Sade scrive che un violento temporale si annunciava nel cielo: “Si sarebbe detto che la natura volesse distruggere tutto per ricreare delle forme nuove”»45.
Nella parte finale del suo testo, il filosofo ribadisce che i dipinti di Atlan si situano «sulla frontiera che sembra nel contempo separare e associare le memoria pagane e le memoria abramiche (ebraica, cristiana, musulmana), le mitologie dell’Europa e le altre»46. Ma ogni singola opera del pittore è unica, va pensata e fruita a sé, senza evidenziare troppo gli elementi di ripetizione e di serialità. Ciò che emerge in ciascun dipinto è «atto di nascita, forza e forma di un canto, incantesimo danzante che si annoda, letteralmente, una sola volta per tutte. Poetica e coreografica al tempo stesso, l’opera ti attrae […]. Sei stato furiosamente desiderato da questa pittura, gelosamente amato da essa, tutto solo, tu tutto solo, perso fra queste lettere animali o divine»47. Come si vede, nel suo saggio Derrida non esita a mettere in luce il significato generale, persino mitico-religioso, che l’arte in certi casi può assumere, anche quando dà luogo a immagini che non sono propriamente di carattere figurativo, ma quasi di natura pittografica o ideografica. Del resto, conviene sempre ricordare, al riguardo, l’illuminante asserzione di un altro artista, Paul Klee: «Scrittura e immagine, lo scrivere e il figurare, sono fondamentalmente tutt’uno»48.
1 Jacques Derrida, Atlan grand format, Paris, Gallimard, 2001. Il riferimento al formato vale non soltanto in relazione ai quadri di Atlan riprodotti a colori nel libro, ma anche al volume stesso, che è insolitamente grande (37 x 30 cm.).
2 De la couleur à la lettre, ibid., pp. 8-27, e in J. Derrida, Penser à ne pas voir. Écrits sur les arts du visible 1979-2004, Paris, Éditions de la Différence, 2013, pp. 217-241 (tr. it. Dal colore alla lettera, in Pensare al non vedere. Scritti sulle arti del visibile 1979-2004, Milano, Jaca Book, 2016, pp. 231-254).
3 J.-M. Atlan, Le sang profond, Paris, L’Atelier de la Salamandre, 1944.
4 Cfr. J. Derrida, Pas (1976), in Parages, Paris, Galilée, 1986, pp. 19-116 (tr. it. Non/Passo, in Paraggi. Studi su Maurice Blanchot, Milano, Jaca Book, 2000, pp. 83-174), Restitutions – de la vérité en pointure, in La vérité en peinture, Paris, Flammarion, 1978, pp. 291-436 (tr. it. Restituzioni – della verità in «pointure», in La verità in pittura, Roma, Newton Compton, 1981, pp. 245-357), En ce moment même dans cette ouvrage me voici (1980), in Psyché. Inventions de l’autre, Paris, Galilée, 1987, pp. 159-202 (tr. it. In questo medesimo momento in quest’opera eccomi, in Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. 1, Milano, Jaca Book, 2008, pp. 173-224), Feu la cendre (1984), Paris, Éditions Des femmes, 1987 (tr. it. Ciò che resta del fuoco, Firenze, Sansoni, 1984), Lecture, in Marie-Françoise Plissart, Droits de regards, Paris, Éditions de Minuit, 1985, pp. I-XXXVI.
5 J. Derrida, Passages – du traumatisme à la promesse (1990), in Points de suspension. Entretiens, Paris, Galilée, 1992, p. 407.
6 De la couleur à la lettre, cit., p. 218 (tr. it. p. 232; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
7 Ibidem.
8 J.-M. Atlan, Les dits du peintre, in Atlan grand format, cit., pp. 151-152.
9 De la couleur à la lettre, cit., p. 219 (tr. it. p. 233).
10 Esodo, 20, 19, in La Sacra Bibbia, tr. it. Milano, Garzanti, 1964, p. 129.
11 De la couleur à la lettre, cit., p. 223 (tr. it. p. 237).
12 Ibidem.
13 Ibid., p. 225 (tr. it. pp. 238-239).
14 Ibid., p. 226 (tr. it. p. 239).
15 Cfr. Primo libro dei Re, 19, 12, in La Sacra Bibbia, cit., p. 490.
16 De la couleur à la lettre, cit., p. 228 (tr. it. p. 241).
17 Esiodo, Teogonia, vv. 517-520, tr. it. Milano, Rizzoli, 1984, p. 97.
18 De la couleur à la lettre, cit., p. 228 (tr. it. p. 241).
19 Cfr. J. Derrida, Parergon, in La vérité en peinture, cit., pp. 19-168 (tr. it. Parergon, in La verità in pittura, cit., pp. 19-140).
20 De la couleur à la lettre, cit., p. 228 (tr. it. p. 242).
21 Immanuel Kant, Critica della facoltà di giudizio (1790), tr. it. Torino, Einaudi, 1999, p. 89.
22 Ibid., p. 97.
23 De la couleur à la lettre, cit., p. 230 (tr. it. p. 243).
24 Ibidem (tr. it. p. 244).
25 Cfr. Platone, Timeo, 25c-d, tr. it. Milano, Bompiani, 2000, p. 73.
26 Les dits du peintre, cit., p. 146.
27 De la couleur à la lettre, cit., pp. 232-233 (tr. it. pp. 245-246).
28 Ibid., pp. 233-234 (tr. it. 247).
29 Ibid., pp. 235-236 (tr. it. 249). Il nesso tra pittura e danza viene sottolineato più volte nei testi teorici di Atlan: cfr. Les dits du peintre, cit., pp. 147-150, 152.
30 Tema da lui affrontato, in particolare, nelle lezioni raccolte nei libri postumi Hospitalité. Volume I. Séminaire (1995-1996), Paris, Éditions du Seuil, 2021 e Hospitalité. Volume 1I. Séminaire (1996-1997), ivi, 2022.
31 Si tratta di Calypso I e Calypso II, entrambi del 1956, poi di Calypso III, del 1958.
32 Omero, Odissea, VII, vv. 254-258, tr. it. Torino, Einaudi, 1963; 1984, p. 191.
33 Ibid., I, vv. 51-54, p. 5.
34 De la couleur à la lettre, cit., p. 238 (tr. it. p. 251).
35 Ibidem.
36 E. Levinas, Totalité et infini. Essai sur l’extériorité, La Haye, Martinus Nijhoff, 1961; Paris, L.G.F., 1990, p. 334 (tr. it. Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Milano, Jaca Book, 1980, p. 308) e Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, La Haye, Martinus Nijhoff, 1974; Paris, L.G.F., 1990, p. 177 (tr. it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Milano, Jaca Book, 1983, p. 140).
37 J. Derrida, Le mot d’accueil (1996), in Adieu – à Emmanuel Levinas, Paris, Galilée, 1997, p. 91 (tr. it. La parola d’accoglienza, in Addio a Emmanuel Levinas, Milano, Jaca Book, 1998, p. 112).
38 Ibid., p. 92 (tr. it. p. 113).
39 E. Levinas, Jean Atlan et la tension de l’art, nel catalogo Atlan. Premières périodes, 1940-1954, Paris, Adam Biro, 1989, pp. 19-21.
40 Ibid., p. 19.
41 De la couleur à la lettre, cit., p. 239 (tr. it. p. 252).
42 Jean Atlan et la tension de l’art, cit., pp. 20-21.
43 De la couleur à la lettre, cit., p. 239 (tr. it. p. 252).
44 E. Levinas, Sans identité (1970), in Humanisme de l’autre homme, Saint-Clément-de-Rivière, Fata Morgana, 1972; Paris, L.G.F., 1987, p. 143 (tr. it. Senza identità, in Umanesimo dell’altro uomo, Genova, Il Melangolo, 1985, p. 142).
45 Les dits du peintre, cit., p. 151.
46 De la couleur à la lettre, cit., p. 241 (tr. it. p. 254).
47 Ibidem.
48 P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, vol. I: Il pensiero immaginale (edito postumo nel 1956), tr. it. Milano-Udine, Mimesis, 2011, p. 17.

Jean-Michel Atlan