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*Il testo è tratto da “Nove modi di guardare una finestra”, in Il mondo senza Benjamin, Moretti & Vitali, 2014.
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La finestrella dell’abbaino abitato da Van Gogh ad Arles, le ampie vetrate sul Neckar dalla torre di Hölderlin a Tübingen. Non sono queste le immagini per eccellenza della nostra memoria colta sull’esperienza creativa della follia? Finestre, ancora. Varchi tramite i quali dar forma all’estremo, oppure, partendo da un’altra angolazione per giungere, in fondo, al medesimo, traslati analogici di un fenomeno di rottura interiore (per il quale esiste un nome che basta da solo a spaventare noi cosiddetti sani: schizofrenia) che dissolvendo i confini fra lo spazio proprio e lo spazio esterno rischia di non lasciare più alcun punto d’appoggio: e sicuramente non il corpo, frantumato anch’esso nel contesto di una nientificazione – ben nota alla psichiatria – dello spazio vissuto.
Dall’invetriata di Campana alla “chiusa porta” di Piccoli e oltre, per sostare, adesso, nell’ambito circoscritto del novecento poetico italiano, la finestra s’accampa come una vera e propria forma poetica originaria, sorta come una specie di apparizione per irradiamento dal fondo stesso della malattia mentale.
L’esistenza demonica, la tendenza irrefrenabile ad andare oltre se stessi, ad affermarsi senza sosta nel terrore e nell’estasi, va considerata anche al di fuori della psicosi. Ma tutto, in alcuni, poeti o non poeti, artisti o non artisti, accade come se il demonico, che nell’uomo ordinario è come represso o sedato, all’inizio, almeno, di certe malattie riuscisse a saltar fuori, ad aprirsi un suo luogo d’elezione. E questo è conseguenza, occorre precisarlo, non di una malattia nello spirito, che negli artisti come in chiunque appare estraneo all’opposizione tra salute e malattia, ma del processo stesso della malattia, che dà l’occasione, per dir così, dell’apertura di quel varco. Per esprimermi in similitudine, in certi malati mentali è come se l’anima, abbandonata a un brivido metafisico che non è dato a tutti di conoscere, mostrasse all’improvviso la propria profondità per poi, disabitata dalle forze, cadere in rovina e trasformarsi in caos.
Per comprenderlo, questo movimento, dovremmo probabilmente rivolgerci a coloro che sanno renderlo manifesto: i geni artistici. Come scrive bene Blanchot: “In questo caso esiste già un’esperienza spirituale, di cui la schizofrenia s’impadronisce, e ciò che allora si crea, le esperienze e le figure, le forme e il linguaggio, hanno la loro radice nello spirito, sembrano legate alla sua verità e si possono concepire, a rigore, solo in rapporto a questo spirito; e però, senza la schizofrenia, non sarebbero state possibili, non avrebbero potuto manifestarsi in quella maniera.”
D’accordo, chioso io, ma lasciando stare il tipo supremo dell’umano, e tornando al tema che questa sera ci interessa, a me pare opportuno ricordare come nella forma di vita schizofrenica – al di là o meno, dunque, della capacità di un singolo di elevarla alla verità di una forma oggettiva – sia in gioco un’esperienza d’angoscia radicale, cui corrisponde la totale negazione di ogni soggettività. Nella “follia” schizofrenica il livellarsi e lo sprofondare di ogni distanza e di ogni articolazione spaziale crea una circolarità rovesciata dallo spazio altrui allo spazio proprio. Frantumato e devastato, è il corpo stesso dello schizofrenico ad assumere la funzione di mediazione spaziale che sarebbe logico, altrimenti, attribuire alle finestre. Solo che, senza più corpo, lo schizofrenico ha spento in sé ogni tensione dialettica, e ciò che vede, le ombre fantasmatiche e dissolventi delle figure del mondo, non corrisponde più, letteralmente, a nessuno che le veda.

